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Lo storione e l’Alta Langa

Acqua dolce e bolle di montagna

Silvio Salmoiraghi è uno Chef in perenne evoluzione, nonché un palato caratterizzato dalla straordinaria capacità compositiva, capace di ordire gli accostamenti più inediti, alla ricerca del bilanciamento perfetto. Inutile dire che, per fare questo, ci voglia sensibilità mentale e un solido impianto culturale fatto di conoscenze tecniche, storiche ed enciclopediche. Allievo di Gualtiero Marchesi, del Maestro magnifica nel piatto la sensibilità estetica, intesa come un’estensione di quella gustativa, e ciò diventa lampante nei piatti in cui convivono tra loro spinta amara, acida e sapida, così come accade nella rilettura dello storione alla ferrarese, qui in bianco, associato all’Alta Langa di Marcalberto.

Meglio se in sboccatura non recente, questo Metodo Classico si sposa con lo storione, e col suo caviale, dialogando amorevolmente anche con la nota amare dell’oliva e con quella, più umamica, del sedano rapa, complice anche il dosaggio, di appena 3 g/l. Da una selezione da uve di un’unica vendemmia, di cui solo il fiore della pressatura andrà a far parte della cuvée, questo Alta Langa è composto di pinot nero e chardonnay fermentati e maturati, per 7 mesi circa, in legni usati, con bâtonnage settimanale. Dégorgement mai prima dei 36 mesi per questo grande esemplare di bolla nazionale.

Silvio Salmoiraghi, o del talento 

Il talento di un cuoco è il palato, senza palato non è nulla”. Questa frase, presa in prestito a Mauro Uliassi, definisce perfettamente cos’è, secondo noi, il talento culinario. Potrebbe apparire riduttivo, a tratti scontato, ma in realtà i cuochi con un palato raffinato sono pochi. Uno di questi alberga e officia in quel di Fagnano Olona. Palato non solo inteso come dote fisica, che è ben presente, con la capacità compositiva dei sapori più inediti e la ricerca del bilanciamento perfetto. Palato inteso anche come sensibilità mentale, e culturale (anche qui, definizione presa in prestito dal nostro Gianni Revello). Ciò significa una profonda conoscenza delle tecniche, della storia, delle preparazioni della cucina classica. Solo così un cuoco riesce, nella sintesi di tutte queste doti, a fare la vera differenza.

Silvio Salmoiraghi, trascorsi importanti con il maestro Gualtiero Marchesi, docente per lungo tempo alla scuola ALMA, lo ripetiamo spesso, è tra i cuochi più sottovalutati dello Stivale. Gli si rimprovera spesso, anche noi lo facciamo, che la sua cucina, seppur fantastica e non ordinaria, è spesso statica e uguale a se stessa. Vero è che i piatti e le preparazioni sono quasi sempre le stesse, in carta, ma ad ogni visita che farete troverete sfumature e importanti variazioni su proporzioni, geometrie e ingredienti. Il piatto evolve, insomma, e lo fa continuamente, al punto che non è mai uguale a se stesso. Ricordiamo nitidamente un grandissimo colpo da maestro che inflisse Salmoiraghi con Vongole e fichi, abbinamento apparentemente assurdo che, però, portò molti colleghi presenti al consesso di Spessore, in Romagna, a strabuzzare occhi e palato.

Salmoiraghi è capace di questo, di infliggere colpi gustativi come nelle Lumache alla finalina o nell’Omelette suprise, in cui il gioco è indovinare tutti gli ingredienti presenti per comprendere sino in fondo dove arriva il talento di questo straordinario cuoco. L’equilibrio degli abbinamenti e delle proporzioni è tutto, e proprio in questo piatto l’esercizio di stile lascia il passo alla meraviglia del gusto. Gusto tutt’altro che ordinario e confortevole, ma con la giusta e moderata spinta amarotico-sapido-acida. Per poi approdare, infine, a una rilettura contemporanea, anzi proiettata nel futuro remoto, del Filetto alla Rossini in cui il fondo vegetale, la melanzana e il sedano rapa sostituiscono la proteina animale egregiamente. Un piatto vegano di una bontà e profondità uniche e inarrivabili.

Un plauso anche al socio e co-chef Choi Cheulhyeuk, ormai in simbiosi totale con il maestro varesino e suo stimolo costante. Cosa manca affinché pubblico e critica si accorgano che, qui, esercita tutto il suo talento uno dei più straordinari cuochi dell’era contemporanea ? Secondo noi, nulla.

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Ritorno al futuro, e la sua ricetta

Prendiamo spunto da una riflessione di questo periodo sulla direzione che sta prendendo l’alta cucina italiana e, per estensione, tutto il movimento gastronomico, per introdurvi una nostra nuova creatura, sottoporvi, con essa, una riflessione, e regalarvi, infine, la ricetta di un piatto di pasta.

L’analisi della ristorazione italiana contemporanea può sintetizzarsi nella metafora della giacca del cuoco: tirata per il bavero dai paladini della tradizione e del territorio – termini tanto generici quanto insignificanti se non contestualizzati – conservatori di una presunta identità italiana e del suo mantenimento a tutti i costi da un lato,  bistrattata dall’altro dai paladini dell’avanguardia: amanti della stravaganza fine a se stessa e perciò vuota, priva di direzione e di contenuto e spesso logora da un punto di vista imprenditoriale e, per taluni versi, anche creativo.

L’uno per l’altro rappresentano il male della ristorazione: imputati parimenti colpevoli di promuovere modelli assurdi e inconsistenti in nome dell’avanguardia così come della stagnazione più paludosa e inane.

Sarà che siamo critici, fatto sta che crediamo in un atteggiamento laico e, di conseguenza, più equilibrato e inclusivo possibile: un atteggiamento che si identifica con la famosa locuzione latina in medio stat virtus la quale, in becero volgare, vuole che l’occhio attento della critica moderna, ma a maggior ragione anche del pubblico, si rivolga con equanime disposizione d’animo tanto alle tradizioni e al territorio della cultura culinaria italiana quanto alle reinterpretazioni della stessa: è del resto solo così che, in taluni casi, nei casi più felici, invero, la tradizione si proietta nel futuro. E oltre.

Il laicismo del critico: le implicazioni

Questo pensiero contiene infinite sfumature e accoglie, per sua natura, la pluralità espressiva di un linguaggio culinario contemporaneo assegnando pari dignità tanto al cuoco fedele alla tradizione che opera, magari, di buona di lima sulle ricette di un tempo, quanto a colui che, fedele ai propri principi e alle proprie basi, proietta nella contemporaneità o, addirittura, oltre, una ricetta, un grande prodotto, un dogma della tradizione, evolvendolo.

Il filo conduttore per entrambi deve essere uno e uno solo: il prodotto che, frutto dell’elaborazione, deve auspicabilmente implementare il suo livello di apprezzamento, posto che anche il concetto di bontà presenta a sua volta implicazioni complesse come la freschezza, la tecnica di manipolazione, l’assenza di additivi e di sofisticazioni chimiche, l’estro e, ultimo ma non ultimo, un certo amore: una cura.

Poi, tra le risultanze appartenenti al mondo del buono, e con pari dignità, possiamo pure contemplare la grandissima elaborazione di una tagliatella al ragù così come un altro piatto di pasta proiettato, invece, come un dardo verso il futuro. Un piatto di pasta, sì, può contenere passato, presente e futuro della cucina italiana.

Ecco quindi che, per noi, i Camanini, i Baronetto, i Romito, i Bottura, gli Alajmo, i Crippa, i Santini, i Cerea, gli Esposito, i Cuttaia, gli Uliassi, i Pinchiorri, e potremmo continuare oltre, sono diverse facce della stessa medaglia: facce di un grande movimento, quello della Nuova Cucina Italiana, che guarda in entrambe le direzioni tante sono le digressioni verso il passato quanto più veementi le sue proiezioni verso il futuro.

Passione Pasta

È stato comprendendo questa moltitudine di significati, e questo duplice, fecondissimo orientamento contenuto nella pasta, che abbiamo cominciato a immaginare uno spazio interamente dedicato a essa e che abbiamo chiamato Passione Pasta, dove cercheremo di dare conto dell’infinito livello di complessità, anche semantica, di questo  manufatto, simbolo della cucina italiana.

E di cui vi diamo un assaggio con gli spaghetti pensati e realizzati da Silvio SalmoiraghiCheolmyeok Choi all’Acquerello di Fagnano Olona. Qui, l’incontro con l’inusuale, con l’avanguardia si fonde con l’omaggio al grande, indimenticabile Maestro Gualtiero Marchesi, impastando della stessa materia gustativa l’alto col basso, la miseria con la nobiltà.

Come il cacio e l’amido, qui portato a una temperatura inusuale, ruffiani e avvolgentemente grevi, ad arrotondare il profilo spigoloso e gustativamente estremo della radice di liquirizia e dell’arancia amara mentre la menta, balsamica, assieme al succo di cipollotti funge da conduttore del gusto, estensione del medesimo. Il gioco è fatto: la contemporaneità è servita con un brodo di crostacei e tè bianco, in accompagnamento a parte.

Il piatto di pasta simbolo della cucina italiana, gli spaghetti bianchi, virginali e quasi intonsi, sono proiettati in un futuro gustativo che, risultando contemporaneo, pesca nella memoria di ognuno di noi.

Omaggio a Marchesi: Lo spaghetto assoluto

La ricetta

160 g spaghetti dei Monti Sibillini
1 succo di arancia amara
4 g menta in foglie
4 g di origano secco
1 radice di liquirizia
il succo di un cipollotto di Tropea
20 g pecorino romano

Brodo di scampi
1 kg teste di scampi
100 g radici di prezzemolo
50 g porro
10 g tè bianco
5 g pepe in grani
5 g chiodi di garofano
2 spicchi d’aglio
q.b. sale grosso
q.b. acqua

Preparazione:

Per il brodo di scampi inserire tutti gli ingredienti in una pentola a pressione, tranne le teste degli scampi. Lasciar cuocere per circa un’ora. Aprire la pentola e metterci sopra un velo di pellicola; lasciar riposare per una notte in frigorifero, in modo da ottenere un’infusione. Il giorno successivo, riportare a ebollizione il brodo con le teste degli scampi per circa 20 minuti. Filtrare il tutto con l’etamina, all’ultimo momento aggiungere le rimanenti teste di scampo tritate e gli scarti della polpa. Chiarificare con pochissimo bianco d’uovo e foglie di tè bianco.

Per la pasta, pelare l’arancia amara a vivo, far appassire con pochissimo olio extravergine d’oliva fino a ottenere una composta di arance amare. Pulire il cipollotto, frullarlo, ed estrarne il succo a freddo e conservarlo in frigorifero. In un piattino grattugiare il pecorino. Lavare e tagliare la menta a julienne. Cuocere la pasta in abbondante acqua salata e raffreddare, fino a portarla a una temperatura di 30°c. Condirla con pochissimo olio extravergine di oliva del Garda. Sul fondo di una fondina, grattugiare pochissima radice di liquirizia. In un angolo, disporre un cucchiaino di confettura di arancia amara, all’opposto il pecorino con sopra la menta a julienne e il succo di cipollotti. Posizionarvi sopra la pasta.

Quali sono i piatti che più ci sono mancati in questo 2020 appena trascorso? Eccovi una carrellata di piatti memorabili: bocconi che ci hanno fatto sobbalzare dalla sedia e che si sono impressi con così tanta efficacia, e altrettanta ferocia, nella nostra memoria, che ci è ancora possibile rievocarli, in attesa del tanto anelato bis.

Alberto Cauzzi

La lièvre à la royale, mio piatto feticcio, di Luigi Taglienti al Lume. Un piatto che, pur mantenendo legame e attinenza filologica con la trazione, si proietta nel futuro attraverso piccoli tocchi e dettagli che lo rendono raffinato e avanguardista.

Andrea Grignaffini

Mi manca la cucina di caccia che infiammava gli antichi inverni di Igles Corelli. Per un ritorno alla normalità, però, non vedo l’ora di gustarmi la super-classica Carbonara dell’Osteria Angelino di Milano.

Orazio Vagnozzi

Riso, pane e pepe nero con riduzione di Marsala, di Davide Oldani al D’O. Piatto goloso e raffinato, che interpreta in modo del tutto originale il piatto tipico della cucina lombarda, il risotto, usando ingredienti poveri. Il risultato è da leccarsi i baffi.

Alessandro Pellegri

Uno dei piatti di cui più sento la mancanza è Acqua Olio Limone Liquirizia, di Luigi Taglienti: questa entrée mi manca non come piatto a sé, ma in quanto costante preludio dei sublimi menù degustazione di Luigi Taglienti, sempre presente, negli anni, in tutti i ristoranti in cui ho avuto il piacere di provare la sua cucina. E non vedo davvero l’ora di tornare a farlo.

Davide Bertellini

Senza ombra di dubbio la lièvre à la royale dello chef Antonio Guida al Seta. Un piatto che ho assaggiato diverse volte, un confort food d’eccezione di cui ho sentito parecchio la mancanza… Fortunatamente presto colmerò il vuoto.

Erika Mantovan

Le Cicale di mare, tapioca e bergamotto di Enzo Di Pasquale  ad Aprudia. Un tuffo nel mare, il sale invade ogni cosa. Stuzzica, solleva, agisce: al palato c’è un velours che non lascia intravedere i confini, il piatto afferma quanto promette, arricchendosi di parti più acide e amare, grazie alle perle di tapioca.

Leila Salimbeni

Le capesante, il midollo e il brodo di fagioli di Matteo Baronetto, e l’abilità di utilizzare il veicolo lipidico del midollo come prisma per modulare almeno due tipi di sapidità: quella, umamica, del brodo di fagioli, e quell’altra, più dolce, della capasanta. Un piatto che è la conciliazione perfetta tra libido e intelletto.

Leonardo Casaleno

L’inimitabile vitello tonnato di Diego Rossi, da Trippa. Un vuoto quasi incolmabile nella normalità della vita milanese di un appassionato di cibo.

Giovanni Gagliardi

Dim Sum ripieni di coscia di piccione al brodo con thè nero e anice di Silvio Salmoiraghi, ovvero della concentrazione dei sapori. Ti resta a lungo in bocca e per sempre in mente. Entusiasmante. 

Claudio Persichella

Patate, caviale, dragoncello, burro affumicato, spinaci e coquillage del sommo Troisgros, ovvero quando artigianato e arte hanno confini che diventano sfumati e indistinguibili: sensibilità, raffinatezza e gusto sono legate in un ricordo che scatena, parimenti avvicendate, malinconia ed euforia.

Giacomo Bullo

Il cappuccino murrina del Gran Caffè Quadri degli Alajmo. Non ci stancheremo mai di questo piatto e di tutte le sue declinazioni, sempre centrate! Tuttavia la golosità di questa versione, in ogni boccone, è un caleidoscopico viaggio tra i sapori nella laguna veneziana. La cremosità della crema di patate unita alla sapida carnosità dei molluschi catapulta l’avventore nel più bel salotto del mondo: Piazza San Marco. Conturbante!

Gianpietro Miolato

Il mare di frutta all’arancia, a Le Calandre di Massimiliano Alajmo: l’Alajmo-pensiero fatto piatto, e, per di più, come antipasto. Gioco di contrasti tra consistenze e sapori, alternanza tra morbidezza e croccantezza, eleganti passaggi tra dolcezza e acidità, il tutto senza dimenticare pulizia e golosità in chiusura. Confortevole per chi ama la rotondità; ragionato per chi ama l’introspezione. In una parola: universale.

Adriana Blanc

L’entraña del The Brisket è un tenerissimo taglio di manzo, nello specifico Black Angus americano, allevato libero. Il morso sprigiona i succhi sapientemente conservati all’interno, rivelando un boccone particolarmente ferroso e saporito. Attenzione, però, alle controindicazioni, perché questo piatto dà dipendenza.

Silvia Izzi

La mano delicata e decisa di Davide Caranchini a Cernobbio nel piccione cotto in crosta di sale e fave di cacao in due servizi: un viaggio di andata verso Oriente, e ritorno, qui in un succulento petto di piccione con burro alle spugnole, biete scottate ed estratto di alloro. Il burro alle spugnole trova il suo contraltare nella nota amaricante dell’estratto di alloro. Una gioia per le papille gustative.

Francesco Zito

Il risotto alla pescatora di Antonio Zaccardi al Pashà di Conversano: un piatto classico della tradizione italiana reinterpretato in chiave contemporanea. Riporta alla mente gli anni Ottanta, è ricco e gustoso, richiama il mare del Sud e, in un certo senso, riporta alle feste di una volta, che tanto ci mancano. 

Carlo Nicolo

Insalata 21, 31, 41… 121 di Enrico Crippa al Piazza Duomo di Alba. Un piatto che nella sua apparente semplicità scatena reazioni sinaptiche complesse che attivano e stimolano tutti i sensi; un giardino lussureggiante, un dedalo di vegetali nel quale è un piacere perdersi  dolcemente. Capolavoro!

Antonio Sgobba

I ravioli di melanzana con ventricina e crema di olive Nolche di TrippaDiego Rossi è un bravissimo cuoco di cui tutti celebrano le capacità di valorizzare gli ingredienti poveri e il quinto quarto; tuttavia, ritengo che il meglio di sé lo dia coi vegetali. Infatti, a un’attenta selezione della materia prima affianca un’ottima tecnica con cui riesce ad esaltarne tutti i sapori. Questi ravioli dalla sfoglia sottilissima racchiudono un fondente di melanzana dolce e concentrato che trova nella salsa di olive il contrasto amaro. La ventricina dà la parte grassa al piatto e un piacevole finale piccante al boccone. Un piatto assaggiato a fine estate, fortemente evocativo di cui ho sentito la mancanza nelle fredde giornate di “forzata reclusione” autunnale.

Luca Nicoli

Il riso all’aglio nero di Riccardo Camanini. Forse anche per i ricordi legati al Lido 84, oltre che per la perfezione del piatto in sé: il riso contemporaneo per definizione. Eccellente anche quello con scampi olio di fragole e acqua di governo provato nell’ultimo menù: cremoso e perfettamente equilibrato nella sua dolcezza.

Sinfonia italiana dei sapori

In un locale, all’interno di una corte, con interni retrò, si vive una esperienza gustativa di livello decisamente elevato. Un cuoco, Silvio Salmoiraghi, che si può assolutamente considerare uno degli allievi più bravi di Gualtiero Marchesi, lavora sulla attualizzazione e valorizzazione dei classici della cucina italiana. La dichiarazione che si legge all’interno del menù di Acquerello è che, nell’ottica di una visione nuova della cucina italiana, si cerca di sviluppare nelle degustazioni una cucina in stile kaiseki, rispettando la tradizione e la grande materia prima del nostro paese. Salmoiraghi ha un talento puro, cristallino, è un direttore d’orchestra, un compositore di spartiti con un pentagramma palatale che fa arrivare e percepire ogni singola nota in modo chiaro e distinto. Gioca con grande maestria ed equilibrio con tutte le tonalità: dolce, salato, acido, amaro. In molti piatti si chiede espressamente di non mescolare gli ingredienti proprio per farli percepire nella loro forza, prima singola poi sinergica.

Acquerello: un viaggio nella cucina italiana

Nel suo menù degustazione si susseguono piatti classici ovviamente reinterpretati con una nuova concezione, rispettando sempre i diversi ingredienti “storici”. Si dichiara espressamente che nella sua cucina non viene utilizzato nessun elemento chimico e nessuna cottura sottovuoto. Si inizia l’esperienza con un uovo che al suo interno sorprende per il susseguirsi di diverse temperature e di sapori. L’attualizzazione dello storione alla ferrarese gioca perfettamente fra i vari registri alternando dolcezza, sapidità e amaro grazie alla presenza dell’oliva al naturale, il caviale e il sedano rapa. Si fa un viaggio strepitoso in Italia con la capasanta di Venezia, cotta al vapore con acqua alla menta e ricoperta di polvere di felce, accompagnata da yogurt valdostano, cavolo nero, bergamotto, cozza pelosa pugliese in salsa di acqua dolce. I ravioli in scapece hanno diversi ripieni: scarola, oliva, pomodoro, mozzarella, anguilla, con salsa doppia panna, cerfoglio e erba cipollina e ti sorprendono ad ogni assaggio. Il tenerissimo cuore di collo di fassona crudo con carciofo alla mugnaia è servito con due salse eccellenti, una al burro e limone e l’altra con il sugo d’arrosto e cipolla bruciata. Il colombaccio con una deliziosa salsa al cibreo, fatta con le rigaglie e il sangue  è voluttuoso, così come il raviolo ripieno della coscia in brodo è delizioso.

Il pre dessert salato, il carpione di mare è un suo classico ancora attuale ed esemplificativo di quanto riesca ad equilibrare “con forza” l’acidità dei due aceti con la dolcezza del gambero crudo e il fritto dei calamaretti spillo. Al momento è prevista solo la possibilità di avere un unico menù degustazione ma, in controtendenza, sembra che voglia passare ad un menù solo alla carta, staremo a vedere.

Ebbene, nonostante il reiterarsi nel corso degli anni di piatti costruiti con stili e concetti anche molto simili tra loro, degustare la cucina di Silvio Salmoiraghi significa avere a che fare con una forte personalità e, pertanto, con quel quid che la rende sempre sorprendente, sempre speciale; sempre memorabile.

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