Passione Gourmet Gianluca Gorini Archivi - Pagina 2 di 3 - Passione Gourmet

La Lepre in cucina

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

La tradizione rivisitata di Gianluca Gorini

Nonostante la giovane età (37 anni), Gianluca Gorini vanta un curriculum di prim’ordine: in cucina da quando di anni ne aveva 15, sui fornelli del ristorante di famiglia, lo chef marchigiano (o come ama definirsi lui: “cuoco”) completa la propria formazione presso le importanti realtà di Paolo Teverini, Francesco Bracali, Paolo Lopriore, ma anche al Monsieur Max di Alex Bentley, a Londra.

Ristabilitosi in Italia, l’anno di svolta è il 2013, quando prende in mano le redini de Le Giare, a Montiano. L’esperienza dura fino al 2017, momento in cui Gorini rileva l’ex locanda Gambero Rosso a San Piero in Bagno e la trasforma nell’odierno DaGorini, che conduce con successo coadiuvato dall’aiuto, in sala, della moglie Sara Silvani. Il connubio può dirsi oltremodo riuscito: a novembre 2019, a meno di due anni dall’apertura, è infatti giunta l’assegnazione della prima stella Michelin.

L’inquadramento di cui sopra non è semplice aneddotica, ma è strumento utile a definire il tipo di personalità che anima la sua cucina: coraggiosa nel puntare su una reinterpretazione della tradizione filtrata attraverso l’originale registro dell’alternanza tra acido e amaro, ma al contempo lucida nel garantire riconoscibilità e immediatezza al fine di non spiazzare il commensale. A ciò si unisce, poi, un uso della componente vegetale tutt’altro che marginale, ma teso a creare un vero e proprio sostrato di gusto tra le portate.

Tra acido e amaro, un percorso con piatti coraggiosi e indimenticabili

Nel corso della nostra visita abbiamo avuto modo di vivere un percorso felice e riuscito, in cui l’indiscutibile padronanza della tecnica ha dato vita a piatti tanto ragionati a livello ideale quanto precisi a livello palatale.

La portata simbolo è stata senza dubbio il risotto al finocchio, estratto di camomilla e limone, vero e proprio signature dish dell’intero Gorini-pensiero il quale, partendo da una cottura eseguita con acqua di finocchio (estratta a freddo e aromatizzata con anice stellato, finocchietto e scorza di limone)  e passando per una mantecatura con burro acido, parmigiano e clorofilla di finocchietto e una base di limone ed estratto di camomilla, ha alternato la lunghezza amaricante della camomilla, la freschezza balsamica del finocchietto, la sapidità del formaggio, per chiudere con la gentile acidità del limone a pulire e rilanciare al boccone successivo. Né più né meno, insomma, che un piatto da KO tecnico.

Meritorio si è rivelato pure il capriolo marinato, salsa alla senape, cipolla di Tropea, olive di Taggia e frutti rossi, in cui l’acidità della marinatura si è perfettamente accordata per contrasto con la senape, trovando nell’aneto e nel cerfoglio una freschezza finale che ha nuovamente conferito lunghezza e pulizia al palato.

Sul versante dolci ci ha colpiti lo splendido Fucsia: rabarbaro al gin, crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, altro riuscito esempio di innesto d’acidità, questa volta attraverso la duplice natura dei lamponi, in sorbetto e frutto intero, a stemperare la crema di mandorle e ad accordarsi con la leggera patina amara del rabarbaro.

Leggermente inferiore alle aspettative il maialino di mora romagnola alla vaniglia, arachidi, carota e mostarda di agrumi, in cui la mostarda di agrumi è risultata poco incisiva nell’alternarsi al pur ottimo maialino. Ma è un dettaglio che non intacca la resa complessiva del pranzo.

Non possiamo che dirci, insomma, piacevolmente soddisfatti dell’esperienza e ci auguriamo questo sia l’inizio di un percorso che, ne siamo certi, avrà ancora molte gioie da regalarci.

La Galleria Fotografica:

Cento di queste forchettate

Abbiamo deciso di suggellare la fine di questo anno solare con un’inconsueta classifica, la nostra classifica, dedicata all’italianità a tavola per antonomasia: la pasta. Per risvegliare il senso di appartenenza e, se non proprio l’amor patrio, quantomeno il gusto di essere italiani e così introdurvi, piatto dopo piatto, forchettata dopo forchettata, uno dei nostri progetti più ambiziosi di questo imminente 2020.

ALBERTO CAUZZI

Cappelletti alla genovese, zuppa forte di piccione, yogurt acido, lampone e funghi di Antonino Cannavacciuolo

La pasta ripiena è spesso utilizzata dallo chef partenopeo per perseguire il suo credo legato alle contaminazione tra Nord e Sud, tra la sua terra adottiva e la sua terra d’origine. Una commistione realizzata con classe ed eleganza estrema, come in questa pasta in cui la genovese del ripieno, dolce e sugosa, si amalgama incredibilmente con il dolceforte di piccione. Chiudono il cerchio le acidità di yogurt e cristalli gelati di lampone, la terrosità del brodo di funghi e il piccione, dalla nota ematico-piccante: un piatto tanto classico, tanto italiano, tanto sottile ed elegante, oltre che profondo e contrastato. Un inno alla pasta italiana.  

ANDREA GRIGNAFFINI

Cacio e 7 pepi alla brace di Errico Recanati

Sulla base dello stile narrativo di Errico Recanati che triangola spiedo, griglia e fumo ecco una Cacio e Pepe che parte dalla cottura della pasta alla brace, ovviamente dopo pre-cottura in acqua bollente prima e passiva poi. La brace quindi interviene in ripasso (per 5/6 minuti) con tecnica del cappello. Così si ottiene una sorta di breve affumicatura a caldo.  Il cacio si sdoppia tra la classicità del Parmigiano e il genius loci del Formaggio di Fossa che moltiplica peraltro l’idea di affumicatura. La base casearia è pronta per essere innervata dai 7 pepi mixati ad hoc: Timut, Lungo, Selvatico del Madagascar, Verde naturale della giungla, Bianco, Sichuan, Nero di Sarawak. L’affumicato precede il boccone, l’amido dello Spaghettone Benedetto Cavalieri si diffonde sul cacio, il pepe riverbera e punteggia.

ORAZIO VAGNOZZI

Pasta agli anemoni di mare di Antonio Guida

Il mare nel piatto in un’interpretazione tanto personale – quella di Antonio Guida – quanto universale, nei colori, nei profumi, nei sapori e nelle consistenze. Un piatto dall’equilibrio perfetto.

DAVIDE BERTELLINI

Le tagliatelle di patate con tartufo bianco d’Alba di Matteo Baronetto

Tanto semplice quanto straordinariamente buono: la consistenza incredibile della pasta di patate con cui sono realizzate le tagliatelle e lo spessore perfetto con cui sono tirate ne fanno il piatto di pasta antonomastico dell’anno appena trascorso.  Un mix di sapori, consistenze ed emozioni che rimandano all’ infanzia ma, al tempo stesso, alla contemporaneità e al grande carattere, oltre che alla filosofia, di questo grande chef italiano.

ALESSANDRO PELLEGRI

La Lasagna alla Bolognese di Luigi Taglienti

Un piatto realmente popolare, di cui è difficile – per non voler utilizzare il termine “impossibile” – trovare due versioni uguali in due case diverse. Nella versione proposta da Luigi Taglienti esso viene preso e, senza snaturarne né l’idea, né la forma né tantomeno l’esecuzione, viene sparato nell’iperspazio dell’alta cucina: gusto, finezza, golosità e italianità all’ennesima potenza. Un piatto in grado di posizionarsi, con pari spessore e dignità, tanto in una proposta alla carta quanto in un menù degustazione. Sublime.

Lume, Luigi Taglienti

LEONARDO CASALENO

Il tagliolino al tartufo di Diego Rossi 

Come può un piatto di pasta arginare l’idea di un cibo popolare? Basta mettere molti tuorli e tirare un tagliolino di callosità ed elasticità inappuntabili, unire brodo di pollo con tanto Parmigiano Reggiano e tantissimo burro, mantecare il tutto e, dulcis in fundo, affettarci sopra qualche fetta di tartufo bianco. Solo già la salsa che ne sortisce ha un equilibrio raro, che già parla per sé, ma l’allungo irresistibile del tubero lo rende magico. È la magia di un piatto semplice che si veste d’opulenza, in trattoria, lì dove alta cucina e tradizioni danzano senza soluzione di continuità.

ROBERTO BENTIVEGNA

Garganelli con astice, porcini e tartufo nero di Nicola Portinari

Il piatto “inclusivo”: capace di unire invece che dividere, che mette d’accordo tanto il gourmet quanto il gourmand, il seguace della creatività così come il fedele alla classicità estrema. Perché è semplicemente perfetto, per gusto, tecnica e precisione stilistica. Un grande classico de La Peca, un piatto da grandissimo ristorante.

GIACOMO BULLO…

Penne, burro ai ricci di mare, capesante essiccate, erbe spontanee e seppia ai carboni di Moreno Cedroni

Proprio un piatto di pasta consacra Moreno Cedroni al rango del fuoriclasse: un piatto assoluto dove la carica gustativa della capasanta è amplificata grazie all’uso della liofilizzazione, cui si unisce il vigore delle erbe selvatiche essiccate e poi passate sulla brace e la seppia appena scottata. La nota empireumatica del fuoco impressa sulle erbe si sposa con la dolcezza del riccio regalando sentori e ricordi di una grigliata di pesce sul mare del litorale di Marzocca.

…e FILIPPO BOCCIOLETTI

Più che un piatto di pasta “il” piatto di pasta, tale da rappresentare, iconograficamente, il manifesto del corso nobile del celebre carboidrato italico. Innanzitutto al posto della posata classica è sagacemente imposto all’ospite l’uso di una pinza, che costringe a gustare le penne una ad una: il ritmo “lento” va a nobilitare l’elemento nazional-popolare. Poi, la mano del maestro fa il resto: il burro ai ricci di mare insieme alla polvere di capesante dona sapidità, l’ortica e le seppie ai carboni l’amaricante e una textura da manuale, per un equilibrio d’insieme di ingredienti apparentemente antitetici davvero superlativo. La stellina composta di ricci di mare liofilizzati, da sbriciolare tra le dita sulle penne completa il servizio, confermando una tecnica all’avanguardia ma anche quella componente ludica tanto caratteristica di Moreno Cedroni. Un piatto che, a distanza di mesi, è ancora ben impresso nella memoria.

CLAUDIO PERSICHELLA

Pasta e cipolla di Andrea Leali

Un grande piatto di pasta che con maestria e solo apparente semplicità si anima degli ingredienti che lo compongono, in questo caso differenti tipologie e cotture di cipolla, tirandone fuori un concerto di sapori con gradazioni che si avvicendano in modo sorprendente e definito.

LEILA SALIMBENI

Spaghetto mantecato al burro di genziana, caciotta di capra, scorzetta di bergamotto candito di Gianluca Gorini

Servito alla fine del menù degustazione, una deflagrazione: un ko dei sensi. L’onda d’urto è spaventosa e somiglia alla carica, sia metaforica che letterale, di una capra appena uscita dal bosco: una capra che ha fatto incetta, per la precisione, di radici, cortecce e d’altre forme, tutte boschive, di amarezza. L’amaro purissimo della genziana e quello agrumato del bergamotto proiettano la percezione in una dimensione di gusto praticamente infinita: avanguardia pastorale.   

GIANPIETRO MIOLATO

Spaghetti freddi alla carbonara con uova di salmone e caviale di Massimiliano Alajmo

O di come semplificare la complessità con una profondità di pensiero impressionante. Dissimulazione e reinvenzione; nello specifico: la sapidità delle uova di pesce, in sostituzione del guanciale, e la base all’uovo a garantire quella rotondità capace di legare gli ingredienti, senza nostalgia, in un servizio a bassa temperatura. Una scelta straniante che permette tuttavia alla componente ittica di sprigionare tutta la propria potenza, facendo spiccare un salto vertiginoso, tanto immediato quanto ragionato.

FRANCESCO ZITO

Pasta mista in zuppa di crapiata, bisque di gamberi agli agrumi, crema di foie gras al Cardenal Mendoza, pesto di prezzemolo e tartare di gamberi  di Vitantonio Lombardo 

È un piatto visivamente ed emotivamente di impatto: è l’omaggio più bello e buono a Frank Rizzuti, compianto chef e prima stella Michelin in Basilicata. Gusto deciso, sapori netti, definiti e bilanciati caratterizzano una vecchia ricetta della tradizione materana, arricchita e nobilitata dal foie gras e dalla quenelle di tartarre di gambero. Il risultato è strepitoso… e commovente!

Vicino alle foreste casentinesi, il talento istintivo di Gianluca Gorini

Si muove lesto tra i tavoli, con movimenti  felini: è l’agilità istintiva dell’animale nel suo habitat naturale. Un habitat identificato due anni orsono quando, con figlio e compagna al seguito, abile donna di sala, Gianluca Gorini s’è insediato in questa dimora nel paese preappenninico di San Piero in Bagno, non lontano da Camaldoli e comunque vicino ai genitori di lei, già titolari di un’azienda agricola e di un allevamento di conigli, in un luogo così defilato che devi andarlo a cercare e dove, comunque, non si arriva mai per caso. 

Eppure, benché si tratti di un lunedì di fine maggio coi connotati di una giornata novembrina, il ristorante è al completo, gremito di voci di adulti festanti e dei giochi dei rispettivi bambini: sembra quasi di essere a casa, o comunque in famiglia, con la differenza che dietro ai fornelli si muove uno dei talenti e dei palati più brillanti, e più istintivi, del presente momento storico.

Un talento tale che verrebbe da immaginarselo chiuso in una sorta di autismo compiaciuto e che invece sa essere anche narciso perché conscio, crediamo, della sua missione, che altro non è se non quella di appagare rispondendo all’imperativo più puro e più tacito della cucina tutta, quello edonistico, tanto che pure i meno edotti si possano sentire legittimati a dire, dopo ogni piatto, semplicemente “che buono!“.

Una cucina ispirata, impeccabile e accessibile

Forse il migliore mai assaggiato, è il Coniglio alla diavola con maionese, erbe di campo e fave: un piatto dove le verdure hanno la medesima dignità della carne – leitmotiv, questo, di tutta la cucina goriniana – che è quasi porchettata nel jus della sua marinatura e ormai caramellata da una cottura che è parte stessa del repertorio degli ingredienti e che, del coniglio, restituisce la proverbiale, tosta asciuttezza irrorata però di umori animali ed essenza boschive. Un piatto, questo, in cui il virtuosismo risiede nel nascondere l’artificio, dissimulare la tecnica sembrando, appunto, semplicissimo.

Approccio simile, encomiastico, verrebbe da dire, per il Carciofo, che è uno studio sulla stratificazione dell’amaro più vegetale, quasi medicinale, del gambo e che traccia un tributo a Paolo Lopriore abbozzando una sensibilità di tipo bucolico che si corona poco dopo nei Pisellini con crema di latte, salicornia e aringa: un piatto povero, quasi agreste – dove lo spigolo sapidissimo dell’aringa viene contrastato dalla lattosità della crema e dalla tenera dolcezza del pisellino appena scottato – semplice ma assoluto come la saggezza del contadino.

Della Spoja lorda si dirà invece del profumo, quasi animale, profondamente ormonale che esalava dal piatto, umorale stratificazione di funghi, tabacco e tartufo nero e che ritroviamo acuito, benché più imbellettato, nella sensazione di pelliccia e fragole dello splendido boccone di Cervo alla liquirizia con fragole e rapa rossa. 

Del Piccione di Gorini, poi, s’è molto scritto: si tratta di un’esecuzione magistrale, evoluzione stessa del concetto di signature dish perché, una volta realizzato, è lui a segnare il suo fautore che non può più prescindervi. Buona parte del merito, oltre alla cottura millimetrica di ciascun taglio che, lo ricordiamo, per Gorini è parte stessa dell’ingredientistica locale (come la griglia romagnola), risiede nell’estratto di alloro e nel suo profumo solenne, quasi di incenso da chiesa; una sensazione estatica che viene presto spazzata via dalla carica, metaforica e letterale, di una capra appena uscita dal bosco, e dall’amaro puro della genziana che investe sensi e palato nello Spaghetto al burro, che la scorzetta di bergamotto proietta in una dimensione di gusto iperuranica, praticamente infinita. 

Golosissimi ma leggermente meno ispirati i dolci, canonicamente dolci e senza particolari virtuosismi, fatta eccezione per la crema di mandorle armelline a chiosa di Fucsia, del cui sapore continuiamo a sentire sia il riverbero che la mancanza. 

La Galleria Fotografica:

L’universo culinario, semantico e romantico, di San Valentino

Tra le competenze di un grande chef c’è, certamente, quella di disattendere le aspettative del palato medio. Di averne il coraggio e di saperlo fare, se non con tatto, comunque con stile. Si tratta di una tecnica o, meglio, di uno stratagemma: un modo per innescare nuovi significati, nuovi elementi di senso e, così facendo, permutare un significato ormai trito, liso dall’uso, e dal consumo, come quello di San Valentino, in qualcosa di nuovo e, possibilmente, in qualcosa di vivo.

Ma non crediate che si tratti di filantropia, ogni creativo lo sa bene: questo è anche un modo, se non il modo, di scendere a patti con le pur sacrosante ragioni commerciali della contemporaneità senza perdere il senso del proprio universo creativo.

Abbiamo quindi chiesto a quattro candidati d’eccezione, quattro interpreti privilegiati della ars culinaria contemporanea, di rielaborare la loro idea di San Valentino mediante quattro piatti, quattro ricette che prevedessero, inaspettatamente, l’uso della birra o come ingrediente o come abbinamento. È stato dando loro questa traccia, questo ingrediente totemico, che l’inventiva di ciascuno ha potuto reinventarsi, ritradursi, finanche ripensarsi, nel contesto enciclopedico di questo 14 febbraio.

Ecco il menu che ne è sortito!

Yoji Tokuyoshi e la Super Dry Pot 

1 l di latte

250 g di panna

300 g di patate con la buccia 

5 g di sale

100 g di zucchero

30 g di glucosio

30 g di burro 

5 grammi (a persona) di foie gras 

Pelare le patate e tenere le bucce. Tagliarle a dadini e cuocere in forno col burro e le bucce, che dovranno risultare tostate. A parte, mescolare gli ingredienti restanti, aggiungere le patate arrostite, e portare il tutto a 85°C. Lasciare in infusione fino a raffreddare il composto, filtrare e versare il contenuto in un sifone. Mettere in frigo e far raffreddare. Mettere la spuma su un cucchiaio e mettere, all’interno, 3 g di torchon di foie gras. Coprire con la spuma e mettere nell’azoto liquido. Quando congelato, spolverare sopra le nocciole tostate grattugiate e i petali di fiori.

Eugenio Boer e il Risotto con pancetta, ostriche, mela verde e Grolsch

240 g di riso Carnaroli Motta

80 g burro demi-sel

120 g Parmigiano reggiano

20 cl vino bianco secco

20 ostriche Fine de Claire

180 g di pancetta affumicata

1 mela verde Granny Smith

1 bottiglia di birra Grolsch

1 albume d’uovo

1,5 l di brodo vegetale

Prendere la pancetta affumicata, tagliarla a listarelle e farla sudare in una padella lionese sino a renderla croccante, recuperando il grasso, filtrandolo e conservandolo per la mantecatura. Prendere la mela e, con una parisienne, ottenere delle piccole perle che conserveremo in acqua acidulata. Le ostriche andremo a cuocerle nel loro guscio, a vapore, per 3 minuti a 83 gradi conservando il loro liquido. A questo punto faremo partire il risotto in modo classico, sfumando quando caldo con il vino bianco. A metà cottura aggiungeremo il grasso filtrato e porteremo a cottura mantecando in modo classico e aggiungendo 3/4 della pancetta arrostita; lo terremo all’onda ma non troppo, andremo a metterlo nel piatto adagiando le ostriche, le perle di mela verde e montando con un frullatore a immersione la birra, l’acqua delle ostriche e l’albume facendo una bella schiuma.

Gianluca Gorini e lo stinco di agnello alla birra Asahi Super Dry, arancia, garofano e cavolfiore

2 stinchi posteriori di un agnello 12 mesi

1,5 l birra Asahi Super Dry

1 cipolla bianca

20 g di chiodi di garofano

Foglie di alloro

1 arancio non trattato

1 testa di cavolfiore

1 mazzetto di timo al limone

Pepe in grani

Sale in fiocchi

Olio evo

Aceto bianco

Per lo stinco: in padella lionese di ferro tostare gli stinchi leggermente infarinati, fino a renderli dorati esternamente. Allo stesso tempo, in una brasiera di ghisa appassire la cipolla tagliata a joulienne, due foglie di alloro, pepe nero in grani e qualche chiodo di garofano. Aggiungere gli stinchi, e coprire con la birra. Chiudere con il coperchio e finire la cottura, in forno ventilato, per un’ora e trenta minuti. Lasciare riposare e tirare poi la salsa a giusta consistenza.

Per il cavolfiore: dopo aver pulito e mondato il cavolfiore a piccoli pezzi, immergerlo in acqua ghiacciata per almeno due ore. Quindi tagliarlo molto sottile all’affettatrice e lasciarlo ancora a bagno in acqua ghiacciata. Con i resti di lavorazione e dopo averli cotti in abbondante acqua salata realizzare una purea aromatizzata con olio evo e aceto bianco. Asciugare i cavolfiori a fette con una centrifuga e tenerli da parte.

Per l’arancia: in un estrattore passare tutta l’arancia, buccia compresa, fino a ottenere un composto che abbia la consistenza di una pasta.

Frullare i restanti chiodi di garofano e rigenerare le foglioline di timo in acqua ghiacciata.

Finitura: sistemare alla base del piatto un cucchiaio di purea di cavolfiore, aggiungere lo stinco ben caldo, spolverare con i chiodi di garofano e la buccia di arancia a crudo. Nappare con la salsa alla birra e finire il piatto con l’insalata di cavolfiore crudo aromatizzata con il timo limone. Servire con birra Asahi Super Dry in accompagnamento.

Alberto Gipponi e l’Omaggio a Lilli e il Vagabondo con Pilsner Urquell

Per lo zabaione alla birra:

240 g di tuorlo

160 g di zucchero 200 birra Pilsner Urquell

In una ciotola in acciaio a bagnomaria, montare i tuorli con lo zucchero, unire poi la birra a filo e stabilizzare a 80 gradi. Quindi, congelare.

Per le polpette:

La gelatina al Porto:

30 g di burro

1/2 scalogno

100 g di funghi champignon

50 g di ribes

250 g di Porto rosso

1 scorza essiccata di arancia

300 ml di fondo bruno di vitello

Sale

Rosolare lo scalogno tritato nel burro. Aggiungere i funghi e i ribes. Portare a cottura dolcemente, aggiungere il Porto con la scorza d’arancia e far ridurre di un terzo, aggiungere il fondo bruno e far sobbollire per 20 minuti. Filtrare. Stendere in teglia e far raffreddare.

Per l’impasto di carne:

160 g di gelatina al Porto

33 ml di birra Pilsner Urquell

68 g di pane al burro

60 g di miele

100 g panna fresca

200 g di latte intero

100 g di brodo di cappone

116 g di tuorlo d’uovo pastorizzato

315 g di scamone di vitello privato di grasso e nervi

4 g di sale

8 g di aceto

2 anici stellato

40 g di gelatina di Porto

30 g di farina di nocciole tostata

Far ridurre di 1/3 la birra con l’anice stellato. Unire latte, panna, pane e miele, scaldarli fino a 80 gradi, lasciare in infusione per 20 minuti. Filtrare, strizzare il pane e metterlo da parte.

Frullare tutti i restanti ingredienti insieme con la panna e il latte, la birra ridotta e 15 g di pane strizzato. Mettere in pacojet, abbattere e pacossare. Aggiungere la gelatina a cubetti, formare le polpettine e impararle con la farina di nocciole tostata.

Per la salsa Borsh:

250 g di succo di barbabietola

60 g di aceto di lampone

60 g di aceto di vino rosso

60 g di zucchero

50 g di cioccolato bianco

Portare tutti gli ingredienti a bollore escluso il cioccolato. Fuori dal fuoco mantecare con cioccolato bianco.

Finitura: in un piatto fondo mettere al centro lo zabaione ghiacciato, messo a forma di nido di spaghetti con lo schiacciapatate. Aggiungere 4 polpettine. Nel mezzo arrotolate uno spaghetto di semola cotto in abbondate acqua salata e saltato nella salsa Borsh al cioccolato. Cospargete di salsa Borsh e disponete sul piatto un mix a piacere di cioccolato bianco e Grana padano grattugiati.