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Bentoteca

Il Giappone a Milano

Milano, giovane, dinamica, multiculturale, polo economico ed artistico, rappresenta da sempre un luogo in cui la gastronomia ha avuto un ruolo fondamentale, un terreno in cui tradizione, innovazione e la fusione di differenti culture danno vita a nuovi e interessanti progetti. Bentoteca nasce dall’incontro di un bisogno e un momento storico particolare. Inizialmente avviato come delivery di cucina nipponica durante la pandemia, con il tempo si è trasformato in un vero e proprio ristorante, sostituendo il precedente e stellato Tokuyoshi.

Alla guida troviamo lo chef giapponese Yoji Tokuyoshi, il quale propone un’autentica cucina di fusione tra Giappone e Italia, che mai disdegna rimandi al paese che lo ospita. Prodotti di prima qualità, tecnica e rispetto degli ingredienti sono i fondamenti di questo luogo, a cui si aggiunge una carta del menù non troppo articolata ma molto dinamica, composta da “assaggi da condividere” e varie portate principali. Si spazia da piatti a base di pesce crudo, ramen, sushi, sashimi, e pietanze tradizionali giapponesi con influenze italiane.

La forza della semplicità

Una semplice insalata di melanzane, daikon e finocchi tsukemono, condita con una salsa al sesamo e erba cipollina può risultare un piatto semplice ma, supportato da differenti texture e sapori, si rivela complesso e stratificato. Le note leggermente dolci della melanzana ben si bilanciano con la marinatura – composta di aceto, alghe kombu e scorza di limone – del daikon e del finocchio, terminando nel finale aromatico e sapido della salsa di sesamo. Il bao – Butaman – a sua volta, uno dei signature dish dello Chef, è qui proposto con ripieno di carne di maiale, anatra, gamberi, funghi e spezie, e accompagnato da una salsa a base di peperone crusco che perfettamente si presta come in intingolo e che ne esalta l’umido ripieno, concludendone l’equilibrio del gusto. La qualità delle materie prime, eccelse, si rivelano anche nel nighiri di tonno. Un boccone semplice ma elegante dove la grassezza del taglio Otoro viene accompagnata dalla leggera sapidità della salsa soia ed esaltato dal leggero tocco di wasabi e dalla freschezza dell’erba cipollina: un ultimo passaggio fresco prima di passare alle portate principali.

Il Nambazuke, bianchetti in stile carpione con verdure di stagione congiunge due culture così lontane da risultare, in questo caso, molto vicine e simbiotiche in un connubio divertente e ben riuscito. Si prosegue con un passaggio alle pietanze calde che si concretizza nella torta di Gyoza, servita con salsa ponzu e olio di gamberi, dal gusto confortante e gradevole. Ma il vero pezzo forte sono gli Sukiyaki udon e il Kama barbecue. Il primo, un ramen con brodo di manzo dal gusto profondo e intenso si fregia di udon fatti in casa e della complessità della nota calda di sottobosco apportata dai funghi shimeji. Un piatto magistrale, che rappresenta la complessità della semplicità.

Il Kama barbecue, o collare di tonno, risulta invece una creazione d’autore: un susseguirsi e rincorrersi di sapori che spaziano dal leggero sentore affumicato della sapiente cottura al barbecue, mai invadente, al koshu che ripulisce il palato con la sua acidità e piccantezza e, infine, la salsa yukke, a donare sapidità e umami. Nota di merito per il friggitello al limone in accompagnamento nell’enfatizzare la sensazione di un unicum di sapore.

Ci troviamo di fronte a una cucina dinamica che fa di autenticità, tecnica, precisione e semplicità i suoi punti di forza. Altrettanto, nella sala giovane e dinamica, sempre attenta, sorridente e disponibile, si ritrova la giovialità e semplicità della cucina. Unico difetto, forse, la sezione dei dolci, dall’impronta poco personale. La carta dei vini, non eccessivamente vasta ma ben costruita, custodisce all’interno qualche etichetta di piccoli produttori e piccole realtà con un focus sui vini bio-dinamici e naturali e con ricarichi che risultano in linea con città come Milano. 

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La forza delle idee

Essere costretti a chiudere repentinamente un progetto costruito nel tempo e fermarsi in attesa che le incognite si dissolvano implica la necessità di riflettere e pensare. Al futuro proprio e delle persone.

E la forza delle idee, talvolta, può rendere una situazione difficile una inaspettata e ottima opportunità.

Yoji Tokuyoshi ha deciso di non riaprire il suo ristorante stellato almeno fino a settembre. Eppure non si è fermato ma ha trasformato la sua creatura in qualcosa di nuovo, dal concetto interessante e dalla proposta brillante. La Bentōteca è tutto questo, frutto di entusiasmo e voglia di ricominciare.

Una brillante proposta temporanea (forse)

Viene presentato come un pop-up, ossia un posto temporaneo. Un wine bar con gastronomia giapponese sebbene sembrerebbe più appropriato l’appellativo di izakaya moderna, nella medesima location (ancora più curata e trendy di Tokuyoshi, grazie all’ampliamento della sala), contraddistinta sempre da quelle peculiarità – gusti trasversali, assaggi golosi, presentazioni curate e ricerca di chicche gastronomiche per tutto lo Stivale, con particolare predilezione per il Sud Italia – che hanno fatto apprezzare lo chef giapponese all’unanimità da critica e pubblico.

Oltre al servizio delivery/take away (fanno interessanti kit con gli udon fatti in casa e, appunto, i bentō giapponesi, serviti con il pregiato riso della prefettura di Niigata), Bentōteca offre un menu semplificato per il pranzo e uno più articolato e assortito per la cena, con possibilità di fare un interessante aperitivo in un salottino, appositamente pensato. Il comune denominatore è il prezzo, che possiamo definire contenuto, soprattutto per la qualità del piatto.

Irriverenti ma piacevoli come inizio i bao ripieni di acciughe e burro affumicato fatto in casa, ribattezzati come “Panda, burro e alici” e la perfetta tempura di verdure, prima di fare una full immersion nei sapori del Giappone con gli  iwashikatsu (ossia sarde fritte) con potato salad giapponese o il katsusando di lingua e maionese verde, per non parlare delle ultra-golose animelle karaage e asparagi bianchi fritti. Ci si addentra sempre di più, successivamente, nel fascino della cucina fusion con l’anatra cotta in dashi, trota marinata in salsa yukke, alghe e tuorlo d’uovo per terminare con i bento di anguilla kobayaki e quello di triglia e il meraviglioso piccione cotto intero con salsa alla sardella piccante calabrese e cipolle, semplicemente da applausi. Vengono serviti soltanto due dolci, una rivisitazione della torta Barozzi e una buonissima cheesecake alla robiola di Roccaverano, ai vertici per forma e sostanza.

Il servizio è spigliato e informale e pronto a consigliare anche sulla scelta dei vini, la cui selezione di etichette è molto interessante e spazia tra Italia e resto d’Europa.

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L’Italia vista dal Giappone e il Giappone visto dall’Italia.

Peculiare forma di genius loci quella che abita il numero 3 di via San Calocero dove, da quasi un lustro, con Tokuyoshi s’è insediato uno spirito tanto esotico quanto familiare: uno spirito che si manifesta già nell’inchino della brigata che, sorridendo, ci attende tutta al nostro arrivo.

Nei locali che già furono di Wicky Priyan lo spirito è quello di una contaminazione studiata, perfino radicalizzata nei rispettivi prototipi, e stereotipi culturali. Italia da un lato, Giappone dall’altro si scrutano, s’interpretano, si  canzonano nella lettura di Yoji Tokuyoshi che, dopo nove anni come secondo di Massimo Bottura, ha oggi tutta l’autorialità del solista. Direttore d’orchestra del nostro menu Omakase lo squisito Kunihiro Hagimoto sempre illuminato di un sorriso che gli proviene dall’indole sia personale che da quella nazionale. A lui ci affidiamo per l’abbinamento che, dopo un calice di Castelnau Brut Réserve, decidiamo di concentrare sui pregiati tè dell’isola di Taiwan ringraziandoci per una scelta che “anche per noi – ammette – rappresenta una novità“.

La sala è un’orchestra sinfonica tanto preparata quanto disinvolta, anche nei passaggi più complicati

Il percorso comincia con un consommé di verdure caldo e corroborante e si articola, dopo alcuni amuse bouche, con l’umami puro di un estratto di pomodori verdi e capperi in accompagnamento alla Pizza capricciosa di riso soffiato: una sorta di “svuota-frigo” durante una metaforica partita Italia vs. Giappone. In accompagnamento, il balsamico sorso di un tè verde infuso, per 42 ore, a freddo. Simile alla pizza l’ironico – e autoironico – falso raviolo di lardo di Colonnata e calamari, invero abbastanza ridondante nella reiterazione della combinazione grasso-calloso-sapido.

Tra gli antipasti, lussurioso il battuto di vitello appena scottato con tuorlo d’uovo, tartufo, porcini e alga kombu e un intenso consommé di manzo: un piatto stratificato dove la quantità di ingredienti, aromi e consistenze restituisce, a ogni boccone, una percezione gustativa continuamente differente. A chiudere la parata degli antipasti, l’anguilla laccata all’aceto balsamico di Modena con salsa di carpione e polvere di verdure disidratate è servita col brodo di patate arrosto e ricorda l’arte tibetana del mandala di sabbia dove, ancora una volta, è la cangianza e, di conseguenza, la complessità la caratteristica saliente del piatto.

La squisita parata di estratti, infusi, brodi e consommé come sublimazione del piatto

A seguire, il semplice, quasi monastico spaghetto con vongole, midollo di bue e burro chiarificato trasfigura in un piatto cardinalizio coi 6 grammi di tartufo bianco di Alba. Suggestivo, il petto d’anatra cotto sul carbone col shichimi, fondo croccante di lumache e civet che l’infuso di frutti rossi sfuma in una sensazione potentemente boschiva. Didascalico il ghiacciolo di zucca e aceto balsamico tradizionale in abbinamento col tè assam alla rosa; meno convincente, invece, la rivisitazione della zuppa inglese con l’iconica pellicola di alchermes che, di quella già fatta da Bottura nel menu I Classici rappresenta qualcosa di più che una semplice citazione.

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Nuove sfide.
Le uniche in grado di spazzar via la monotonia e scrollare di dosso la polvere della stabilità, della sicurezza, della routine.
Lo straordinario che diviene il nuovo, non in quanto favoloso bensì inteso come non-ordinario, in senso letterale.
Rimettersi in gioco: aria nuova, nuovi confronti, scommesse azzardate.
Arrampicarsi faticosamente in cima e, una volta raggiunta la vetta, spazzare via tutto per ricominciare, per tentare di tornare ancora più in alto.

Che sia una forma di lucida follia? Può darsi, certamente ci vuole un briciolo di irrazionalità e, comunque, tanto coraggio. Un vero e proprio sport estremo, nascosto nelle pieghe dell’ordinario.

Yoji Tokuyoshi in cima ci è arrivato, passo dopo passo, a piccoli passi. Nove anni trascorsi tra routine, perfezionismo, ripetitività e testardaggine. Un lavoro come tanti il suo, non fatto come tanti ma meglio di tutti, fianco a fianco dello chef del momento. Per questo, una delle posizioni probabilmente più invidiate nel settore: secondo di Massimo Bottura in Osteria Francescana. Colui che, in assenza del leader Maximo, dirige le cucine di uno tra i migliori ristoranti sull’ecumene terrestre, il ristorante che ha riscritto le pagine della gastronomia italiana degli ultimi anni. Anni di fatiche, certo, di sforzi, di sudore, vissuti non da stagista capitato nel periodo fortunato ma da asse portante, da ruota sterzante del carro.
Fatiche ripagate da un vero e proprio trionfo unanime di critica, pubblico e parere di colleghi.

Poi un bel giorno ti svegli e, come un fulmine a ciel sereno, decidi che non è più tempo.
Basta così.

Nonostante l’altissimo livello, forse la vita da “secondo” inizia a stare stretta. Cancellato tutto, si ricomincia da zero. Un nuovo ristorante, dove metterci la faccia, il nome, e assumersi la totalità degli oneri, dei fardelli che una scelta del genere porta con sé, con benefici, certo, ma soprattutto con rischi, talvolta, anche altissimi.

Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano

Ma del resto, “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”
Un adagio popolare, che mal si addice alla straordinarietà tuttavia, in questo come in molti altri casi, serba un pizzico di verità.
Nove anni in un team d’elite, ai comandi di una macchina vincente, forgiano una mentalità indiscutibilmente vincente e un approccio, forse, di beata sicumera. Ma, dura lex valida per tutti i campioni, è necessario che la totalità dei tasselli siano al posto giusto per continuare a primeggiare, ed è per questo che questo nuovo attore della cucina contemporanea italiana, a tratti, sembra vacillare.

In via San Calocero, a Milano, risiede oggi indubbiamente un campione, che non riesce però ad esprimersi come tale in quanto le condizioni per farlo, ancora, non ci sono.

È per questo che la cucina di Tokuyoshi è, tuttora, un continuo e inesorabile richiamo alla Francescana, una continua e indefinita citazione sul filo che separa la forma mentis dal plagio; e infatti, se molte delle piccole idee, come germogli, a Modena trovavano terreno fertile per divenire grandissimi piatti, a Milano rimangono in stato embrionale, soffocati dalla carenza di terra e acqua.
Un continuo toboga in bilico tra sottocoppia e fuorigiri, con piatti che giungono in tavola portando in dote temperature incorrette, carenze di contrasti, deficit di concentrazioni o ridondanze evidenti intervallati ad altri nettamente più risolti e compiuti, che mostrano chiaro e limpido l’ingombrante background di colui che li ha pensati ed eseguiti.

Come un germoglio in stato di sofferenza, Yoji sembra risentire della mancanza di un team affiatato, in grado di affermarsi come tale durante tutta la sintassi del pasto, in tutti quei passaggi che dividono l’idea dal piatto perfetto: è per questo che, al momento, questa tavola fatica a trovare -e a mantenere- tanto la  rotta quanto la velocità di crociera.

Può un grande Secondo diventare un grande Chef? Certamente, a patto però che si ripristinino tutte le condizioni di partenza, perché il solo background rischia di restare una fondamenta priva di sostanza.
Come un pregiato tondino d’acciaio, che rimane tale senza la presenza degli indispensabili acqua e sabbia necessari per divenire cemento armato.

Gli Appetizer, che seguono la scelta del menù.
Nel nostro caso quello più ampio (chiamato “Sensazioni”, con un evidente richiamo al suo maestro), che negli otto mesi dall’apertura ad oggi è già stato ritoccato verso l’alto nel prezzo, da 80 a 100 Euro.

Appetizer, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Bruschetta di canocchie”.
Piatto essenziale, che risente della non rilevante qualità della canocchia. Decisamente migliore il brodo di crostacei in accompagnamento, concentrato e carico di umami, da bere in chiusura.
bruschetta di canocchie, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
La prima bottiglia, per iniziare.
champagne, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Cannolicchi nel porro”.
Piatto goloso, che però trova a fatica un punto d’incontro tra la natura filamentosa del porro e quella gommosa del cannolicchio. Nemmeno la concentrata salsa di caciucco, versata a finire il piatto, riesce a creare una doverosa amalgama.
cannolicchi nel porro, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
cannolicchi nel porro, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Sarde bruciate non bruciate”
Pregevole la presentazione (nonostante “l’ispirazione” evidente, tanto nello stile quanto nel nome), che utilizza la tecnica Gyotaku per la stampa della testa del pesce sul piatto. Peccato che il riscontro al palato sia alquanto basilare, ovvero poco altro che un filetto di pesce, nulla più nulla meno.
sare bruciate, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Scampi a merenda”.
Uno scampo, tagliato longitudinalmente e unto con dell’olio siciliano, farcito con del mascarpone all’interno del carapace. Vista l’esiguità e la difficoltà di estrazione del formaggio, all’atto pratico uno scampo all’olio. Evidente inoltre l’eccesso di grassezze e la carenza di contrasti.
scampi, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il secondo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina.
vino, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Lumache & Anguille nella vigna”
Ci risiamo: ispirazione evidente oltre ogni spiegazione, tanto nel nome quanto nell’impiatto, purtroppo non nel risultato finale. Fungo, anguilla, lumaca, salsa, foglie, lardo di Colonnata: oltre alla ridondanza, ogni ingrediente prende una strada differente dagli altri, senza mai raggiungere una fusione auspicabile.
lumache, anguilla, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Risotto alla milanese sempre croccante”
Altro giro, altra… ispirazione: piatto molto, molto simile ad uno del 2011 già provato a Modena. In ogni caso, qua il passo cambia, la portata si rivela piacevole, golosa e divertente.
risotto alla milanese, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Riso all’olio con pelle di pomodoro.
Altro piatto ben riuscito, rivolto prettamente verso le note dolci ma equilibrato e piacevole. Cottura magistrale del riso e ottima mantecatura.
riso all'olio, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il terzo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina (no, non è un maldestro copia-incolla non corretto dal vino precedente).
vino frappato, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Piccione”.
Il piatto della serata: davvero eccellente, con il piacevolissimo contrasto tra lo jus e la nota pungente-piccante del rafano.
Praticamente inutile invece il dolce bicchierino di succo di pomodoro, servito a parte, in quanto non complementare al piatto.
piccione, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il predessert: meringa, erba fungo, zafferano.
predessert, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il dessert, “Cemento e Terra”.
Dolce molto, molto buono, dallo stile moderno ma gradevole e sostanzioso. Meringa al carbone vegetale, gelato al topinambur, mascarpone, crumble salato al cacao.
dessert, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il bancone ereditato da Wicky’s, il predecessore. Chiedete espressamente di volervici sedere all’atto della prenotazione, se gradite.
banco, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
banco, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Curiosi dettagli all’ingresso.
dettagli, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano