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Noma

La stagione della caccia e della foresta

Nella prefazione del suo nuovissimo libro “Vegetable, Forest, Ocean“, René Redzepi fa un punto sugli ultimi venti anni della sua cucina. Il libro parla del nuovo Noma, delle persone e degli spazi, ma anche delle strutture invisibili che costruisce per sostenere la creatività, l’innovazione e la sorpresa. Dalla architettura, splendida, alla stagionalità dei menù, alla urgenza di restare all’erta per cogliere nuove opportunità, il desiderio di ravvivare l’appetito verso nuove cose, tutto questo è il Noma e Redzepi.

Ora è il tempo del menù “Game and Forest” e di addentrarci in questo percorso ancestrale e selvatico. Si mangia la carne con le mani, si scoprono nuovi sapori: anatra selvatica, capriolo, renna, orso, presentati in varie modalità, utilizzando tutte le parti del corpo, cervello, cuore e pene compreso. Grande spinta sul gusto grazie all’utilizzo di riduzioni, caramelizzazioni, garum, con intelligenti intervalli di freschezza, per un percorso che coinvolge emotivamente a 360 gradi per il cibo, l’accoglienza, la sala, la grande bellezza della location.

Take a walk on the wild side

Si parte subito sull’acceleratore del gusto e dell’umami con un Cuore di renna alla brace, accompagnato da una deliziosa salsa che rafforza ulteriormente la potenza del piatto. In una logica di intervallare e modulare i picchi di sapidità, il secondo piatto prevede che della renna venga usato anche il Cervello in crema pasticcera, riposta all’interno del teschio dell’animale e coperta di polline: una portata delicata, tendente al dolce, decisamente intrigante. Poi è il turno dell’Animella della renna cotta prima nel burro, poi passata in farina e albume, incapsulata in muschio e fritta, utilizzata per fare la scarpetta a un pesto vegetale. Il bosco arriva con i suoi frutti, disidratati e serviti con Olio di coniglio selvatico e poi in un fresco e delizioso brodo. Della renna viene usato anche il Pene in salamoia di funghi, cotto sotto pressione con dashi, brodo di funghi per essere poi immerso sempre in dashi e salamoia. Ma un’altra componente del piatto è il Fagiano, che viene cotto prima con burro e poi in olio con erbe, spezie, peperoncino e quercia per creare un olio di quercia e fagiano che funge da condimento. Il pene viene tagliato a fettine sottili, avvolto da orzo, farro, granola salata e un pesto di erbe della foresta, e accompagnato con pezzettini di pasta di uovo affumicato, mirtilli, fudge di riso koji e una vinaigrette: un ragù che è compendio della cucina di Redzepi, con la sua ricerca e lo studio pazzesco sulle fermentazioni, sui sapori e sulle diverse consistenze.

La Zucca con ribes bianco va ancora una volta a smorzare i toni ed è un grande piatto per dolcezza, acidità e freschezza. Il gioco dolcezza-sapidità viene egregiamente trattato anche nella interpretazione di un dolce tipico delle feste danesi che è lo “Aebleskive“, letteralmente “pezzi di mela”: qui il pezzo viene tagliato e all’interno viene inserita della verdura e un consommé di orso, ottenuto da carne di orso in salamoia, resti di pollo, dashi e sedano, shoyu di riso e garum di ali di pollo. Gli occhietti sono fatti con un caramello ricavato da un brodo ridotto, sempre di carne di orso, in dashi con funghi secchi, timo limone e mele. Lo stesso caramello, invero una bomba, viene anche spalmato su una foglia, da leccare.

Non poteva mancare, da chi ha scritto un trattato sulle fermentazioni, un riferimento al Kombucha utilizzando direttamente pezzetti di Scoby, in un altro piatto che funge da rinfrescante con bacche di cinorrodi di rosa e mela.

Un percorso attentamente studiato e concettualizzato, che ti immerge visceralmente nella foresta; se si volesse trovare una parte debole è quella dei dolci, decisamente meno potente della parte salata, se non per il finale, super interessante, un Cioccolatino con toffee al sangue di renna presentato come una candela, ovviamente edibile.

Noi, una passeggiata palatale nella foresta di Redzepi la consigliamo assolutamente a tutti gli appassionati.

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Al vertice della World 50 Best e le 3 Stelle Michelin, inarrestabile

Primo ristorante al mondo del 2021 per la World’s 50 Best Restaurants: qualcuno lo chiama “Noma 2.0”, inaugurato nel febbraio del 2018 nella città libera di Christiania, celebre quartiere hippy di Copenhagen, all’interno di un ex magazzino per lo stoccaggio delle mine della marina danese.

Pur avendo già primeggiato nella 50 Best in quattro occasioni (2010, 2011, 2012 e 2014) è stato ritenuto idoneo per la classifica (che ormai da qualche anno non consente di essere rieletti n.1 se si è già entrati nella “Hall of fame”) a causa di tre cambiamenti chiave rispetto al ristorante originale: la differente location, il nuovo concept e la proprietà. Secondo i giudici della 50 Best il riconoscimento al Nomaè una testimonianza della infallibile capacità da parte di Chef René Redzepi e della sua squadra di focalizzarsi su ingredienti stagionali inusuali – il menù è rigorosamente stagionale, diviso in tre fasi: di pesce in inverno, vegetariano in estate e cacciagione e prodotti del bosco in autunno – reperiti localmente e portati a nuova vita nel piatto in modo creativo e complesso”.  Parole che condividiamo appieno dopo la nostra visita.

Ribattezzato dallo stesso Redzepi “fattoria urbana”, dall’esterno sembra una serra: è un complesso formato da sette edifici, con sale dedicate a carne, pesce e cibi fermentati, oltre a una sala da pranzo privata per i dipendenti, che hanno a disposizione anche delle camere. Vi ci lavorano quasi un centinaio di persone per 40 coperti. Molte di queste le vedi quando arrivi, non foss’altro che all’entrata tutta la brigata è lì per darti il benvenuto.

Il menù selvaggina e foresta

Renne, anatre, cinghiali, orsi, zucche, funghi, castagne, barbabietola gialla e tante erbe. René Redzepi è un impareggiabile maestro nell’utilizzare la flora e fauna dell’autunno danese in una miriade di combinazioni differenti e nel menù ‘Selvaggina e foresta’ in cui il rispetto per la natura incontra l’innovazione culinaria, l’estro creativo e perfino il senso dell’umorismo lo chef offre il meglio di sé. “Questo menu è la celebrazione dell’abbondanza dell’autunno e della sola stagione in cui la carne gioca un ruolo di protagonista” era l’annuncio di questo menù sulla pagina Instagram del ristorante. Un menù naturalistico, spettacolare nella presentazione per colori, geometrie e originalità dei contenitori spesso provenienti da scarti degli ingredienti e straordinario nella decisione dei sapori esaltati dall’immancabile umami e da consistenze e temperature studiate con millimetrica precisione per una perfetta combinazione tra proteine animali e prodotti vegetali del bosco. Indimenticabili lo spiedino di speck di cinghiale con pesto di castagne, la raggiante bellezza (e il sapore terroso) del sashimi di barbabietola gialla, la perfetta consistenza del petto di alzavola servito con la sua pelle e le interpretazioni della renna che ha iniziato e chiuso il menù con ragù di cervello e midollo caramellato.

Il servizio è competente, attento e amichevole con un’alternanza di persone di diverse nazionalità, anche se nel nostro caso la maggior parte delle portate è stata servita da italiani. La carta dei vini offre una certa varietà di etichette, spesso poco note, e con preferenza per vini naturali. La carta proponeva un pairing a base di vini e uno a base di succhi e infusi. Noi abbiamo optato per i vini risultati ben coordinati con le numerose portate.

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…o delle cozze

Diffuse anche col nome di muscoli, peoci, pedoli e móscioli, le cozze hanno subìto un sensibile indebolimento negli ultimi anni in termini di mercato. Prima causa, la concorrenza da paesi UE (Danimarca e Germania) ed extra UE, come la Cina, che ne è la prima produttrice al mondo; secondo motivo, il calo dei consumi, imputabile alla sempre maggiore differenziazione e varietà dei costumi alimentari incoraggiato, com’è noto, dalla globalizzazione. Come si risponde, dunque, alla spinta unificante e integrante della globalizzazione? Iperlocalizzando. Una  tendenza incalzata anche dai nostri chef, che premiano iniziative “di nicchia” come quella della famiglia Bigi, ad Olbia, o quella di Lorenzo Busetto, classe 1984, acquacoltore da oltre due decenni e fondatore di Mitilla, allevamento che garantisce altissimi e costanti standard qualitativi nello straordinario paesaggio di Pellestrina. Vediamo, ora, come la cozza si declina in cucina.

Alessandro Rapisarda, Casa Rapisarda, Numana (AN)

A proposito di iper-localismi, eccovi servito il mosciolo selvatico di Portonovo, ingrediente feticcio di Rapisarda. Siamo a poche decine di metri dalle spiagge della turistica Numana, nel pieno centro del borgo storico. Qui, l’acqua dei molluschi – che non vengono puliti – viene sottoposta a successive operazioni di spurgatura che danno luogo a un liquido limpido ma, allo stesso tempo, più sporco e gustoso nel sapore. Risultato? Un ottimo guazzetto di cozze!

Matias Perdomo, Contraste, Milano

Un’opera collettiva, quella che Matias Perdomo, Simon Press Thomas Piras perpetuano al Contraste,  dove i tre danno vita a una performance gustativa unica e corale, ricca di bassi e acuti, capace di dosare morbidezze e sferzate improvvise realizzate con consapevolezza e senso del gusto. Una cucina originale, divertente e divertita, come in questa cozze cacio e pepe.

Giulio Terrinoni, Per Me, Roma

Una cucina di mare, dalla materia prima attentamente selezionata, trattata con rispetto, presentata in piatti dai sapori netti, puliti e punteggiati di estrosi elementi: questa è la firma di Giulio Terrinoni, un tributo all’arte dell’essenzialità, come si evince da questo golosissimo, originale boccone che alla cozza combina ’nduja e toma di bianca alpina.

Donato Ascani, Glam, Venezia

I mercati quotidiani di Venezia sono parte integrante della proposta di Donato Ascani, in questo menu che si richiama tanto a Paolo Lopriore quanto al bancone del Kiyota Sushi, di Tokyo. Quanto al piatto in questione, esso è entrato di diritto tra i migliori assaggi dell’anno (2019 n.d.a), cliccare sul link per credere.

Alberto Gipponi, Dina, Gussago

Un dialogo interrotto e ripreso alla fine del menù quello di Alberto Gipponi e la cozza. Un elemento importante, perché capace di combinarsi, nella sua grammatica gustativa, con efficacia semantica fino a comporre un ritratto di straordinaria italianità a dispetto dell’orientalissimo dei due condimenti utilizzati: il miso di caffè e lo shiokoji di Michele Valotti de La Madia di Brione.

Antonino Cannavacciuolo e Vincenzo Manicone, Caffè e Bistrot, Novara

Vincenzo Manicone, ragazzo cresciuto e maturato alla corte di Cannavaccioulo, è portatore sano di quell’innato senso del gusto che gli fa elaborare creazioni eleganti e proporzionate. Un grande talento di saucier, il suo, capace di piatti di grande classicismo dove, al netto di una indubbia complessità, non c’è mai un tocco fuori posto, mai un eccesso, come accade in questa sorta di architettura votiva.

Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano

Un viaggio che va alla ricerca di  materie prime eccellenti, quello di Alessandro Negrini e Fabio Pisani, nel Luogo per antonomasia. Uno e mille luoghi, invero, perché l’Italia è percorsa in lungo e in largo nel menù, rappresentata una volta dai gamberi viola di Sanremo, dai peperoni di Senise, dal tonno rosso di Sicilia, dalla fassona piemontese, dall’anguilla del Delta del Po, dalle patate di Polignano, dal pomodoro del Pollino, dal maialetto orvietano e dallo zafferano di San Gavino, fino a questa carnosissima cozza dell’Adriatico, a comporre un piatto di grande eloquenza.

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI)

Un altro tributo all’Italia quello di Nicola Portinari, per cui la nostra nazione è sia musa che deus (dea) ex machina, ovvero una divinità  onnisciente capace di infiniti giri intorno al mondo, divagazioni e depistaggi, ma che parla sempre di se stessa, e per se stessa, interpolando i confini della verdura e della carne, della frutta e del pesce. Qui la cozza, di straordinaria consistenza croccante, è sdrammatizzata e anzi elevata sin quasi alla sublimazione dal concentrato di cetriolo.

Silvio Salmoiraghi, Acquerello, Fagnano Olona (VA)

Attualizzazione e valorizzazione dei grandi classici della cucina italiana: questa la dichiarazione che si legge all’interno del menù di Silvio Salmoiraghi dove campeggiano in nuce tutti i precetti della Nuova Cucina Italiana, scandita in chiave kaiseki. Un viaggio strepitoso è rappresentato proprio dalla capasanta di Venezia cotta al vapore con acqua alla menta e ricoperta di polvere di felce, accompagnata da yogurt valdostano, cavolo nero, bergamotto e  cozza pelosa pugliese in salsa di acqua dolce.

Valentino Cassanelli, Lux Lucis, Forte dei Marmi

Prendendo proprio spunto dal viaggio che lo ha portato da Modena a Forte dei Marmi, Valentino Cassanelli ha creato il suo menù più completo, “On the road. Via Vandelli”: una strada già percorsa dal Duca Francesco III d’Este per arrivare, da Modena, al mare. Per lo chef, un viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca dei sapori delle due terre, Emilia e Toscana, rappresentato da piatti – o più spesso solo assaggi – così evocativi che non necessitano nemmeno della descrizione.

Chang Liu, Serica, Milano

Mauro ed Elisa Yap sono figli d’arte: seconda generazione di una famiglia di ristoratori cinesi che ha dato lustro a molti locali milanesi, decidono di aprire un locale tutto loro che affidano alle cure di Chang Liu, cuoco con tante esperienze alle spalle, qui artefice di una cucina sorprendentemente capace di rileggere i grandi classici italiani studiandone le potenzialità in termini di contaminazione, come già fece Yoji  Tokuyoshi alla corte di Massimo Bottura.

Primi piatti

Rocco Santon e Nicola Cavallin, Noir, Ponzano Veneto (TV)

Nasce ad agosto 2019 grazie alla passione di due giovani chef, Rocco Santon e Nicola Cavallin, e dalle rispettive esperienze che, combinatesi assieme, daranno vita a una realtà nuova e diversa. Ne sortisce un’impostazione non banale né accondiscendente di cui sono vessillo proprio i fusilli, ceci, cozze e bieta amara: un ottovolante tra l’acidità delle cozze alla scapece, la rotondità della purea di ceci a donare struttura e l’amaricante degli elementi vegetali e floreali a garantire lunghezza. Un piatto davvero ben eseguito.

Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano

Siamo di nuovo nel Luogo per antonomasia della Nuova Cucina Italiana: qui in un primo piatto  dalla golosità prorompente che nobilita la tradizione popolana della pasta, cozze e patate per farne un risotto alto-borghese, fin nella componente estetica: superba.

Donato Ascani, Glam, Venezia

Di nuovo Ascani (visita del 2020), in un piatto che punta sull’aromaticità del sesamo e del cipollotto marinato forieri di sensazioni amare e acide, anche spigolose, che si combinano con la carnosità del gambero e della cozza, con grande maestria.

Simone Marchelli, Meta, Celle Ligure (SV)

Chef e patron di MetaSimone Marchelli è artefice di una cucina che affonda profondamente le proprie radici nel territorio – Liguria ma anche Piemonte – combinandone anche gli stilemi più rigidi, come accade nei plin con ripieno di tartrà di Parmigiano Reggiano 24 mesi in zuppetta di cozze: un piatto sicuramente assai sapido, reso aromatico dall’aglio dolce.

Creature del Nord

René Redzepi, Noma, Copenaghen

22 portate che esplora le profondità marine del Baltico e dell’Atlantico, portando nel piatto creature abissali che solo dal nome richiamano le gesta del Capitano Nemo. Dalla vongola centenaria servita con panna acida e olio di pino al nobile alla cozza del Baltico servita con caviale e brodo di alghe: una combinazione vincente tra uomo, territorio e clima.

Nicolai Nørregaard, Kadeau, Copenaghen

Un solo menù degustazione dove ogni portata è un’occasione per sviluppare uno studio attorno a un ingrediente.  È quello che accade coi germogli di abete, che donano una felice nota balsamica alla cozza delle Far Øer affumicata, o il succo di ribes bianco e i fuori di sambuco alla più primaverile e virginale cozza artica cruda.

Interpretazioni iberiche…

Joan Bayén, “Juanito”, Pinotxo Bar, Boqueria, Barcellona

Un locale che fa cucina di mercato, nel mercato, aperto settantasei anni fa Joan Bayén, detto Juanito, iconico oste sorridente del Pinotxo Bar della Boqueria di Barcellona. Non c’è un menu. Si lascia fare a loro e ci si imbatte in semplici ma indimenticabili tapas: come la cozze ripiena di verdure in agrodolce.

…e d’Oltralpe

Sven Chartier, Saturne, Parigi

All’interno delle due sale in cui si sviluppa il ristorante, lo chef, affiancato in sala da Ewen Le Moigne, manda in scena una rappresentazione il cui credo è il rispetto per la natura in ogni sua forma. Sven Chartier dimostra di possedere una maturità sorprendente, che applica a ogni piatto, dando vita a una cucina vivace, inappuntabile dal punto di vista tecnico, vivace nei cromatismi e soprattutto nelle studiatissime temperature di servizio.

Carni e cozze

Nikita Sergeev, L’Arcade, Porto San Giorgio (MC)

Lo chef moscovita ha smussato gli angoli e trovato un suo centro di gravità gustativa “permanente” che non teme, se è il caso, commistioni audaci, e ormai distintive, come quelle tra terra e mare.  Accade nel cervo e la sua salsa – una salsa da manuale, in stile bouillabaisse catapultata lungo la costa marchigiana  – che allunga in maniera esponenziale il gusto.

Alex e Vittorio Manzoni, Osteria degli Assonica, Sorisole (BG)

Una degustazione “vit.ale”, così come il nome del menù, dove si familiarizza con le due anime della cucina dell’Osteria. Frequenti i giochi di acidità in piatti dai contrasti decisi, ma ben pensati, come nel caso dell’agnello dove la dolcezza della carne viene ottimamente valorizzata dalla nota iodata delle cozze: un abbinamento insolito ma molto ben eseguito.

Enrico Mazzaroni, Il Tiglio in Vita, Porto Recanati (MC)

Nel corso dell’ampio menu degustazione Mazzaroni alterna due pulsioni: quella di sedurre l’ospite con un’avvolgente golosità e quella (come in questo caso) in cui la mano si fa più tranchant, e dunque piacevolmente spigolosa. In questa combinazione di terra e mare, a persuadere è la consistenza e, in particolare, la carnosità della cozza per interpolazione della carne.

Alberto Faccani, Magnolia, Cesenatico 

Una cucina composta e borghese, nel senso migliore del termine, e neoclassica, ovvero elegante, perché centrata mediante intelligenti contrasti, studiati col bilancino, questa di Alberto Faccani. Una cucina che non teme di abbinare in un sol boccone carne e pesce, come accade in questa paradigmatica piadina, tanto sostanziosa quanto vorrebbe, appunto, il palato romagnolo.

Mariano Guardianelli e Camilla Corbelli, Abocar, Rimini

Sapori nitidi e persistenti, ben contrastati da ingredienti molto ben combinati e, di conseguenza, ben valorizzanti. Come in questo caso, dove il secondo e ultimo servizio della faraona la fa convivere con la dolcezza delle carote, con la maionese, la salicornia e, ultima ma non ultima, con un’impeccabile cozza in scapece.

Dulcis in fundo

Alberto Gipponi, Dina, Gussago

Un colpo ben assestato alla morale comune: questo rappresenta questo piccolo, grande piatto, che racchiude in toto il pensiero, e il palato, di Alberto Gipponi.

Nuovo chef per una delle migliori tavole dell’Oltrepò Pavese

Cambio della guardia al Villa Naj: da qualche mese, ormai, Federico Sgorbini, il cui lavoro ci aveva favorevolmente impressionato non troppo tempo fa, ha lasciato la guida della cucina e, al suo posto, si è insediato Alessandro Proietti Refrigeri.
Se il bravo Sgorbini si era formato, tra l’altro, al fianco di Enrico Bartolini nella straordinaria stagione de Le Robinie, Proietti Refrigeri ha al suo attivo un anno al Noma e quasi due a La Pergola, con Heinz Beck, prima di assumersi la responsabilità della gestione delle cucine della galassia Berberè dove, oltre a creare e seguire il menu degli otto locali sparsi per l’Italia, si è occupato di food cost e gestione delle risorse umane. Quindi la chiamata a Villa Naj e la prospettiva di tornare, stabilmente, in cucina.

Il cambio non ci è parso traumatico. La cucina di Villa Naj continua il suo interessante percorso declinato in termini di modernità e creatività guardando sempre ai prodotti del territorio ma spesso scollegandoli totalmente dalla tradizione. Prodotti del territorio come riso, farine, formaggi e carni, per lo più, nel contesto di una cucina creativa che guarda anche a Oriente, ricca di contrappunti acidi e che sa gestire molto bene le tonalità più amare. Una cucina complessa, dove il tratto più rilevante di discontinuità rilevato a seguito del cambio dello chef può declinarsi, a nostro giudizio, proprio nell’accresciuta complessità delle preparazioni, oltre che nella rinnovata centralità dell’elemento vegetale figlio probabilmente dell’esperienza al fianco di René Redzepi e riconoscibile, ad esempio, in un piatto quale Rape e Radici, servito al termine del percorso “salato” per pulire e preparare il palato alle portate dolci.

Talento, tecnica e buone idee: un’interessante tavola contemporanea

Lo chef, dunque, sembra voler rischiare qualcosa in più rispetto a chi lo ha preceduto e dobbiamo dire che i risultati gli danno ragione. A cominciare dagli amuse bouche, tutti centrati, pensati, studiati, mai “buttati lì”, come più spesso ci piacerebbe vedere. Ma non finisce qui, ovviamente. Giochi di consistenze e contrasti: la voluttuosa texture degli gnocchi di ortica, sgombro arrosto e olio all’assenzio fa da carrozza e trasporta al palato il gusto deciso dello sgombro e la nota verde-amara dell’assenzio: un gran piatto.

L’essenza dell’umami, poi, viene applicata a un mito italiano: Spaghetto (risottato), scampi, miso, alga kombu: piatto eccellente giocato su toni piacevolmente sapidi. Chapeau. Certo, c’è anche qualche imperfezione come la foglia di carciofo che dovrebbe dare (come sottolineato anche in fase di presentazione del piatto al tavolo) la parte croccante alla crema di patate ma che non si rivela tale e qualche piatto un po’ più banale come l’ennesima variazione sul maialino. I dessert, inoltre, ci sono sembrati nettamente la parte più debole del menu.

Ciò detto, siamo al cospetto di una cucina dinamica e creativa; senza dubbio una delle migliori, oggi, in Oltrepò. Tratti, questi, che prevalgono sulle perplessità lasciando ben sperare per un futuro ricco di soddisfazioni.

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Noma: l’esperienza al limite della perfezione

“La tradizione è custodirne il fuoco, non adorarne le ceneri”.
Gustav Mahler

Con questa frase del celebre compositore austriaco vogliamo introdurre la nostra nuova epica visita in quella che, oggi, è riconosciuta universalmente come La Mecca della cucina nordica: il Noma. Ci siamo stati di nuovo, sfidando impetuose correnti informatiche nella difficoltà di riuscire a trovare un tavolo e l’importante investimento che questo ristorante chiede ai suoi avventori.

Agli ingressi dell’eclettico quartiere di Christiania, il Noma rifiorito dalle ceneri di un ex stabilimento industriale abbandonato, vede ora quasi del tutto ultimati i lavori di costruzione di quello che, un tempo, poteva sembrare solo un sogno redzepiano. Dall’ingresso nella serra fino alla test kitchen, Redzepi e adepti di lunga data si interrogano su come conciliare le ottocentesche salse del manuale di Auguste Escoffier (ne hanno una sua copia, originale autografata, autentica rarità) con muffe e batteri, attori assoluti nel grande mondo della fermentazione.

Di fatto, il termine stesso “fermentazione”, per quanto ormai entrato nel lessico gastronomico, affonda le sue radici etimologiche in epoca classica con il  latino fervere, letteralmente mettere in ebollizione. Al Noma, piatti e idee fermentano di pari passo, permeando questa realtà di una dimensione quasi leggendaria. La cucina di Redzepi, anzi della squadra di oltre 100 persone che a ogni servizio portano avanti la geniale concezione di questo Chef, lascia sbalorditi chiunque abbia la possibilità di vivere questa esperienza. Perché fermentazione, qui, significa anche un capovolgimento gustativo dal complesso al semplice: partire da un gusto elaborato frammentandolo, campionandolo, in gusti più semplici. Una sequenza aurea che in ogni frattale di questo mosaico gastronomico ha un preciso sapore: nuovo ma, soprattutto, diretto, fulminante. Sviluppare menù in maniera monotematica, sfruttando la stagionalità di un determinato regno, animale o vegetale che sia, fa sì che oltre la conoscenza del semplice ingrediente nel suo familiare impiego si possa ricavare, con gli esperimenti di Redzepi, infinite combinazioni, aprendo le porte a gusti e consistenze extraterrestri.

Il mare: tra idee, piatti e fermento

Il menù provato, in un ordine di 22 portate, esplora le profondità marine del Baltico e dell’Atlantico e porta nel piatto creature abissali che solo dal nome richiamano le gesta del Capitano Nemo.

Dalla vongola centenaria servita con panna acida e olio di pino al nobile mondo dei crostacei raccontato in 5 servizi: in gelatina, fritto, arrostito, glassato e in insalata. La disarmante freschezza della capasanta servita tout court, in tutta la sua turgida matericità fa capire il livello di profondità donde arrivano gli ingredienti. I ricci di mare delle Fær Øer con koji e miso di funghi oppure il rombo marinato al grano fermentato innescano una reazione di stupito godimento su un sentore di carnosità affumicata che rasenta inaspettatamente la norcineria. La schnitzel di lingua di merluzzo oppure la pelle di latte fritta, ripiena di baccalà mantecato o, ancora, le uova di lompo con tuorlo d’uovo, passo dopo passo, alzano sempre di più la tensione, appagandoci.

La sala, complice della cucina, gioca sull’inevitabile stordimento che tali piatti possono suscitare nel cliente enfatizzando ancora di più l’ebbrezza che pervade il commensale.

Di fatto, il Noma fa sua declinazione della nozione di terroir, combinazione vincente tra uomo, territorio e clima. Le conoscenze e le tecniche usate trascendono senza alcuna distinzione di forma o limite geografico dalle tradizioni gastronomiche locali. Sembrerebbe un paradosso quello appena detto, poiché il Noma stesso è portabandiera di una precisa tipologia di cucina, quella nordica. Tuttavia il concetto di fermentazione è un qualcosa che interessa da nord a sud, dal sakè alla tradizione casearia. Non è un caso se al Noma vi lavorino ragazzi da tutto il mondo, dove ognuno può mettere del suo. Il paradigma della cucina redzepiana allo stato attuale non si esaurisce nella pur sfidante elaborazione di menù monotematici; al contrario, essa rappresenta una fucina d’idee che potrà ispirare le culture gastronomiche di tutto il mondo.

Signore e signori, il multiculturalismo gustativo non è mai stato così in fermento!

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