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Il mondo è la tua ostrica

L’ostrica sulle tavole della contemporaneità

Uno dei topos più ricorrenti della vulgata gourmet è rappresentato dal quesito su cosa dovesse aver provato l’uomo che assaggiò per primo la prima ostrica. Di certo, sappiamo che veterani erano, in termini di ostriche, già i Romani e l’onnisciente Plinio il Vecchio, il quale certo non disconosceva il piacere edotto di degustarne, nello stesso tempo, di diverse qualità e provenienza, così da saggiarne le differenti sfumature di gusto e consistenza: il modo migliore per apprezzarle? Lui le copriva di neve, “mescolando così la sommità dei monti e la profondità del mare”. Quanto alla contemporaneità, ecco dove ci ha portato.

Mare & Monti

Sine, Roberto Di Pinto, Milano

Una proposta semplice ma ben costruita, fatta di rivisitazioni dei grandi classici e di un’abile mescolanza  tra tecnica e passione, correnti mediterranee ed esotiche. Da Roberto Di Pinto lumaca e ostrica si giustappongono sia in termini di consistenza che di sapore, per un risultato morbido e rassicurante.

L’Arcade, Nikita Sergeev, Porto San Giorgio 

Buone doti imprenditoriali e un indubbio talento culinario stanno facendo di Nikita Sergeev uno degli chef a cui guardare per interpretare il presente e preconizzare il futuro. A L’Arcade lo chef cucina oggi, per pochissimi eletti, piatti con dichiarate velleità classicheggianti che sono, al contempo, tanto equilibrati quanto contrastati, come questa “minestra” di ostriche e testina di maiale.

Andreina, Errico Recanati, Loreto (AN) cooming soon

Il nostro Efesto nazionale, famoso per aver cotto sulla brace anche gli ormai leggendari spaghetti cacio e pepe, per il prezioso mollusco bivalve prevede un esito più virginale ma voluttuoso, combinando l’ostrica col rush piccante e vaporoso della senape e con la carnosità dolce e agreste della pesca. L’ostrica del contadino.

Carpioni e mugnaie

Enrico Bartolini – Mudec, Milano

Tra estetica, gusto e materia prima, tutto rigorosamente nazionale, Enrico Bartolini ha saputo realizzare, e replicare, una cucina densa di emotività e ambizione. Per lui il 2020 è stato l’anno della riattualizzazione, come dimostrato da questo alici, ostriche e caviale che, totalmente nuovo rispetto all’originale, si pone come un’interessante riflessione sulla tecnica del carpione.

Trattoria Zappatori, Christian Milone, Pinerolo (TO)

Nel corso degli anni la cucina di Christian Milano si è fatta più personale e più pensata, soprattutto nella necessità di restituire senso e dignità a ciascun piatto. Profondamente legata alla terra, ai valori vegetali dell’orto, la sua cucina non teme virate amare o acide, talvolta terrose, insistendo sulla consistenza come elemento centrale qui data dal cavolo verza su cui è adagiata l’ostrica cotta al burro e rinfrescata dal mandarino.

Qafiz, Nino Rossi, Santo Cristina d’Aspromonte (RC)

Nel cuore dell’Aspromonte, in una storica villa immersa nel verde, l’autodidatta Nino Rossi ordisce una cucina esuberante e personale, che attinge dal territorio e dalla tradizione locale per proiettarsi in una dimensione coraggiosamente internazionale.

Risotti

Venissa, Chiara Pavan e Francesco Brutto, Mazzorbo (VE) 

Menù compiaciutamente volubile in ottemperanza al trompe-l’œil di un paesaggio mutevole per antonomasia: liquido, com’è quello di Mazzorbo. In questo piatto, il risotto con foglia d’argento, infuso di pino mugo e ostriche alla brace dialoga idealmente con un altro piatto del menu: gli spaghetti in foglia d’oro, infuso di dorona e garum di sarde. Una polarità, questa, figlia del fecondo rapporto tra i due chef, Chiara Pavan e Francesco Brutto.

Grow, Matteo Vergine, Albiate (MB)

Un piccolo avamposto di cucina di ricerca che attinge dalle comuni origini leccesi per proiettarsi su orizzonti nordici, utilizzando materie prime di piccoli produttori strenuamente locali e vini particolari, tutti naturali. Premesse molto promettenti che, in questo risotto, hanno tuttavia un esito più rassicurante del previsto.

Pasta lunga

Casa Rapisarda, Alessandro Rapisarda, Numana (AN)

Una cucina che, dal vicino mare e dalla fertile campagna marchigiana trae, con le dovute licenze e senza talebanismi territoriali, linfa e idee. E senza lesinare su intelligenti incursioni nordiche, come quella del rafano che, qui, sgrassa, slancia e diverte le papille.

Antica Osteria Magenes, Dario Guidi, Barate di Gaggiano (MI)

Ostriche del Po per questo spaghetto golosissimo, caratterizzato da una concentrazione di sapori tanto netta quanto consapevole. La cucina di Dario Guidi è una caratterizzata da una buona dose di personalità e vivacità, che si magnifica anche nell’esercizio delle contaminazioni e di abbinamenti  talvolta inusuali, talaltra più rassicuranti da un punto di vista enciclopedico (come in questo caso).

Osteria degli Assonica, Alex e Vittorio Manzoni, Sorisole (BG)

Ai due fratelli Manzoni si deve il duplice spartito di un menù che, a frequenti giochi di acidità e contrasti, alterna rotondità ed equilibri studiati con attenzione. L’esito è coerente e originale come dimostra, in questo caso, l’idea di fare di una preparazione tradizionale come la bagna cauda il condimento per la linguina con le ostriche e il ginepro.

Pasta corta

Caracol, Angelo Carannante, Bacoli (NA)

La sapidità decisa di una cucina di mare che gioca le sue carte trasformando, senza stravolgere, il meglio della materia prima ittica proveniente del Mar Tirreno. In questo caso, ostriche e lamponi si giustappongono, senza sposarsi, in combinazione con una cacio e pepe tanto insolita quanto, vivaddio, anche assai credibile.

Gusci e conchiglie

D’O, Davide Oldani, Cornaredo (MI), cooming soon

Una melodiosa trasversalità gustativa, che potremmo metaforicamente assimilare all’orecchiabile ritornello di una canzone “pop” (guarda caso), caratteristica alla quale si è aggiunto, negli ultimi anni, un arrangiamento prettamente rock. È questa, in soldoni, l’essenza più attuale del D’O e che si ritrova, sotto a una scenografica campana, proprio anche nella scelta delle ostriche, servite nude e crude.

Bites, Pietro Zamuner e Andrea Baita, Milano

Una contaminazione purissima è l’essenza della cucina di Pietro Zamuner e Andrea Baita, dove affiorano riferimenti costanti allo stile nordico (leggi “fermentazioni”), alla scuola classic francese, con le sue salse, nonché alle tradizioni orientali, da cui arrivano molti degli ingredienti utilizzati. La tecnica di cottura privilegiata, alla brace, enfatizza il tutto, promettendo un’esperienza unica nel suo genere.

La Peca, Nicola Portinari, Lonigo (VI)

Nicola Portinari rappresenta uno dei talenti culinari più emblematici della contemporaneità. La sua cucina è tanto ispirata da permettergli infiniti giri intorno al mondo, infinite divagazioni e finanche depistaggi, capace com’è di interpolare i confini della verdura e della carne, della frutta e del pesce, annientandoli come nel caso di questa straordinaria ostrica, elevata sin quasi alla sublimazione in umami puro.

Ciccio Sultano, Duomo, Ragusa

L’imponente, imperiosa ostrica a beccafico di Ciccio Sultano magnifica tutta la grandezza di questo cuoco che, attraverso un indefesso esercizio di manierismo, ordisce piccole miniature che, nella loro carica gustativa, possono essere assimilate ai sipari pirotecnici di un’unica, straordinaria parata arabo-normanna.

Takeshi Iwai, Aalto part of Iyo, Milano

Un esercizio in equilibrio tra tecnica, precisione e ricerca, con il gusto come fondamento di questo piatto che alla cultura dell’ostrica cruda combina il latticello, popolare nell’Europa settentrionale e in alcuni paesi asiatici: un morso da sorbire.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia

Già presente nel Lab 2019, nel menu 2020 questo storico di casa Uliassi diventa il manifesto dello studio sul rancido nonché la più esatta conciliazione, e riattualizzazione in chiave avanguardistica, del gusto “mare e monti”. Una retromania attualissima, questa, che restituisce la miniatura dettagliatissima di un paesaggio: riviera adriatica 2020.

Diversamente ostrica

LaFuGa, Mattia Baroni, Sarentino (BG)

Dalla concretezza di Gregor Wenter, proprietario della struttura alberghiera, e dallo scientismo di Mattia Baroni, ingegnere informatico mancato, nasce il Laboratory for Future Gastronomy. Fucina di numerose tecniche di fermentazione e di studi sul miso e lo shoyu utilizzati come insaporitori o agenti marinanti. Il tutto, al servizio di una cucina che fa leva sull’umami e aspira alla salubrità totale.

La carriera di Martin Benn è stata folgorante: forte dell’esperienza maturata da giovanissimo presso due pesi massimi del calibro di Michel Lorrain e Marco Pierre White, vola in Australia dove, a soli 25 anni, diviene primo cuoco del Tetsuya’s, probabilmente il più celebre ristorante della terra dei canguri, per poi dare vita (e lustro) alla sua creatura, il Sepia.
Le solidissime basi della scuola europea, plasmate dalle influenze del Giappone e del Nuovo Mondo, traspaiono nettissime in una cucina di grande finezza e profondità, mai banale e valorizzata dall’utilizzo di selezionate materie prime.

Il menù degustazione, scelta spesso obbligata a queste latitudini, è un gradevole mix di Oriente ed Occidente, sia per ingredienti che per tecniche di cottura.
La cifra distintiva della proposta gastronomica è la pulizia di sapori, lo scarso o nullo impiego di grassi aggiunti, ed il dosaggio perfetto dei condimenti.

La precisione certosina, anche nell’impiattamento, fa trasparire più di un’influenza nipponica, così come l’acidità, sempre misurata, ma spesso in piacevole evidenza, dà un tocco di modernità, chiesto a gran voce dalla cosmopolita clientela che frequenta il locale.
Tra un cocktail -ben fatto- al bancone all’ingresso, ed una veloce sbirciata allo smartphone, gli astanti chiacchierano amabilmente creando un vociare di sottofondo tutt’altro che comune in una grand table.

Il Sepia, se non fosse per la grandissima qualità di ciò che viene portato ai minuscoli tavolini, nudi, agghindati del solo tovagliolo, parrebbe anche ad un occhio attento, un bar, scuro e trendy… ma pur sempre un bar.
L’atmosfera, gli arredi, il servizio (a scanso di equivoci, di grande professionalità, ma veloce e distaccato), l’assenza di tovagliato, nulla lascerebbe presagire di essere seduti nel miglior locale della capitale, nonché in uno dei più in vista dell’intero Paese.
La Food Good Guide, non a caso, lo ha proclamato miglior ristorante d’Australia nel 2015.

Il nostro percorso è stato scandito da un crescendo di portate, ben congegnato e pienamente godibile.
Perfetto nella sua semplicità il sashimi di tonno, finemente arrotolato, formaggio di capra, avocado, ravanello e ciccioli di maiale, mix tra materia prima, freschezza e ruvida golosità.
Superba l’anatra per cottura ed abbinamento con cachi canditi, finocchio essiccato, aceto di fragoline di bosco.
Meraviglioso bilanciamento degli ingredienti tra wagyu Blackmore, cipolla arrostita, mostarda, funghi nameko, scalogno rosa sottaceto e shots di piselli.
Ci ha sorpreso in positivo anche la variazione di latte, per nulla stucchevole, goduriosa altalena di sapori a tinte dolci: cioccolato, yogurth al cocco, pudding di riso, dulce de leche di capra, sorbetto al latte di pecora, tortina, crisp, yuba.

La carta dei vini è ampia e profonda ma davvero poco praticabile. Pochissime le referenze sotto i 100AUD (70€ circa), e moltiplicatore degno di chi non bada a spese.
Molta sostanza e poca forma, quindi, per la nostra più interessante esperienza in Oceania.

Ostriche neozelandesi.
Ostriche, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Tris di Appetizer: Salmone saikou, uova affumicate, sudachi. Gambero affumicato, daikon sottaceto, shiso. Kingfish crudo, kabosu, tofu.
Appetizer, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Sashimi di tonno pinna gialla, formaggio di capra, avocado, ravanello, ciccioli.
Sashimi, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Capasanta, uovo di quaglia, cavolfiore, tartufo nero della Tasmania, fiori di brassica (dal sapore senapato). Sotto la cupola di spuma di cavolfiore un caleidoscopio di sapori.
Capasanta, Chef Martin Benn, Sydney
Abalone grigliato, yuzu, zabajone di dashi, pelle di pollo arrostita. Molto complesso, ogni boccone regala differenti sensazioni.
Abalone, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Granchio “spinner”, carota bianca, crema di miso Saikyo, petali di crisantemo fritti, alga nori.
Granchio, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Anatra, cachi canditi, finocchio essiccato, aceto di fragoline di bosco.
Anatra, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Wagyu Blackmore grigliata ai carboni, cipolla arrostita e mostarda, funghi nameko, scalogno rosa sottaceto, piselli.
Wagyu, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Mandarino, lemonade fruit (ibrido tra arancia Navel e limone), tè verde.
Mandarino, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Gelato al tartufo nero, nocciole tostate, rosmarino, miele Spotted Gum.
gelato al tartufo nero, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Variazione di latte: cioccolato, yogurth al cocco, pudding di riso, dulce de leche di capra, sorbetto al latte di pecora, tortina, crisp, yuba.
variazione di latte, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
Foresta di cioccolato: cioccolata morbida, nocciola e mandorla, crema di Violet Crumble, sorbetto di more, gelatina di sambuco e limone, tè verde, liquirizia, rametti di cioccolato, finocchio dorato.
foresta nera, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney
La sala.
sala, Sepia, Chef Martin Benn, Sydney

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CREMA DI CECI E NOCCIOLE AL TARTUFO BIANCO, GELATO DI OSTRICHE

Pensavamo di averlo ripiegato in fondo a qualche scatolone, il trompe-l’oeil, genere egemone del lungo carnevale spagnolo, fra il trantran del repertorio e la quaresima interminabile della contemporaneità. Finito nella soffitta della storia con qualche coriandolo ancora sparso sopra, come una maschera divertente da rispolverare nelle occasioni di rito. Sorridendo del fungo-prosciutto di Quique Dacosta o del carpaccio di cocomero di Andoni Luis Aduriz, per non parlare della terra in cioccolato di Ferran Adrià. Virtuosismi certo, tesi a dimostrare la padronanza del cuoco sul prodotto, nel senso letterale del possesso. Antitetici rispetto al puritanesimo di quella cucina della verità che ha preso piede da qualche tempo a questa parte.
Pensavamo, appunto, perché il trompe-l’oeil probabilmente ha solo cambiato tecniche e funzioni, spogliandosi della dimostratività del tour-de-main per farsi attrezzo di una cucina del sospetto, che allerta maliziosamente l’attenzione di chi mangia su ciò che sta realmente mangiando. Niente di effettistico insomma, piuttosto un dubbio insinuante che rosicchia l’ideologia della cucina. Come nel caso della crema di ceci e nocciole al tartufo bianco e gelato di ostriche di Christian Milone, preview culinaire dove l’illusionismo si sdoppia in un gioco ora manifesto, ora sottile. Gustativamente e concettualmente stringente.
Da una parte la castagna-tartufo, presentata sotto la cloche e affettata con la mandolina d’ordinanza secondo la più popolana delle tecniche: i marroni di Garessio pelati sono rimasti chiusi in un barattolo sottovuoto insieme ai tuberi per 1 settimana, impregnandosi dei loro profumi come il riso, ma senza effetti disseccanti, per un esito di sorprendente intensità. Dall’altra la crema di ceci ottenuta unendo loro nel Bimby un 30% di nocciole trilobate di Langa, precedentemente cotte a 60 °C per 2 ore: la frutta secca viene trattata al pari di legumi, arricchendo la testura e veicolando i profumi sulle ruote della componente grassa. Infrangendo soprattutto la routine sul muro dell’errore categoriale calcolato.
Non basterebbe se questo monocromo di stagione, imbastito sul canovaccio del comfort food regionale, con la trama delle affinità merlettate di nocciole, non sbattesse sullo scalino poetico del contrasto, secondo una legge del bello. Quella che richiede che “la distanza sia estrema e l’evidenza inconfutabile”: “Come non scorgere una legge dell’estetica in questo obbligo di paragonare i contrari?”. È il gelato di ostriche crude e acqua di ostriche, contrappasso sapido, fresco e straniero, soprattutto interlocutore olfattivo del tartufo, che irretendo nel suo profilo iodato la prepotenza degli idrocarburi sposta lungo la mucosa olfattiva il baricentro del piatto.
Ma la carta a venire riserva altre sorprese: la cialda di porcino, capolavoro analitico dove il fungo è destrutturato e riassemblato (fuori una cialda composta di isomalto e cuticola, la parte più intensa, sporca e amarotica del fungo, trappola microbica del genius loci; dentro una farcia di cappella e gambo saltati; il tutto sospinto dal supporto di muschio e foglie secche nell’alveo di una cucina emozionale e dell’istante, che lavora separatamente sull’olfatto e sul gusto); l’iper-primitivista salmone “affumicato” dal mucchietto di trucioli di liquirizia a bordo piatto, con la guancia spadellata alla lavanda da scalcare a mano, sorta di sot-l’y-laisse ben più pallido, soave e moelleux del resto della polpa, sul modello delle kokotxas basche ma con crudeltà tutta nord-europea; la carne cruda brasata al vino rosso, crasi di due classici piemontesi che inverte crudo e cotto, come la cotoletta sbagliata di Matteo Baronetto, dove la classica battuta di coscia nella sua integrità aristocratica è condita dal sugo liofilizzato al vino rosso.

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Foto d’apertura: l’ingresso.

Se negassimo a Polignano l’indubbio privilegio di aver dato i natali a Domenico Modugno, Tuccino sarebbe senza dubbio la bandiera iconica del meraviglioso borgo pugliese. Difficile incontrare qualcuno, amico gourmet o semplice conoscente, che dopo aver saputo della nostra missione a Polignano non ci abbia chiesto: “Sei stato da Tuccino, vero?”. Lo conoscono tutti questo indirizzo, da decenni, quasi fosse un monumento tutelato dalla soprintendenza. Perché tanto successo, tanta fama indiscussa e trasversale?

Di posti buoni o ottimi, dove gustare materie prime di mare e preparazioni di qualità, Polignano è piena. Soprattutto nel centro storico, che rispetto all’ubicazione di Tuccino, più nascosta verso il nascente porto turistico, consente anche di assaporare con gli occhi lo splendore di questo luogo affascinante: prima di cena qui è difficile resistere a una passeggiata tra le strette vie del cuore di Polignano, per scoprire all’improvviso uno dei panorami più attraenti dell’intera costa pugliese, con lo sguardo a inseguire una lingua di mare cristallino che s’insinua nel ventre dello sperone roccioso. Ammirare il tramonto dalla terrazza in cui hanno collocato la statua del sommo Mimmo è un privilegio che neppure gli anziani del villaggio si negano ogni giorno. Poi alla sua sinistra la strada degrada lentamente verso le zone residenziali, gli anfratti marini, le spiagge, e … verso Tuccino.

Rispetto alla generale semplicità che domina i ristoranti locali, Tuccino ostenta subito un’originale eleganza. Parcheggio privato, linee armoniose dell’edificio, spazi ampi, ordinati e luminosi. Un colpo d’occhio ben diverso da quello che doveva essere il locale ai suoi esordi, una cinquantina d’anni fa, quando Vito Benito Centrone detto Tuccino aprì uno “sciale” sul mare dove vendeva solo cozze nere. L’evoluzione verso l’alto è un processo rapido e costante nel tempo, la chiave del successo di “Tuccino” l’inflessibile volontà di Benito di scovare il miglior prodotto che il mare avesse da offrire. E di portarlo semplicemente in tavola. La cucina non si pone in teoria davanti alla materia ittica, non osa fargli ombra, è al suo servizio, con i suoi pregi e i suoi difetti: alcune preparazioni sono più azzeccate, altre meno, come accade normalmente anche altrove. Qui da Tuccino, però, c’è un qualcosa in più. Il grande merito di Benito è di aver instillato nelle menti di suo figlio Pasquale e di suo nipote Vito lo stesso amore viscerale per questo lavoro che l’ha animato nel corso della sua intera esistenza. Un’eredità che è una garanzia per il presente e per il futuro. Se non fate di professione il pescatore, è probabile che qui da Tuccino assaggerete i crudi di mare più buoni della vostra vita, dai crostacei ai mitili, dalle coquillages ai pesci selvaggi. Letteralmente di un altro mondo. Una selezione hors catégorie che passa attraverso le centinaia di chilometri che ogni giorno il buon Vito (19 anni) si sobbarca per raggiungere i migliori mercati, anche i più lontani. Sempre con quel sorriso sincero sulle labbra, il medesimo che abbiamo letto negli occhi del padre Pasquale, al quale una sciagurata malattia ha deciso di negare libertà di movimento e di parola. Ma non certamente l’opportunità di essere felice e di sognare, come gli accade da sempre nel suo ristorante, accanto alla sua famiglia, ai suoi clienti e di fronte al suo mare.

La sala, vista mare.
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Il meraviglioso bancone del pesce. Qui si va in pellegrinaggio appena arrivati, qualche secondo di silenzio e si stabilisce cosa mangiare. Nel conto finale il pesce normalmente è quotato a peso.
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Dettaglio del bancone: crostacei e gamberi viola di Gallipoli, li mangeremo crudi …
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… ed ecco l’imperdibile trionfo di crudi: oltre a crostacei e violette, le straordinarie cozze nere tarantine e le pelose di Manfredonia, i tartufi di Barletta, i ricci di Savelletri, il polpo di Polignano “arricciato”, gli intrusi stranieri tra cui percebes e ostriche di variegata e meravigliosa tipologia. Un mondo paradisiaco difficile da mettere insieme in un colpo solo.
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Prima scelta dalla carta dei vini: Ruinart Blanc de Blancs. La lista è sontuosa e infarcita di “nobiltà” proposte a prezzi di rara intelligenza. Invita all’eccesso, lo faremo.
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I carpacci: tartare di tonno, saraghetto, triglia sfilettata e fragolino marinato con mosciame di tonno. Talmente alta la qualità di partenza dei pesci che ogni intrusione (olio, capperi, limone o mosciame che sia) è quasi un fastidio e appare superfluo. Su tutti la triglia, non a caso la più “nature”: di incomparabile bontà.
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Spaghetti, gamberi viola e bottarga. Primo piatto “cucinato”, tecnicamente ineccepibile, gustoso e saporito: tanto per reiterare un concetto già espresso il gambero viola supera in intensità la bottarga …
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Orecchiette al nero: un grande classico di Tuccino, pasta ricca, ben equilibrata e aromatica. Il mare con un bel doppiopetto di velluto.
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Felice intramezzo vegetale: Pino, cabarettista mancato, ci porta un assaggio di Carosello (piccolo melone verde), cetrioli e rapanelli. Oltre a ricordarci l’incredibile freschezza e leggerezza di queste gemme di terra pugliese, ecco l’occasione per lodare il personale di sala, di rara efficienza e cortesia.
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L’abuso promesso dalla carta dei vini: Dom Perignon vintage 2000. Ci sta tutto a questo punto.
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Un altro classico di Tuccino: ombrina alla catalana. Buono, ma anche qui slalom tra le verdure per arrivare al pesce …
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In questo piatto vige una regola: tutto ciò che può esser mangiato crudo, si può anche friggere. Nonostante un’untuosità che appare eccessiva, la leggerezza è incredibile e sorprendente, anche il giorno dopo. L’altra faccia dello specchio.
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La zuppa: normalmente la cena di una persona comune. Non per noi.
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Il cuore di Polignano.
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Il suo mare.
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Il suo panorama.
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Il suo sorriso.
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Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione Ristorante

“Senti il profumo di sterco, l’aria serena e fredda del nord. Senti un rumore sperduto, quel trattore che incrocia la tua stretta via con a bordo una signora provata dalla fatica e dalla vita. Che ti sorride. Paradossale ? Una vita di duro lavoro, magari di stenti, ma una vita felice. Per l’aria pura, per l’anima profonda delle persone che la circondano, perché qui si lavora la terra, e con la terra a contatto delle mani la mente è più salda, più forte, più vicina a Dio. E’ qui, nella campagna belga, che ho ritrovato la mia anima, il mio amore, la mia vita.

No, non voglio perderla più questa sensazione, questa serenità interiore, questa sintonia d’animo, questo profondo ed intenso amore. E’ lei è qui, non è un caso.

Proprio qui, in un mondo puro, profondo, apparentemente freddo ma estremamente caldo, vigoroso e intenso, pervasivo. Lei è così

Non è un caso, è lei, qui, ora! Questo è il suo luogo, così è la sua anima”

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