Abbiamo raccolto qui una carrellata di piatti tra agnelli e pecore che hanno cambiato il modo di vedere il mondo e a cui non possiamo fare a meno di tornare col pensiero, oggi che, almeno idealmente, siamo tutti davanti alle braci: quelle delle nostre fantasie gourmet.
Buona Pasquetta!
C’è più di una citazione in questo piatto che, da solo, racchiude tutta l’identità personale e professionale di uno chef formatosi accanto alla regina del foraging, Valeria Margherita Mosca.
Una delle memorabili “scarpette” di Niko Romito: una deflagrazione bucolico-pastorale molto erudita.
Splendido per cottura e abbinamenti: tre ingredienti per un piatto da fondo scala.
Un cuoco carismatico, dall’energia vibrante, che ha riassunto la sua idea di Nuova Cucina Basca nel termine muina ovvero nucleo, essenza, origine delle cose: come in questo piatto quintessenziale e profondissimo.
Il composito risotto perfettamente mantecato con guancetta laccata, di uno chef molto ispirato.
L’eccezionale grano cotto a mo’ di risotto con spuma al latte di capra, ostrica e fondo di agnello, a riprodurre il sapore di un agnello presalè francese.
Il soffritto napoletano di agnello con una salsa aioli: decisamente goloso.
L’agnello, feticcio tradizionale del mondo sudamericano, cotto per nove ore su brace di legno Tepù. Il miglior agnello forse mai assaggiato, per texture scioglievole delle carni e la cotenna, incredibilmente croccante.
La vertiginosa tartare di colombaccio col sugo d’agnello: un trompe l’oeuil di sensazioni agresti e rurali.
Lo scampo scozzese con battuto di pecora Cornigliese cruda servita su una vaporosa riduzione di stout.
Il maestoso cavolfiore arrostito intero al forno accompagnato (quasi sommerso) da un ricco fondo di agnello e labneh.
La fragola alla brace con agnello al curry e schiuma di latte rappresenta uno dei picchi della verticalità gustativa raggiunta da Albert Adrià da Enigma.
Il collo di agnello con un fondo di latticello di capra, gioca concettualmente con l’alimentazione dell’animale, trasformando in “agnello” anche chi l’agnello lo mangia. Metamorfico.
L’indimenticata “fuori di testa d’agnello” in più versioni: una reminiscenza dei pranzi in osteria di Mauro Uliassi col papà, dopo la caccia.
L’elaborata architettura di consistenze e sapori di Lorenzo Cogo, per cui ogni piatto è una storia, con una sintassi e una semantica ben definite: in questo una storia di terra e sottobosco.
Uno straordinario cultore della materia, al servizio di una delle migliori costine mai addentate, di cui tartufo e maionese di patate un compendio quasi innecessario. Quasi.
La bellezza dei piatti di Caminada è seconda solo al loro equilibrio, delicatissimo come in questo caso: un agnello in punta di piedi, di virginale tenerezza.
Da applausi l’agnello lucano di Enrico Bartolini, mirabile per punto di frollatura e marinatura alla camomilla, tali da obnubilare perfino il rognone, servito a parte.
In un unico piatto la quintessenza di un intero territorio, erbe comprese, da brucare e benedire.
Un goloso, rifinito, laccato Agnello dei Pirenei, fondente e profumato.
Brutalismo ed eleganza in un sol colpo in questo carré d’agnello del nord Europa quasi “nature”, servito con alghe e cetrioli fermentati.
L’agnello nella bocca del lupo: agnello marinato nella Melissa (la bocca di lupo) servito in un cartoccio di pane carasau, maionese alla curcuma, cumino, coriandolo, zenzero, crema yogurt e menta, cetrioli acidi, germogli di abete e genziana.
Solo la temperatura a inficiare quest’audace esecuzione dove non mancano né tecnica né palato: quelli di Marco Ambrosino che, ibridando fine dining e bistronomia ha trovato, tramite fermentazioni ed erbe spontanee, una sua personalissima strada espressiva.
Altra versione dello spiedo di anello da parte di questo imprevedibile, demiurgico chef procidano.
Un piatto sublime – e subliminale – sia nelle cromature che nel bilanciamento e del sapore e delle consistenze. Ennesima conferma da parte di una chef dalla mano felicissima, in stato di grazia.
Una grande versione di pecora Cornigliese, in limine tra austerità e generosità. Questa è, del resto, la cifra stilistica, ad alto tasso di gusto, di Luca Natalini.
Un tributo al magnifico esemplare di Pecora Gigante Bergamasca, realizzato da uno chef che non ha alcuna paura di osare.
Una grande, piccola tavola di campagna che regala piatti forieri di grande eleganza, su un plafond in cui s’innesta un amore profondo per il territorio e il suo vernacolo.
L’altissima scuola francese resa più vivida e più brillante che mai, anche in questo magnifico esemplare alla brace.
Questo talentuoso chef di una trattoria del Barigadu oristanese si fa ricordare per la delicatezza con cui tratta le carni, e le combina, come questa, di pecora marinata, more selvatiche e mandorle.
Complice la mitezza del carattere, quella ovina fu tra le prime specie animali a “beneficiare” dell’attenzione dell’uomo e, come tale, a entrare nelle grazie del suo immaginario mistico, simbolico e rituale. Tra tutti gli animali esistenti e, complice la sua triplice vocazione – trina, direbbe qualcuno – la mansueta pecora è stata ecumenicamente “consacrata” tanto che, a differenza di altre specie (pensiamo ai bovini, alle capre e ai suini) è stata allevata a tutte le latitudini, presso tutti i popoli e presso tutte le religioni.
Ebbene, è precisamente a proposito di religioni che occorre fare, all’indomani di questa straniante Pasqua 2020, una premessa. Come già detto per l’uovo e per il carciofo, la pecora e precisamente l’agnello compare nei costumi alimentari rituali della Pasqua cristiana come diretta adozione dalla Pasqua ebraica che, dalla sua, è abitata dal sacrificio dell’agnello quale topos ricorrente dell’Antico Testamento. Quanto al Nuovo Testamento, invece, dell’agnello non v’è traccia se non come testimone di un passaggio di prospettiva: Giovanni Battista accoglie Gesù apostrofandolo “l’Agnello di Dio” e proprio in questa frase si cela la traslitterazione del destino sacrificale dall’agnello, appunto, al figlio di Dio.
Quello che, dunque, campeggia sulle nostre tavole durante il pranzo pasquale è un costume rituale adottivo che nulla ha a che fare con la ricorrenza cristiana e di cui costituisce, semmai, una semantizzazione posteriore, avvenuta solo in seno al contesto di agiatezza del dopoguerra. Quanto a lei, la pecora comune, essa è l’esito di un paziente lavoro di selezione della razza operato dall’uomo che, nel corso della sua stessa evoluzione, ne ha ricavato un animale che fosse lui utile ad almeno tre scopi – latte, carne e lana, o pelle – al punto che oggi ci troviamo di fronte a quasi 440 incroci realizzati solo nell’arco degli ultimi quattro secoli. Tra queste, la razza più diffusa è la Suffolk che, dall’Inghilterra, si trova oggi in circa 40 paesi seguita dalla spagnola Merino e dall’olandese Texel. Se si considerano, tuttavia, i ceppi derivati dall’originaria Merino allora questa passa al primo posto di questo podio ideale.
Eccovi allora un piccolo atlante che, speriamo, possa esservi utile per comprendere il composito mosaico italiano delle razze ovine da carne, con un jolly.
Da esemplari autoctoni presenti sulla dorsale appenninica italiana deriva questa razza, prevalentemente da carne, adatta a qualsiasi ambiente, anche a quelli più impervi. Per questo è stata adottata in tutto l’arco appenninico centro-meridionale dove, oltre che con gli agnellini, contribuisce alle cause dell’uomo attraverso il latte il cui grasso – all’8% – la consacra alla produzione del Pecorino Toscano, così come alla lana da materasso di cui si ricavano circa 2,5 kg dagli arieti e 1,5 kg dalle pecore.
Dall’incrocio della razza siciliana Pinzirita con arieti di razza nordafricana Barberin (del versante nord Africa) a coda grassa, la Barbaresca oggi ha casa nell’entroterra siciliano meridionale, in provincia di Caltanissetta, e in altre zone collinari dell’Italia meridionale. La particolare attitudine alla carne le è attribuita non tanto dal peso degli agnelli quanto dall’elevata percentuale di parti gemellari, fino al 40%. Il suo latte è alla base della produzione del Pecorino Siciliano DOP.
Antica razza creata dall’incrocio con la spagnola Merino all’epoca dei Borboni per aumentarne le potenzialità, la Cornigliese abita oggi i pendii delle zone montane delle province di Reggio Emilia, Modena, Ravenna, Forlì Cesena, Bologna e si spinge fino alle pianure ferraresi, benché abbia come territorio di riferimento il Parco Regionale delle Valli del Cedra (PR). La sua natura nomade le conferisce carni particolarmente magre e dall’aroma caratteristico; assieme alla Gigante Bergamasca è una delle poche, in Italia, a essere consumata cruda.
Una razza sintetica derivata dall’incrocio e successivo meticciamento realizzato negli anni ’60 tra arieti di razza Bergamasca e pecore appartenenti alla popolazione dell’Appennino marchigiano, in particolare nelle provincie di Ancona e Macerata. Oggi la si trova tra le Marche e l’Umbria dov’è utilizzata anche per la produzione di latte atto a divenire Casciotta di Urbino e Formaggio di Fossa di Sogliano.
Tra le razze ovine di interesse locale la Garfagnana bianca vanta origini antichissime: ne parlava già Columella nel De re rustica. Allevata quasi esclusivamente nella Garfagnana, nella Valle del Serchio e nella Val di Magra (Lunigiana e zona di Pontremoli) e, sporadicamente, in Abruzzo, questa razza si vota straordinariamente anche alla produzione di latte, dal quale si producono sia formaggi stagionati che ricotte.
Ottenuta dagli incroci effettuati già sotto Federico II di Svevia tra pecore di razza locale Carfagna e arieti Merino provenienti dalla Spagna, benché legata alla provincia di Foggia la Gentile di Puglia si trova oggi anche in Campania, in Molise, in Abruzzo, in Basilicata e in Calabria, dove si è diffusa per via della pregevole lana e per le carni saporite, dalla grana fine e ben bilanciate nella componente lipidica.
Di probabile, remota provenienza sudanica (famiglia a orecchie pendenti e profilo montonino), etnicamente è da collocarsi nel gruppo delle razze alpine alle quali si avvicina per caratteri morfologici e attitudinali pur distinguendosi da esse principalmente per la caratteristica taglia, da cui mutua il nome. Originaria di Clusone in Val Seriana è oggi diffusa in tutte le Prealpi bergamasche nelle province di Sondrio, Como e Brescia e, benché sia proverbialmente considerata la migliore razza italiana per la produzione di carne, cui si vota grazia a un’etologia molto coerente con la sua anatomia – è sempre in movimento e si nutre esclusivamente di erbe spontanee – non è affatto conosciuta al di fuori della sua zona d’origine. È comunque sopraffina: tanto da farsi apprezzare anche cruda oppure solo dopo lentissime, sapienti cotture.
Dalla popolazione poli-meticcia ottenuta incrociando Gentile di Puglia e Sopravissana con tipi genetici della Merino di derivazione europea, la Merinizzata italiana abbraccia una grande famiglia dell’Italia centro-meridionale protagonista negli ultimi tempi di una selezione genetica ulteriore volta a migliorarne l’attitudine alla produzione sia di carne che di lana.
Da latte e da carne, questa razza ha avuto origine dall’incrocio tra la Barbaresca e l’Appenninica locale. Un tempo allevata nelle sole provincie di Avellino e Benevento, vista la sua predisposizione alla produzione della carne è andata diffondendosi in altre regioni benché la si consideri specie-specifica delle province di Avellino, Caserta, Benevento e Matera. Dal suo latte si ricavano anche molti dei Pecorini locali.
Tra le razze ovine di interesse locale, l’autoctona di Pomarance, in provincia di Pisa, è attualmente allevata, oltre che nel suo comune di origine, anche a Volterra e a Montecatini. Benché la sua attitudine secondaria sarebbe il latte la sua mungitura avviene assai di rado giacché se ne privilegia, e da tempo immemore, la carne. Si tratta infatti di un esemplare rustico allevato in ambienti di alta collina, allo stato brado e semi-brado per tutto l’anno e con modeste integrazioni di fieno, solo in caso di necessità.
Razza derivata dagli ovini di Visso, in provincia di Macerata, sui monti sibillini, il primo esemplare fu ottenuto nella seconda metà del XVIII secolo grazie dall’incrocio con arieti Merino spagnoli, francesi di Rambuillet e, più tardi, coi Gentili di Puglia. La Sopravissana è oggi particolarmente diffusa in Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Toscana. Madre del romanesco abbacchio è anche responsabile della produzione del celebre Pecorino di Picinisco.
Prodotto tutelato nell’Unione Europea, la carne che fruisce della denominazione d’origine Prés-salés du Mont-Saint-Michel proviene da agnelli di età inferiore ai 12 mesi le cui caratteristiche sono conferite dal pascolo marittimo e ottenuti da montoni riproduttori di razza Suffolk, Roussin, Rouge de l’Ouest, Vendéen, Cotentin, Avranchin, Charollais o da maschi nati da madri di allevamenti praticanti la pastorizia in paludi salmastre, caratteristica principale di questo prodotto tradizionale della baia di Mont-Saint-Michel, dove si perpetua sin dal X secolo. Come attesta lo scritto di Pierre Thomas du Fosse, saggio e letterato di Rouen: “L’erba del litorale è come il timo selvatico, conferisce alla carne ovina un gusto così squisito che si è tentati di lasciar perdere le pernici e i fagiani.“
*In copertina un frammento del Polittico dell’Agnello Mistico di Hubert e Jan van Eyck.
Una famiglia che lavora bene: con testa, entusiasmo e cuore.
Che fa le cose che sa fare, e le fa nel miglior modo possibile.
Che ama i ristoranti tanto quanto li amiamo noi.
Ecco in tre righe la Locanda San Lorenzo.
Lo percepisci subito quando un ristoratore non ama stare solo dalla parte “calda” del pass, ma adora il vino e il cibo anche come cliente e tutte le volte che ne ha la possibilità va in cerca di grandi tavole da amare e bottiglie da stappare.
Lo capisci dalle bottiglie che accumula in cantina, dalla lacrimuccia che gli scende quando gli ordini una etichetta importante, che è sì un incasso sicuro ma anche un piccolo pezzetto di “tuo” che se ne va. Appassionati che hanno scelto un mestiere per sguazzare in questa passione.
Allora il calore, il piacere di rivedersi dopo tempo, la chiacchierata dopo cena, non sono più necessità dettate dal lavoro, ma le cose più spontanee e naturali possibili.
Non abbiamo sentito mai nessuno parlare male di questo posto, e un motivo ci sarà.
Un motivo potrebbe essere la cantina: una carta dei vini splendida, piena di chicche a prezzi estremamente ragionevoli. Non sarebbe ridicolo salire fin quassù solo per stappare qualcosa di importante.
Ma la cucina non è da meno, in particolare quella legata al mondo carnivoro.
Il consiglio è proprio quello di by-passare i piatti di pesce e gettarsi a capofitto su selvaggina, agnello e affini.
C’è una ricerca incredibile, fatta di piccolissimi fornitori e lontana anni luce dalle catene del gusto. La differenza si vede e sente. Una beccaccia così, la si mangia qua e in pochissimi altri posti.
O ancora l’agnello: una variazione che ha pochi uguali in Italia per gusto e qualità della carne.
È cucina concreta, fatta di cotture attente, tantissima solidità e pochi slanci fuori misura.
Cucina classica italiana, di cui tanto c’è bisogno perché è merce sempre più rara.
La cucina ideale per accompagnare quella bottiglia importante che tanto avete sognato.
E magari proprio qui potrete urlare: “si può fare!”
Amuse bouche
Lumache croccanti, salsa all’aglio e erbe
Unico piatto non troppo convincente, per una lumaca che manca di intensità di sapore.
Sandwich di cervo e foie gras, salsa ai lamponi, mostarda di cipolla
Risotto alla beccaccia
Capolavoro assoluto, grandissima beccaccia.
Cervo, castagne, zucca e succo di melograno
Degustazione di agnello. Sempre imperdibile a questa tavola.
Stracotto con polenta
Pancia arrotolata
Frattaglie
Cervello e carrè fritti
Filetto
Crumble salato e cremoso al pistacchio con gelée al limone, gelato di ricotta e yogurt e biscotto all’olio extravergine di oliva
Arancia, mascarpone e zenzero
Piccola pasticceria
I colpi sparati per l’occasione:
Meursault Les Tessons, Clos de Mon Plaisir 2006 – Roulot
Clos de Vougeot 2001 – Domaine Leroy. Un vino incredibile, capace di evolvere nel bicchiere all’infinito. Una sottile nota di cacao si nasconde tra mille sfumature fruttate. Mostruoso.
Un rapido sguardo in cantina
La sala del ristorante (ma noi vi consigliamo il più familiare tavolo “lato bar”, di fianco al camino e vista cucina, altresì conosciuto come “tavolo del notaio”)
Dopo la parentesi londinese, Riccardo De Prà è tornato alla nave madre per riprendere la guida della cucina di famiglia. La sua assenza nell’ultimo periodo non è stata indolore, quindi con piacere abbiamo ritrovato in questa visita la mano convincente del giovane chef bellunese.
Un animo inquieto quello di Riccardo De Prà, che non sembra ancora aver trovato la sua completa dimensione. Così come il ristorante, in bilico tra novità (metà tavoli sono in legno grezzo senza tovaglia, la moda del momento) e tradizione (l’altra metà del ristorante ha i tavoli con le tovaglie), con un cordone ombelicale non ancora del tutto reciso tra la storica gestione di questo illustre locale e tutto quello che dovrebbe rappresentare la nuova generazione.
Ci sembra che i risultati a cui può ambire questa cucina potrebbero essere superiori, ma già oggi il livello è molto buono e alcune preparazioni meritano il viaggio come lo straordinario appetizer propostoci: carne di manzo locale appena scottata abbinata a una deliziosa maionese al wasabi. Un piatto semplicissimo, Japan Style che mette in grande risalto la qualità della carne allevata qui.
Le preparazioni più efficaci sono certamente quelle che traggono le loro origini dall’Alpago e dai sapori di queste terre: le lumache gratinate con erbe di montagna sono imperdibili, un grandissimo piatto. Così come le costolette di agnello, forse cotte un filino in eccesso ma gustosissime e rese ancora più sfiziose da una efficace panatura.
Meno convincente l’interpretazione della pasta alla carbonara: quando l’originale è meglio della rivisitazione, una domanda bisogna porsela e secondo noi questo piatto, pur di gran successo, non ha più molto senso in un menu di questo tipo.
Ottima come sempre la carta dei vini, così come il servizio, un po’ in difficoltà a sala piena ma di grande disponibilità e gentilezza.
Attiguo al ristorante c’è anche il Doladino, per una proposta più semplice e veloce sempre all’insegna della qualità.
Una notevole risorsa anche quella delle camere al piano superiore, per chi avesse bevuto un tantino troppo e decidesse di farsi cullare ancora un po’ dalla bellezza di queste montagne.
La storia continua al Dolada e i presupposti ci sono tutti per un futuro di grande soddisfazione.
Manzo con maionese al wasabi.
Lumache gratinate con erbe di montagna.
Uovo croccante nel pane nero e caviale di trota leggermente affumicato.
Pappardelle di grano antico Enkir, funghi, verza e fonduta di malga.
Nuovi spaghetti alla carbonara.
Trota dell’Alpago alla brace.
Costolette di agnello in crosta dorata di pane e rosmarino.
La manza di Rosina cotta alla brace in legno di nocciolo.
Noce di cocco, cioccolato e mosaico di frutta.
Tartelletta con nocciola, pistacchio e gelato al mandarino.
Millefoglie Monte Bianco.
Piccola pasticceria (molto buona).
La vista spazia verso il lago.
Recensione Ristorante
Il castello c’è ed è molto bello, il guardiano c’è pure lui ed è un po’ meno bello :-), ma anche lui ha il suo perché. La vista sui vigneti e sui paesi circostanti, in una domenica di primavera anticipata, vale da sola il viaggio. La stella è da poco arrivata ed anche lei fa bella mostra di sé all’entrata del locale.
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