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Cucine Nervi

Cucine Nervi: la tavola gourmet che mancava a Gattinara

Da fine novembre 2021 lo chef non è più a capo della brigata.

Si aggira per la sala, con la sua passione nel piatto, perché è proprio lui, fisicamente, a portarcela. E si trattiene il fiato ogni volta. Accade a Gattinara e il giovane chef, originario del paese e non a caso scelto per Cucine Nervi, è Alberto Quadrio.

Un grande ma piccolo open-space il suo ambiente di lavoro, così voluto, prima ancora di essere stato immaginato, e studiato. Roberto Conterno, dopo l’acquisizione della Cantina Nervi, ha scelto di offrire un’esperienza enogastronomia completa, e d’élite – che fosse degna del livello dei suoi vini – e proprio per questo, non ha badato a spese, ma sopratutto ha lasciato ad Alberto la cosiddetta “carta bianca”. Arricchendo le proposte architettoniche esterne, e interne, con dettagli come il tavolo in Kauri della Nuova Zelanda di 48.000 anni in cui scoprire e vivere con luci, le vene di resina o quella scala rossa fuori dalla struttura, che si lascia ammirare anche di notte.

E Alberto, accolta la sfida di gestire, per la sua prima volta, in toto, il ristorante, dopo esperienze al Teatro alla Scala e al Marchesino di Gualtiero Marchesi, dove inizia, e ancora da Joia di Pietro Leemann, Hishinuma, 2 stelle a Tokyo, ad Asola da Matteo Torretta e poi in stage da Geranium a Copenaghen, in Alta Badia da Norbert Niederkofler e infine da Alain Ducasse, fa sue le esperienze per crederci e restituire, col sorriso, “momenti temporali”.

La dimensione sovranazionale di Cucine Nervi

Un’intesa sempre ricercata con la stagione e con una sua voglia di uscire fuori dai canoni pregressi, figli del suo curriculum, che c’è, eccome. E si conferma, con grande umiltà, strizzando l’occhiolino a un futuro che deve vedere una creazione ancora più compita. Un’evoluzione che, prima di essere tale, necessita della creazione di un target disposto ad accogliere un menù sì tradizionale, ma certamente ispirato, come per magia, a una cucina per così dire “internazionale” o sovranazionale, figlia di esperienze rinate, cresciute, adattate alle stagioni e alle materie prime. Il ristorante, aperto da un mese circa, ha già visto cambiare il menu tre volte.

La danza dello chef, la cui postazione è precisamente in mezzo al grande tavolo a L con quindici sedute, è la conferma di una vita interamente, totalmente dedicata alla cucina, fatta di ordine e architettura ma non per questo priva di sogni. La magia dell’alba e del tramonto, stanno ai piatti in e fuori dei menù: ”Scoprici, Conoscici o Affidati”. La fiducia è infatti una di quelle cose più ricercate a Cucine Nervi, i fornitori di verdure e spezie viaggiano assieme ad Alberto e il suo team. C’è consapevolezza e una solidità emanate che parrebbero far trapelare una rigidità interiore ed intellettuale poi smorzata da un arredo minimal, orientale. Che si palesa nel corredo dei piatti affiancato poi da una rigorosa e variegata scelta di coltelli di servizio per carni e pesci. Insomma, nulla è lasciato al caso così la scelta anche degli abbinamenti nei vini durante il percorso in cui si pesca dalla proposta di Casa, i vini di Conterno, o da proposte del Piemonte a cui è riservata quasi la metà della selezione di produttori, tra Langhe e Alto Piemonte, ma anche Germania Francia, con Riesling e qualche accattivante Pinot Nero.

Alberto Quadrio: un‘individualità forte e inclusiva

In ogni piatto si sente, un poco, una sorta di bisogno di protezione, con un accompagnamento verso a quella che è – a tratti – un’acidità “aggiunta”, quasi per paura che il commensale non arrivi alla fine del percorso. Si tratta di un timore legittimo, comprensibile soprattutto in estate, quando l’acidità serve per veicolare freschezza. Ma tutto questo acquisirà un’altra piega col primo cambio di stagione quando, ne siamo certi, i gusti si faranno ancora più forti. Una cucina sincera, elegante, piacevole, immediata. Che inizia con un omaggio, un fiore romantico e leggermente piccante col pepe rosa. Poi affiancato subito da un antipasto, un cono – la pasta è sottilissima  – con piselli, una sfera con insalata russa – poco percepita quest’ultima –  e una crespella con storione e oliva. Sapori intensi, ficcanti. Voci – ingredienti – non lontane, perché ritornano nei piatti dei vari menù.

Ma si intermezza e si apre lo stomaco con un Torino – Milano o un Campari in versione Spritz prima di “rompere il ghiaccio” con un’acqua di pomodoro, menta e limone aggiunta a un carpaccio di ciliegie e pomodoro con cetriolo, che molto ricorda la rivisitazione del gazpacho alle ciliegie dei fratelli Roca. Un coro d’acque che salta, con sapore. E balla, prima di aprire il sipario sui piatti. Non mancano intervalli che ammiccano alla mixology o infusi di erbe. 

Ci sono piatti, come la tartella estiva, che fanno comprendere meglio la mente e lo spirito di Quadrio. Che vuole farsi scoprire nel tempo, ed ecco il gioco con i piatti “multipiano”: un apparire, per spalancarsi, scioccare, e far capire, in un gioco di assaggi della sua cucina come una “ragione del gusto”. Le presentazioni dei piatti – sui secondi è netta l’ispirazione francese – ci piace pensare, siano uno specchio dell’anima di Alberto e del suo team, che crea o completa le sue idee. Un cuoco che non crede infatti troppo nelle gerarchie, ogni membro del team è compartecipe nella preparazione e rifinitura delle portate. Nel personale, il braccio destro, e sinistro, è Stefano mentre Beatrice, pastry chef con esperienze a Barcellona e Londra, è la protagonista dei dolci in cui non mancano mai frutta e verdure. A dirigere la sala, poi, c’è l’amico e sorridente Alberto Tommasi. 

Ma ritorniamo alla tartella: se la prima parte era una sottilissima confezione di agrumi ed erbe, in una sfoglia trasparente al pomodoro, con la parte nascosta, c’è l’Italia e la sua “idea di  bruschetta”. La polvere di oliva taggiasca essiccata e il pomodoro, il tutto su una mousse, restituiscono un’intensità premiante con la foglia di basilico lì presente, non a caso. 

Con il gambero e melone e la testa del gambero di Sanremo si intuisce la voglia di giocare con le temperature, per solleticare costantemente il palato. Grande l’acidità, come il gusto oleoso e impattante della materia prima. Un tuffo nel mare dopo un incipit di dolcezza. Scema il dolce e resta il sale. Un po’ di Piemonte arriva con il riso e l’idea di bagna caoda, palline gelate di verdure si sciolgono per fondersi con la pasta di acciughe. Non c’è aglio. L’amido accompagna e contrasta.

Si torna dunque al freddo con le Linguine, vongole e porro bruciato, piatto che emana il suo profumo e la sua intensità come atterra a fianco le posate. Esplode a distanza, così fresco che resta leggero e invoglia sempre una seconda forchettata. L’emulsione ha delicatezza e astringenza, il porro pizzica lievemente per lasciare spazio, sullo spartito, al suono del mare e quindi alla vongola, poi seguita da uno storione con caviale che diventa un’opera d’arte ispirata a Jackson Pollock e che resta compatto, solido, fino a quasi farsi dimenticare come pesce, per diventare carne. Il caviale fa il suo, assieme alla pesca. L’abbinamento a un vino rosso di Provenza è più che azzeccato. 

Attendiamo la fine dell’estate per vedere consistenze e sapori d’ispirazione più francese, o italiana, assaporate nell’idea di pasta al ragù o nel riso, aglio orsino e lumache, che tanto ricorda l’orto di lumache di Norbert Niederkofler e che rappresentano i due piatti più iconici per occhi, cuore e gola, e che sicuramente – almeno ci auguriamo – avranno modo di spalleggiarsi a offerte d’ispirazione più nipponica.

Il dolce lo si consuma a casa; per non appesantire l’ospite, Cucine Nervi ha pensato di lasciare in una confezione una piccola pasticceria, un goloso cake con albicocche candite, cioccolato e nocciole.

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Dall’osteria alle stelle (Michelin)

Quanto tempo ci vuole per comprendere una cucina? Quante volte bisogna tornare in un ristorante, prima di inserirlo tra i “favoriti”? Beh, quando i piatti racchiudono la storia e i gusti delle migliori materie prime, selezionate da amici, prima ancora che da fornitori, si entra dentro una stanza annebbiata da un incenso che crea due effetti: riportarti indietro nel tempo – accade a chi i gusti tipici, quelli veri, li conosce – o inebriarti, sino a spingerti a viverne il “momento zero”, quello della scoperta. In entrambi i casi si deve aspettare una pacca sulla spalla di Piercarlo Ferrero, patron del ristorante San Marco e noto trifulau piemontese, prima di esser riportati al mondo, ovvero in sala.

Il San Marco di Canelli, culla del vino Moscato, nel 1969 è osteria, diventerà ristorante dopo l’incontro tra Piercarlo, appena ventiduenne, e la diciottenne Mariuccia Roggero. Che si appassiona alla cucina, la studierà, sviluppando i gusti delle materie prime piemontesi che scoprirà giorno dopo giorno. Così facendo inventa nuove ricette e gusti che ammalieranno anche Gualtiero Marchesi di cui ne ricorda ancora oggi insegnamenti e consigli. 

Nel 1989 arriva l’ottenimento della prima Stella Michelin, un riconoscimento che accende i riflettori sulla coppia che diventa così una tappa indiscussa per i turisti stranieri, e non, che da lontano sognano la battuta, i cardi di Nizza, la fonduta, i plin, il bollito, la bagna cauda. Piatti, tutti, che nella stagione autunno – inverno sono innevati da una tempesta di tartufo.

Divisionismo (storico) gustativo

Per intenderci: trent’anni fa il cannellone ripieno di baccalà o il cardo proposto come tartare assieme all’uovo poché erano “innovazione”.

Michelin assegnava l’ambito riconoscimento valutando parametri che, nel tempo, sono mutati. Forse. Fatto sta che, arrivati a quella cucina poi definita  “contemporanea” è subentrata (anche) la ricerca, sia in termini di cotture che di materie prime. Il San Marco non si è mai allontanato dalle sue origini – è rimasto un ristorante classico – continuando a proporre i piatti che lo hanno reso celebre per trent’anni, quelli consecutivi di stella Michelin, affiancando a poco a poco nuove proposte che comunque non lo hanno mai reso catalogabile come “ristorante con cucina moderna”. La spaccatura in termini di percezione è piuttosto netta ma, alla base, ci deve comunque essere la qualità, in termini di sapori e cotture, al netto della creatività. 

Ordunque il San Marco è un ristorante che è riuscito a creare una propria e solida identità, e che non lascia dubbi circa la qualità. È rovente la passione che coinvolge tutti, dagli addetti in sala alla cucina, quando si presentano i piatti simbolici che definiamo come “per sempre in carta” ossia gli agnolotti “plin” al tovagliolo, cremosi e gustosi in cui la sottile velina di pasta raccoglie la carne magnificamente accompagnata dal brodo; ma anche i mitici tajarin ai 40 tuorli che si palesano come fili lunghissimi, disomogenei tra loro e per questo ancora più divertenti, da scoprire in un gusto che appare come una nuvola, il cui sapore rimane come sospeso. Indimenticabile: ecco il valore della ricetta.

La stessa sensazione arriva con il bollito misto di bue grasso accompagnato da verdure e bagnetti della tradizione in cui la carne non solo è come un mantello di sapori, ma è anche un esempio per chi consuma con una sola mano: la carne si sfalda, come il burro. E cosa dire dell’assaggio fatto di finanziera nobile astigiana? Delicata, pura, e fin leggera grazie a quella goccia di Marsala aggiunta, che regala una sorta di accelerazione acetica.  La conferma della luce tradizionale arriva con la bagna cauda piemontese, saporita e un poco troppo oleosa, ma certo emozionante e ossequiosa nei confronti della tradizione.

Ciò detto, lo scorso anno il ristorante ha perso la stella. Dal canto nostro, ci limitiamo a qualche piccola esortazione: puntare più sui piatti tipici, impreziosire la carta dei vini e inserire, pacatamente e senza troppe misture, nuovi piatti, così che, dopo il gelo causato dalla pandemia, sul ristorante possa tornare a splendere il sole e, chissà, anche la luce di una nuova stella.

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Ecco una nuova rubrica dedicata alle influenze, ovvero a quegli chef la cui ispirazione e identità contemporanea è stata determinata da un singolo individuo il quale, con la forza e la sistematicità del suo pensiero, ha fatto “scuola”, indicando a molti la traiettoria. Date queste premesse, non potevamo dunque esimerci dal dedicare il primo articolo di questo ciclo a Gualtiero Marchesi, ma con un’avvertenza: “Marchesiani si nasce”, appunto, nel senso che non bastano un singolo piatto o un pugno di citazioni per esser considerati tali (per questo abbiamo creato un’apposita appendice, quella relativa agli “omaggi”, in calce). Serve, piuttosto, un registro stilistico da lui forgiato e a lui ispirato; un impianto culinario che sia qualcosa di più che un tributo, per quanto indefesso. Serve, insomma, aver assimilato così profondamente la sua lezione da rifrangerla fedelmente attraverso il prisma della propria identità. E scusate se è poco.

Paolo Lopriore, il Canto, Siena

Forse più di tutti Paolo Lopriore ha incarnato il mito del cuoco contemporaneo. Metamorfico, controverso, cerebrale, viscerale, nonché marchesiano di primissima generazione, di cui era considerato l’allievo prediletto. Come tale, Lopriore ha iniziato presto a indagare la lezione del Maestro fino a metterla radicalmente in discussione pur mantenendone il profondo estetismo. Come faceva negli splendidi spazi della Certosa di Maggiano presso Il Canto di Siena dove, fino al 2013, andava in scena una cucina che, attraverso la lezione del Maestro, isolava, indagava, sviscerava e talvolta esasperava leitmotiv che erano solo suoi, come l’amaro, le consistenze – sempre di confine – e le violente acidità. Una cucina che sopravvive nei ricordi di tutti coloro che l’hanno esperita, e che ha fatto di lui il cuoco più intellettuale di sempre.

Giugno 2013

Le lasagne verdi al piatto, omaggio dichiarato a Marchesi nonché congedo dal cuoco di Appiano Gentile dalla cucina fine dininig.

Carlo Cracco

Curriculum inappuntabile, da cui occhieggia tanta scuola classica francese (Alain Ducasse e Alain Senderens) e fino a Gualtiero Marchesi, con cui è stato sia da giovanissimo, a Milano, che successivamente all’Albereta, in Franciacorta. E benché la consacrazione arrivi con le tre stelle conquistate al timone dell’Enoteca Pinchiorri, a Firenze, in Carlo Cracco alberga tutta la milanesità – quella fatta di internazionalismo, minimalismo e identificazione con l’arte contemporanea – che permea tutta la scuola marchesiana. Una cucina fatta di ingredienti feticcio, come l’uovo, di tecnica, la stessa che non di rado si presta a stravolgere i piatti della tradizione – sua la  pasta all’uovo senza farina – e, ultimo ma non ultimo, di una radicalità nella definizione del gusto espressa attraverso ingredienti difficili quali le animelle, il caffè, i capperi e i ricci di mare, solo per citarne alcuni.

Andrea Berton 

Ha trovato la maturità cercandola semplicemente in se stesso Andrea Berton che, oggi, appare quanto mai maturo e pacificato, anche nell’imprinting. Da lui, come da Cracco, è passata un’intera generazioni di cuochi che oggi sono considerati sì marchesiani, ma di seconda generazione. Suo, invece, uno stile fatto di padronanza tecnica, una ricerca espressiva completamente vocata alla pulizia nonché una precisione millimetrica nell’assemblaggio degli ingredienti e conseguenti combinazioni di sapore. In  poche parole, nel perfezionismo innato dello chef sommato a qualche indovinata contaminazione. Suo il feticcio di un intero menù dedicato alle suggestioni del brodo, che s’è dimostrato fecondo sin dal 2017.

Silvio Salmoiraghi, febbraio 2020

Da Gualtiero Marchesi Silvio Salmoiraghi ha attinto l’arte, e la disciplina, della riattualizzazione, e conseguente valorizzazione dei grandi classici della cucina italiana. I primi vagiti di quel movimento, chiamato Nuova Cucina Italiana han preso forma proprio con lui. Uno stile che ha influenzato i canoni estetici molto più di quanto si creda, e che si ritrova in tutte le evoluzioni dei suoi menu degustazione (in ordine cronologico nel 2013, nel 2015, nel 2016, nel 2018 e nel 2020) cadenzati secondo un ritmo affine a quello del kaiseki, ovvero secondo quell’orientalismo filo-nipponico che tanto fu caro al suo Maestro. Quel che ne sortisce, in anni di rifiniture e perfezionamenti, è l’espressione di un talento puro, autorevole e definito, nonché il palato assoluto di un direttore d’orchestra, che non fa che perfezionare la stessa pièce: un compositore di spartiti con un pentagramma palatale che fa arrivare e percepire ogni singola nota in modo chiaro e distinto. Qui, oltre all’omaggio dello spaghetto freddo si ritrova anche il topos del carpione.

Riccardo Camanini

Ciò che non si dice mai abbastanza di questo grandissimo talento nostrano è quanta tecnica ci sia nella sua mano. Non una tecnica di laboratorio, ma una tecnica artigiana “fatta di pentole, forni e griglie e, soprattutto, di una conoscenza profondissima della materia in tutte le sue sfaccettature, coerentemente con la lezione marchesiana”. Al bando sifoni o sottovuoto. La modernità viene qui concepita in altre forme – simili a quelle di Lopriore – che non a caso si magnificano nella ricorrenza dell’amaro, come nella potente componente estetica di ciascun piatto. Un’estetica raffinata e mai sofisticata, figlia di una cultura vera e profonda, la stessa che è servita a Camanini ad affinarsi fino a lambire, con naturalezza e senza forzature, il confine stesso con l’arte. Di Marchesi ritroviamo poi anche i continui rimandi alla grande tradizione italiana, introiettati così profondamente da rifrangerli in chiave personalissima e sempre di grande attualità. Infine, un dettaglio: che tutto abbia un senso nel suo impianto era un sospetto che avevamo già da tempo: lo troviamo puntualmente confermato nelle porcellane – qui nella linea intitolata, non a caso, Oriente Italiano – di Richard Ginori, che già fu cara e ricorrente anche nelle sale calcate da Marchesi.

Enrico Crippa

Il “marchesismo” – passateci il neologismo – di questo grandissimo chef consiste in una combinazione precisa: da un lato il fraseggio arioso degli elementi vegetali e floreali (questi ultimi reali o anche solo disegnati), dall’altra il rigore stilistico: una tensione verso l’essenzialità che da un lato lo porta a giustapporre anche decine di ingredienti nello stesso piatto, dall’altra si manifesta invece come un raffinatissimo lavoro di lima su una materia bruta: un approccio quasi scultoreo alla materia, di michelangiolesca memoria. Tra l’altro questa posizione, che è estetica prima di tutto, parla del gusto marcatamente orientale che Crippa si porta dentro sin dalla sua fondamentale esperienza in Giappone e che, ancora una volta, già fu di Gualtiero Marchesi.

Davide Oldani 

Marchesiano di formazione e di indole, Davide Oldani del Maestro incarna la propensione a lasciare lindo l’ingrediente: a tenersi aperte tutte le strade di manipolazione della materia, memore del fatto che “l’esempio è la più alta forma di insegnamento” diceva Marchesi, e “solo quando sai fare un esempio – sostiene Oldani – sei uno chef”. E lui è uno chef contemporaneo ancora perfettamente sospeso tra il “classique” e il “pas classique”: una tensione tra due poli tanto feconda da aver determinato, in lui, la capacità di ordire una cucina nuova, pop nel vero senso del termine: e pertanto funzionale, come il design che, non a caso, si ritrova in ogni dettaglio del suo ristorante di Cornaredo.

Ilario Vinciguerra

Sua è la paternità di quella che è stata unanimemente definita come una delle più interessanti cucine del sud Italia, benché oggi eserciti in quel di Gallarate, in provincia di Varese. Una cucina “col sole dentro“, per dirla con un eufemismo: leggera, fondata su alcuni prodotti simbolo della mediterraneità, a cominciare dall’olio extravergine d’oliva, che lo chef utilizza sempre anche per mantecare i risotti, fino al pomodoro, passando per le grandi paste artigianali dello Stivale.  Non si tratta solo di un esercizio di stile, come pure potrebbe sembrare: perché in Ilario Vinciguerra alberga pensiero, tecnica ed estetica: quella di soluzioni cromatiche mai scontate che gli permettono di ordire piatti che sono sì molto belli e, dunque, anche molto buoni, secondo la regola aurea di marchesiana memoria.

Pietro Leemann, coming soon

La sua cucina è fatta di scelte rigorose, quasi monastiche nell’approccio alla materie prima, cui viene rivolta un’attenzione maniacale, imposta dall’etica. Recentemente riconosciuta, peraltro, perché insignita della stella verde Michelin, e non poteva essere diversamente essendo lo chef da molti anni uno dei riferimenti, in Italia e non solo, dei valori di ecologia e di sostenibilità in cucina. Oltre all’etica, tuttavia, c’è l’estetica, perché Pietro Leemann non smette di concepite piatti che sono pure architetture ludiche, caleidoscopi di cromie, consistenze e gusti perfettamente puliti e definiti ancorché precisamente interrelati. Ebbene, ci piace pensare che larga parte di questa prolifica linfa green che sembra abitare senza cedimenti la creatività dello chef di Locarno naturalizzato a Milano, gli provenga proprio dagli insegnamenti mutuati dal suo  Maestro.

Omaggi

Gli spaghetti freddi alle vongole e prezzemolo di Giancarlo Perbellini

Uno dei piatti più riusciti dell’intero menu. Un colpo ben assestato, quello degli spaghetti freddi alle vongole e prezzemolo, in cui l’omaggio al maestro Marchesi diventa per il suo fautore il pretesto per esprimere personalità e tecnica, nonché, anche in questo caso, profondità di gusto.

Leonardo Marongiu

Proviene dalla Scuola Superiore Alma di Colorno, dove ricopre ruoli importanti per quasi 6 anni. Decide quindi di abbandonare il ruolo accademico per riprendere quello fattivo della cucina, e lo fa ambientando la sua idea di cucina regionale italiana in terra sarda. Influenze fusion e riferimenti marchesiani si ritrovano soprattutto nella scelta di servire freddi gli spaghetti: uno dei temi ricorrenti di Gualtiero Marchesi. 

Enrico Bartolini, settembre 2020

Con la sua fidata squadra lo chef più stellato d’Italia ha ripreso da dove aveva lasciato. Tra estetica, gusto e una materia prima rigorosamente nazionale, con l’intento di valorizzare sempre di più i meravigliosi prodotti italiani. Il tutto all’insegna della perfezione. A cominciare dall’introduzione al nuovo menu degustazione, che si tributa al “dio” della cucina italiana: ancora una volta, Gualtiero Marchesi.

Enrico Bartolini, maggio 2016

Accadeva cinque anni orsono, e si trattava di sorta di sfida bonaria al sommo Marchesi secondo il quale, all’epoca, anche nelle grandi tavole d’Italia i risotti avrebbero avuto tutti solo sapore di formaggio e un’eccessiva acidità. Ed è proprio partendo da questo concetto che Bartolini trova l’espediente: alla base del piatto c’è un arcobaleno di sapori sul quale viene, solo in un secondo momento, adagiato un “semplicissimo” risotto alla parmigiana, perfettamente bilanciato nel trittico parmigiano-burro-limone. L’esito, però, è sorprendente: un equilibrio di sapori e richiami all’India, all’Asia, alla Provenza e all’Italia, ça va sans dire.

Il casoncello crudo ma cotto di Alberto Gipponi 

Rimanda nella forma alla pasta ripiena tipica del bresciano, per racchiudere un ripieno di molluschi, pesce e zenzero di raccordo all’iconico raviolo aperto. In un boccone tutta la grande cucina di Gualtiero Marchesi, pulita e lineare, in alternanza alla memoria gustativa infantile della pasta cruda, appena fatta e rubata dalla spianatoia. Il riferimento, stavolta, è rivolto a un altro grande della cucina contemporanea, Massimo Bottura.

Il risotto argento e gó di Luca Tartaglia

Nell’epoca bistronomica per eccellenza, Zanze XVI è un’insegna dove la cucina della Serenissima ritorna a nuovo splendore con Luca Tartaglia. Sul desco dell’avventore si susseguono gli attori, tra cui questo Risotto foglia d’argento e gó che impreziosisce l’ostico pesce di laguna con la lunare foglia d’argento, dichiaratissimo omaggio all’aureo riso, oro e zafferano di marchesiana memoria.

Un pezzo di storia della cucina ligure di Ponente

Paolo Masieri e Barbara Pisani, più semplicemente Paolo e Barbara, sono una delle coppie d’oro della ristorazione italiana. Il loro ristorante, una bomboniera con una ventina di coperti in tutto, ha una storia ormai trentennale e per molti anni è stato considerato, e a ragione, il migliore dell’intera Liguria, nonché una delle migliori cucine di mare d’Italia.

Barbara è una eccellente padrona di casa con il dono innato di far sentire tutti gli ospiti a proprio agio, in questo aiutata da una location intima e accogliente come poche. Sommelier molto capace – la carta dei vini è ricca di spunti di interesse soprattutto sul versante delle etichette naturali – è stata anche allieva di Iginio Massari, e difatti tocca a lei la linea dei dolci. Paolo Masieri, cuoco contadino, come ama definirsi, al rientro da brevi stage da Gualtiero Marchesi e, in Francia, da Bernard Loiseau e Georges Blanc, ancora giovanissimo, fu presto notato e apprezzato dalla critica che non tardò a gratificarlo con importanti riconoscimenti per una cucina che vuole e sa essere diretta, semplice ed essenziale: una cucina in prevalenza di mare e di orto.

Più gourmand che gourmet

Il mare è quello dell’amata Liguria del cui pesce Paolo – che ricordiamo come uno dei pionieri italiani del crudo di pesce – è un riconosciuto esperto. L’orto sono le due aziende agricole a cui si appoggiano: una nella vicina Val Nervia, l’altra a Ospedaletti. Il locale è da sempre “a conduzione familiare” tanto che in cucina lo chef è coadiuvato solo dal figlio Stefano. E resta quella di sempre, incurante del trascorrere del tempo da un lato, ma non scevra dal sentire un po’ il peso degli anni, a cui gioverebbe la ricerca di maggiori contrasti, nonché un aggiornamento delle tecniche per regalare qualche novità o, almeno, qualche emozione in più. Invece, tutto sembra muoversi su binari estremamente scolastici, privi di quel quid in più capace di scacciare la noia e trasformare una sosta semplicemente buona (perché buona, comunque, lo è, sia chiaro) in un’esperienza da ricordare.

Dopo due focaccine – onestamente un po’ tristi – si inizia bene con un tonnetto affumicato maison gustativamente molto centrato, a cui giova l’accompagnamento con l’acidità della prescinsêua. In altre preparazioni, però, abbiamo rilevato qualche disattenzione o difetto di esecuzione, come nel risotto, un po’ in là di cottura e con una nota di limone troppo forte che finisce per penalizzare gli altri (peraltro non pochi) ingredienti, o la tendenza a una spiccata “rusticità” come nel caso degli agnolotti e delle lumache in sfoglia che finisce col prevalere nettamente sulla finezza e sull’eleganza necessarie a certi livelli.

Paolo e Barbara è sicuramente un ristorante storico e, come tale, resta affidabile e concreto. A nostro giudizio, però, necessiterebbe di un cambio di marcia, una rigenerazione dall’interno che possa permettergli di restare al passo con i tempi e, nel tempo, continuare a tenere alto il vessillo della grande ristorazione italiana di mare.

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Sinfonia italiana dei sapori

In un locale, all’interno di una corte, con interni retrò, si vive una esperienza gustativa di livello decisamente elevato. Un cuoco, Silvio Salmoiraghi, che si può assolutamente considerare uno degli allievi più bravi di Gualtiero Marchesi, lavora sulla attualizzazione e valorizzazione dei classici della cucina italiana. La dichiarazione che si legge all’interno del menù di Acquerello è che, nell’ottica di una visione nuova della cucina italiana, si cerca di sviluppare nelle degustazioni una cucina in stile kaiseki, rispettando la tradizione e la grande materia prima del nostro paese. Salmoiraghi ha un talento puro, cristallino, è un direttore d’orchestra, un compositore di spartiti con un pentagramma palatale che fa arrivare e percepire ogni singola nota in modo chiaro e distinto. Gioca con grande maestria ed equilibrio con tutte le tonalità: dolce, salato, acido, amaro. In molti piatti si chiede espressamente di non mescolare gli ingredienti proprio per farli percepire nella loro forza, prima singola poi sinergica.

Acquerello: un viaggio nella cucina italiana

Nel suo menù degustazione si susseguono piatti classici ovviamente reinterpretati con una nuova concezione, rispettando sempre i diversi ingredienti “storici”. Si dichiara espressamente che nella sua cucina non viene utilizzato nessun elemento chimico e nessuna cottura sottovuoto. Si inizia l’esperienza con un uovo che al suo interno sorprende per il susseguirsi di diverse temperature e di sapori. L’attualizzazione dello storione alla ferrarese gioca perfettamente fra i vari registri alternando dolcezza, sapidità e amaro grazie alla presenza dell’oliva al naturale, il caviale e il sedano rapa. Si fa un viaggio strepitoso in Italia con la capasanta di Venezia, cotta al vapore con acqua alla menta e ricoperta di polvere di felce, accompagnata da yogurt valdostano, cavolo nero, bergamotto, cozza pelosa pugliese in salsa di acqua dolce. I ravioli in scapece hanno diversi ripieni: scarola, oliva, pomodoro, mozzarella, anguilla, con salsa doppia panna, cerfoglio e erba cipollina e ti sorprendono ad ogni assaggio. Il tenerissimo cuore di collo di fassona crudo con carciofo alla mugnaia è servito con due salse eccellenti, una al burro e limone e l’altra con il sugo d’arrosto e cipolla bruciata. Il colombaccio con una deliziosa salsa al cibreo, fatta con le rigaglie e il sangue  è voluttuoso, così come il raviolo ripieno della coscia in brodo è delizioso.

Il pre dessert salato, il carpione di mare è un suo classico ancora attuale ed esemplificativo di quanto riesca ad equilibrare “con forza” l’acidità dei due aceti con la dolcezza del gambero crudo e il fritto dei calamaretti spillo. Al momento è prevista solo la possibilità di avere un unico menù degustazione ma, in controtendenza, sembra che voglia passare ad un menù solo alla carta, staremo a vedere.

Ebbene, nonostante il reiterarsi nel corso degli anni di piatti costruiti con stili e concetti anche molto simili tra loro, degustare la cucina di Silvio Salmoiraghi significa avere a che fare con una forte personalità e, pertanto, con quel quid che la rende sempre sorprendente, sempre speciale; sempre memorabile.

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