Animale feticcio dell’haute cuisine, il piccione rappresenta uno dei piatti più codificati dell’alta cucina, che vi si è cimentata con tanta dovizia quanta riverenza.
Una tartare dal sapore dolce, agreste e completamente puro anche nella consistenza, gelatinosa, delle carni. A sovrastarle, un’adesiva nota di sottobosco e antichi, ctoni fumi: quelli del tartufo nero. Un boccone enigmatico ed emblematico, come del resto ci si aspetta dall’illusionista della cucina contemporanea.
Servito a una temperatura consona alla stagione, prettamente estiva, questo insolito consommé di qualche lustro passato cela un piacevole profumo di anice e un elegante piccione marinato alla base. Delicato e incisivo.
C’è tutto un capitolo della letteratura culinaria contemporanea che vede il piccione fregiarsi di insoliti ancorché non impossibili abbinamenti con la materia ittica: in questo caso la cottura bbq lo accomuna col fegato della rana pescatrice. Nel piatto, però, campeggiano anche i limoni di mare in una progressione di sapidità, dolcezza e acidità.
Un altro tentativo, non del tutto coronato, di legare alla carne del piccione quella dell’astice, simile solo per via di una certa tenace consistenza e di una dolcezza che, tuttavia, qui resta agli antipodi: ematico/selvatica quella del piccione, ittica quella dell’astice.
Il petto è scaloppato con cottura saignant; la coscetta è fritta, accompagnata da pane alle noci e spinaci saltati: un trionfo in termini di padronanza tecnica e gustativa, dietro al pass di questa solo apparentemente semplice trattoria contemporanea.
Strabiliante anche in questo caso la compiutezza, la non perfettibilità di ogni boccone. Leggerezza e lievità sorprendenti, inspiegabili se paragonati alla potenza e alla concentrazione di ciascun sapore, quello della carne e quello del pistacchio.
Finezza, centralità e la consueta intensità di sapori caratterizzano anche la versione di Marcello Trentini che lo abbina, il piccione, alla eco indiana della salsa tandoori ottenuta da uno yogurt bianco combinato con un mix di spezie mediorientali.
Un piccione dalla cottura millimetrica, quasi calvinista: spoglio e spogliato nell’aspetto ma tronfio nelle carni, vibranti di gusto e succo, alla cui innata dolcezza fa da contrappunto una splendida salsa al tamarindo. Ascetico senza contorno: nient’altro che se stesso.
Cotto alla perfezione, servito in due tempi, prima petto e filetto, poi, una deliziosa coscia farcita. Una sorpresa la cucina intensamente italiana ma popolata di riferimenti cosmopoliti di Filippo Cammarata.
Col piccione ci si può anche concedere il lusso d’esser didascalici e didattici. Ciò premesso sia messo agli atti che non vi sono poi molti, in circolazione, di piccioni magistrali. Questo taglio di petto, coi carciofi, è di Matteo Metullio che, col piccione, realizzava anche una antologica finanziera.
Una esecuzione magistrale, evoluzione stessa, la sua, del concetto di signature dish perché, una volta realizzato, è questo a segnare in tutto e per tutto il suo fautore. E benché Gorini sia anche altro, questo piccione dalla cottura millimetrica – realizzata con una griglia romagnola – è indimenticabile in combinazione col solenne estratto dell’alloro.
Una versione paradigmatica dell’anima più intima dello chef, la cui attenzione è da sempre catalizzata verso il mondo delle erbe e dei rispettivi risvolti gusto-olfattivi: l’esito, in questo caso, è un piccione al gin tonic!
Una cucina che esplora tutte le gradazioni dell’umami, che difatti compare, benché in gradienti differenti, anche in questo eccellente piccione, accompagnato da un’efficace e rinfrescante variazione di susine.
Un piccione stupendo, che rima per carnosità con la melanzana bruciata e il cui sapore, dolce, viene esaltato da una salsa che restituisce al piatto grande complessità. È questa, del resto, la cifra stilistica di Moreno Cedroni: una cucina mai seduta ma sempre esigente, in primo luogo con se stessa.
Un piatto antologico, nonché un ingrediente feticcio per questa fucina, summa di tre individualità tanto forti quanto solide, ciascuna col proprio gusto e il proprio impianto. Come vedremo, oltre che nella versione sottostante, il piccione comparirà al Giglio anche sotto forma di una splendida tourte al foie gras.
Un piccione strepitoso, nonché un’eccezione, perché una delle poche concessioni non a km 0. Il motivo è presto spiegato: il piccione di Niederkofler è l’esatta trasposizione della cucina finissima, personale, classica e contemporanea allo stesso tempo di questo imponente chef altoatesino.
Davide Oldani ha raggiunto un livello di consapevolezza, e autorevolezza, tale da affrancarlo da qualunque scorciatoia, anche quella del colore che, nei suoi piatti, non è mai squillante ma sempre sobrio e finanche scuro, ombroso. Un piccione al nero dove, in questo caso, il colore è quello del tartufo.
Il piccione di Massimo Greppi con sambuco e funghi, anche in brodo: la base è il brodo di piccione con aggiunta di funghi e fiore regina dei prati, bacche di sambuco sottaceto e spinacio selvatico anche detto buon enrico. Di seguito il primo e il secondo servizio di quella che è stata una stella cometa della ristorazione italiana contemporanea.
Anche in questo caso un esercizio di stile, in tre servizi, per l’imperioso piccione di Davide Caranchini che si lascia apprezzare con avida golosità dal petto in crosta di sale al raviolo farcito di interiora, passando per i succulenti, speziati coscia e petto marinati.
All’interno di un ristorante dal sangue blu va in scena una cucina altrettanto elitaria, che oltre ai riferimenti classici sciorina anche una certa dose di audacia utilizzando superalcolici come mezcal e, altrove, gin, come veicolo aromatico del bel piccione di Belfiore.
Un piatto imperioso, composito, esigente nei confronti del suo lettore, cui starà di riconoscere, ed esperire, il livello di classicità internazionale impreziosito da piccoli sprazzi d’italianità raggiunto da questo grande chef contemporaneo.
Marsala e carote caramellate: un piatto dove emerge tutta la finezza e l’opulenza, assolutamente barocca, della cucina di Ciccio Sultano e una salsa che urla “Sicilia” ma che, al contempo, accarezza il palato con la grazia di un foulard di seta.
Una splendida, decorativa versione, non scevra di una graffiante animalità, quella del piccione in civet, ovvero stufato nel vino rosso e nel sangue. Ciò dona una componente molto golosa, ancorché serica, e una colorazione rossastra a questa magnifica versione dei fratelli Roca.
Non siamo al cospetto di una cucina emozionale ma di una tecnica e, pertanto, di un classicismo autentico. Riconosciuti dunque i prodromi, francesi, non si potrà comunque restare indifferenti di fronte alla materia prima straordinaria e alla cottura “al laser” di questo piccione con mele cotogne, barbabietole al grano saraceno, nocciole e foie gras.
Un meraviglioso esemplare di piccione di Marie le Guen cotto intero e poi servito porzionato, ogni pezzo col suo abbinamento: un elaborato ingranaggio di sapori, un pot-pourri di contrasti architettati con perizia chirurgica e fatto di farro, Parmigiano Reggiano, salsa al sesamo, fragoline di bosco e cipolla.
Il suo secondo servizio Filippo Cammarata lo articola attorno a una superba royale di fegatini e fegato di piccione appena scottati assieme al suo cuore laccato al rosmarino. Frattaglie? Non proprio, perché c’è nobiltà e lirismo nel suo modo di trattare le interiora.
Ve lo avevamo già anticipato: la finanziera di piccione di Matteo Metullio de La Siriola è un piatto straordinario perché straordinariamente capace di revisionare la memoria della tradizione culinaria piemontese instaurando con essa un edificante e sempiterno dialogo.
Un pleonasmo, una ridondanza ma anche una squisitezza luculliana, presa e ripresa dal reparto della grande cucina classica francese: una stupenda tourte de pigeon fatta di interiora, foie gras, tartufo nero e l’immancabile salsa al vino rosso in infusione.
Una cucina che ha introiettato così tanti stimoli, tecniche, avanguardie e memorie, anche d’infanzia, da ritualizzare in maniera del tutto libera la cucina di corte del passato enfatizzandone anche, in questo caso, la libertà dal vincolo del dolce e del salato. Il riferimento? Quello alla cucina rinascimentale estense.
Questa recensione di Norbert integra ma non sostituisce la precedente del Guardiano del Faro , che ritroverete alla fine di questa, e ne conferma la valutazione complessiva.
Il Presidente
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Recensione ristorante.
Professor Cerutti.
E’ questo il titolo che mi è venuto in mente all’ennesima dimostrazione ai miei occhi di saggia maestria di questo provenzale chiamato a suo tempo da Ducasse ,con lungimiranza non da poco , a dirigere questa cucina ad “orologeria”.
Tutto gira infatti con una precisione tale che sembra essere in una bolla fuori dal tempo,e il tutto si accompagna ad una levità degna della grandissima professionalità presente a tutti i livelli : dal servizio veramente impeccabile, quasi un balletto dalla tempistica perfetta che si dispiega davanti ai propri occhi, alla cura del celeberrimo cadre che lascia trasparire da ogni particolare eleganza e bellezza ,ma, soprattutto, alla cucina dove ogni cosa è come deve essere, nè più, nè meno, con il risultato che con le pietanze che arrivano dalla brigata Cerutti ci si può registrare il palato.