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Seta

Antonio Guida, il perfetto Couturier Gastronomico

Seta è il famoso ristorante fine dining all’interno del Mandarin Hotel, a due passi dal Teatro alla Scala di Milano. Locale di grande eleganza e accoglienza, nel quale Antonio Guida coordina un team super affiatato di professionisti, tra cui spicca Federico Dell’Omarino, executive sous-chef, che è il suo braccio destro da tempo immemore; ma ci sono anche Marco Pinna, pastry chef, cresciuto con l’altrettanto collaboratore storico Nicola Di Lena e a lui subentrato; Manuel Tempesta il giovane direttore di sala presente sin dall’apertura, che supervisiona con attenzione il servizio e garantisce i più alti standard di ospitalità, in linea con la filosofia dello Chef.

Guida, da perfetto couturier gastronomico, ha la bravura di permettere al commensale di seguire chiaramente la trama della sua proposta culinaria, assaporandone la complessità, ma, soprattutto, fa svelare al palato l’ordito, ciò che sta dentro e sotto la trama e che racchiude il potere magico di una fantastica storia di gusto. Spingendo sulle analogie con i tessuti, lo Chef ha la capacità di coniugare tre elementi: l’eleganza della seta (nella presentazione dei piatti), l’arte del ricamo (evidenziando con maestria molteplici dettagli) e il calore del cachemire (nei sapori confortevoli e avvolgenti).

La nobiltà della cacciagione

Come ogni anno, nel periodo autunno inverno, lo Chef dedica uno dei suoi tre percorsi degustazione alla cacciagione, lavorando in modo assolutamente originale germani, pernici, colombacci, cinghiali, caprioli, restando sul classico solo con la lepre (nella versione à la Royale), rendendo omaggio al loro sacrificio. Il tutto viene trattato con una grazia, una eleganza e una leggerezza di fondo, che non vanno per nulla a discapito della incisività del gusto, amplificato in una emissione multidimensionale. Abbiamo provato sia alcuni piatti del menù “Cacciagione” sia qualche portata del “Qui e ora” (il percorso che cambia con le diverse stagioni).

Il Colombaccio con alghe, seppia e funghi è un gioiellino iniziale, uno di quei piatti di cui si percepisce già al primo assaggio, il suo essere speciale; il Germano reale farcito con composta di uvetta e zucca ha una cottura perfetta, tenero, umido al punto giusto e straordinariamente goloso. Il Risone, una pasta considerata normalmente per uso in minestre o in brodo, è invece usata spesso dallo Chef (ricordiamo la fantastica versione con Salsa di cervella di astice, curry e fegatini di pollo) e torna in un piatto che è di fortissimo impatto immediato e svela, a ogni forchettata, i vari elementi che la arricchiscono: la parte amara delle cime di rapa, il profumo del tartufo nero, la ferrosità dei fegatini di pernice (la parte meno percepibile) e la sapidità e iodosità spiazzante dell’acciuga.

La parte dolce vola alto con giochi di acidità e di equilibri perfetti con alcune componenti vegetali come la barbabietola o il finocchietto. Concludiamo con una valutazione che riconosce un ulteriore passo avanti, rispetto ad un punteggio già elevato, che conferma Seta e la cucina di Antonio Guida come eccellenza, non solo nel panorama della ristorazione milanese.

IL MIGLIOR PIATTO: Colombaccio con alghe, seppia e funghi.

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Curiosità e folklore a proposito del feticcio elvetico: il formaggio

Quando si parla di Svizzera, l’immaginario collettivo impone immediatamente i verdi pascoli erbosi abitati da centinaia di mucche felici e l’ottimo formaggio “con i buchi” che si produce con il loro latte. Tutto vero, ma da quando ho iniziato a frequentare questo meraviglioso Paese, ho capito che la realtà supera di parecchio l’immaginazione.

Il culto del latticino tra mongolfiere e legge marziale

Il formaggio, in Svizzera, rappresenta una vera e propria religione. Il latticino non solo piace, ma è idolatrato. Basti pensare che gli svizzeri ogni anno ne mangiano oltre 20 kg a testa (la media europea si attesta attorno ai 17 kg pro-capite) e che l’amata fondue è il piatto festivo per antonomasia del periodo autunno-invernale, regina delle cene tra amici e del banchetto di Capodanno. Un tale successo quello della fondue, che dopo essere stata adottata pressoché in ogni cantone, ha visto svilupparsi in tempi recenti la tendenza del posto-più-strano in cui mangiarla, pranzi in mongolfiera e cene in scenografici igloo incluse.

 Gli elvetici sono talmente ossessionati dal formaggio che, se alle nostre latitudini è tutto un fiorire di sushi all-you-can-eat, qui di pari passo vanno i ristoranti che propongono raclette “a volontà”. Un piatto tanto amato che perfino al supermercato è possibile trovare una moltitudine di varietà di formaggi già tagliati e pronti per preparare questa prelibatezza a casa propria. Sì, perché per non incorrere nello stigma sociale, uno svizzero che si rispetti in casa deve avere due arnesi fondamentali: il caquelon per la fondue e il fornetto (nelle sue svariate forme) per la raclette. E sfoderarli almeno un paio di volte all’anno. Minimo.

Se non vi avessi ancora convinti dell’importanza che il formaggio ricopre all’interno di questo paese, pensate che negli anni ’90 la Nazionale Svizzera di sci alpino decise addirittura di farlo indossare ai propri atleti sotto forma di allegra tutina attillata.

Ma il mio dato folkloristico preferito ha origini ben più antiche, risalenti addirittura al XVI sec., quando tra i pastori nacque l’usanza di richiamare il bestiame attraverso un canto simile al celebre jodel, il “Ranz des vaches” (o “Kühreihen”, canto dei vaccai) tipico della regione della Gruyère. Ebbene, se già non fosse abbastanza l’invenzione del poetico e melodioso richiamo con cui le mucche, una per una, nome per nome, erano chiamate a tornare in stalla, a colpire è il fatto riportato da Jean Jacques Rousseau nel suo Dictionnaire de la musique del 1768: “[…] il famoso Rans-des-Vaches, quell’Aria tanto amata dagli Svizzeri che era proibito sotto pena di morte suonarla nelle loro truppe, perché quella faceva disertare o morire coloro che lo udivano” perché, riporta l’autore, suscitava in loro “l’ardente desiderio di rivedere la loro patria.”

Italia e Svizzera, un matrimonio che s’ha da fare

A tutelare e promuovere questo bendidìo, oggi articolato in più di 700 specialità casearie e una produzione globale di circa 210.000 tonnellate, è Formaggi dalla Svizzera, che con il recentissimo lancio della campagna “+ che Svizzeri” punta a dare ulteriore valore ai suoi prodotti d’eccellenza e a farli conoscere in giro per il mondo.

L’evento di apertura tenutosi lo scorso 13 marzo a Milano, ha visto assegnare i sei più famosi formaggi svizzeri – Emmentaler DOP, Le Gruyère DOP, Appenzeller, Tête de Moine DOP, Raclette Suisse e Sbrinz DOP – ad altrettanti grandi nomi della cucina italiana – Niko Romito, Gianluca Gorini, Davide Caranchini, Stefano Vola, Antonio Guida e Luigi Taglienti – chiamati a creare un piatto con uno di questi formaggi.

Lo stress-test definitivo – e ampiamente superato – del latticino, che ha saputo abbinarsi magistralmente anche negli accostamenti più ostici, come quello di Antonio Guida e la sua Triglia avvolta in foglia di bieta e tartare di calamari all’Appenzeller.

Tutto quello che avreste voluto sapere sul… formaggio

Formaggi dalla Svizzera mette poi a disposizione degli utenti un sito web veramente nutrito di contenuti. Dalla ricetta per realizzare una perfetta fondue moitié-moitié, ai luoghi più strani in cui mangiarla, passando per l’elenco delle tipologie di formaggio suddivise per le loro caratteristiche… se avete una domanda sul formaggio, questo è il posto in cui troverete una risposta.

Alcune curiosità

La maggior parte dei formaggi svizzeri non contiene lattosio
I formaggi a pasta extradura e dura non contengono lattosio, poiché la maggior parte viene rilasciata nel siero durante il processo di caseificazione e la restante è eliminata attraverso il processo di stagionatura. Al novero è possibile aggiungere anche i formaggi a pasta semidura e alcune tipologie di formaggio molle, che, pur contenendo qualche traccia di lattosio, sono ben tollerati dall’organismo.

L’autentico formaggio svizzero “con i buchi” è soltanto l’Emmentaler DOP
Non l’Emmental, non il Groviera, che possono essere prodotti in altri paesi. Dal 2000 il solo e unico formaggio con i buchi svizzero è l’Emmentaler DOP. Emmentaler si traduce letteralmente come “proveniente dalla valle dell’Emme”, l’area di produzione storica di questo iconico formaggio.

La produzione è interamente biologica e attenta al benessere degli animali, immersa in scenari da favola
In un Paese che ha chiamato il suo popolo a votare circa l’opportunità o meno di tagliare le corna delle vacche adducendo che ciò provocasse una sofferenza inutile dei bovini, superfluo dire che il benessere degli animali è sempre tenuto in grandissima considerazione. Io stessa in occasione di una passeggiata in montagna ho assistito all’inusuale scena di un branco di maiali che saltellavano, letteralmente, liberi per i prati, sprizzando gioia da tutti i pori. Sul tema gli elvetici sono avanti, c’è poco da dire.

Nel 2002 i produttori di formaggio hanno poi volontariamente deciso di attenersi a norme ancora più stringenti di quelle dettate a livello europeo, rinunciando all’impiego di coloranti artificiali e conservanti ad azione antibiotica. I casari svizzeri ne hanno fatto un vero e proprio dogma: non utilizzerai altro all’infuori di latte, batteri lattici e caglio.
Il risultato è un prodotto completamente naturale e di altissima qualità. Qualità che deriva dal fatto che i due terzi dei formaggi provengono da piccole realtà artigianali, saldamente legate al territorio e solitamente immerse in scenari da favola, dove le mucche brucano l’erbetta fresca di montagna e scorrazzano felici nei pascoli dalle tonalità verde smeraldo.

Alla scoperta dell’oro bianco svizzero

Un utile – e dilettevole – modo di scoprire l’ingente ricchezza casearia di questa nazione, è sicuramente quello di partire e mettersi in viaggio. Spesso dimentichiamo che la Svizzera non è poi così lontana. Il Ticino è giusto al di là del Lago di Como, e già qui è possibile trovare un infinito numero di caseifici e alpeggi, magari approfittando dell’occasione per concedersi una piacevole escursione.

Numerosi sono anche gli eventi legati al mondo del formaggio: i più famosi sono gli Swiss Cheese Awards, una sorta di Premio Oscar del formaggio che si tiene in autunno, ma non mancano le iniziative locali, come il Cheese-Festival che andrà in scena a Lugano il 1° aprile. Numerose iniziative saranno presentate anche sul territorio italiano a cura del distaccamento nostrano di Formaggi dalla Svizzera, che nelle prossime settimane sarà presente in numerosi punti vendita e attraverso punti di contatto diretto con il consumatore, tramite l’utilizzo di immagini, QR code, concorsi e molto altro.

Tutte ottime occasioni per scoprire quant’è effettivamente buona l’erba del vicino.

La cucina “class-ica” di Roberto Stefani

A Sirmione, nella strada che porta al Castello Scaligero, direttamente in riva al Lago, col suo grazioso dehors, c’è il ristorante Tancredi. Il nome, in onore del cantante lirico Tancredi Pasero che possedeva una dimora proprio sulla penisola. La “musica”, qui, è diretta da Roberto Stefani, scuola di Gualtiero Marchesi e Antonio Guida, con un imprinting di quest’ultimo molto forte, avendo collaborato per anni, con lui, sia al Pellicano sia al Seta sia per l’apertura del Mandarin Oriental a Bodrum. Dopo un periodo trascorso Alla Lepre a Desenzano e alcune consulenze, è partito per questa apertura, nel periodo appena pre-Covid.

La sua è una cucina di impostazione classica, elegante, raffinata, nitida nei sapori, con cotture millimetriche e salse tirate alla perfezione. È “class-ica”: classica con classe, piacevolmente gustosa, molto equilibrata e a fuoco, prevalentemente ittica, anche se nel menù alla carta ci sono anche proposte di carne.

Sotto la terra e sotto l’acqua

È il nome del menù degustazione che parte con un piatto che racchiude entrambi gli elementi, oramai divenuto un signature dish: il king crab con purea di patate viola, aria di Champagne e caviale di aringa affumicata, un piatto perfetto per equilibri dei vari ingredienti con una gradevolissima nota acidula di fondo. Sorprende per intensità il risotto con limone candito, polvere di sarda del lago e salmerino, per la capacità di incuriosire piacevolmente il palato.

Tutti i piatti sono eseguiti in modo esemplare, con una elegante delicatezza di fondo: spicca, al riguardo, per le eco al lontano Oriente, il rombo al Vadouvan, ricoperto di amaranto al cavolo viola, accompagnato da una salsa all’ostrica.

La parte dessert ha la supervisione della creative pastry-chef Annalisa Borella, con un curriculum che vanta anche lei Gualtiero Marchesi e poi Stefano Baiocco e Mauro Colagreco; il suo curd di limoni, arancia amara, aria di capperi ed erbe aromatiche è davvero notevole per complessità e intensità, con i vari ingredienti che rimbalzano e arrivano in modo forte e deciso.

La carta dei vini vanta 500 etichette, con una bella selezione sulla Francia. Il servizio è affabile e preciso: nota di merito per l’attenzione rivolta agli amici quadrupedi, a cui vengono portati dei biscottini davvero graziosi oltre, ovviamente, alla ciotola d’acqua.

In conclusione, un’area potenziale di miglioramento, che ci sentiamo di suggerire, consiste nell’alzare l’asticella delle intensità: perché la tecnica, l’equilibrio, la precisione e le capacità ci sono tutte per farlo e accedere, così facendo, a un punteggio più elevato.

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Una nuova primavera a Milano

Alla riapertura, per ora solo all’esterno, di questo splendido luogo di culto per l’alta gastronomia milanese ci siamo precipitati senza esitazioni, in una serata più vicino all’estate imminente, almeno ce lo auguriamo, più che a una primavera che non abbiamo di fatto vissuto. E il fermento, la vita, la rinascita che ci ha pervaso ci ha portato dritta la mente e il cuore all’opera rinascimentale di Sandro Botticelli. Per un numero elevato di motivazioni : il tratto e la precisione ci sono parsi molto più nitidi ed efficaci di un tempo. L’uso sapiente di spezie e profumi, ancora più eleganti e puntuali, che mantengono viva una cucina di grande personalità e timbrica. L’esplorazione, già cominciata in periodo pre-lockdown, del mondo vegetale, a cui oggi il Seta dedica anche un intero menù degustazione.

La rinnovata carta con tanti, tantissimi nuovi piatti

Tutti questi aspetti hanno acuito la sensazione di trovarci di fronte ad un nuovo rinascimento per il Seta e per il suo trio alla direzione della cucina. Abbiamo trovato tutti i comparti in splendida forma, smaglianti e scintillanti, così come i piatti. Decisamente intrigante ed elegante il Gazpacho verde con fragole e gelato al pepe rosa, di una raffinatezza sopraffina, così come lo scampo in tempura, che strizza l’occhio alla casa madre d’Oriente, proseguendo con il Morone all’nduja e salsa al curry, in cui il curry verde ci ha ricordato echi e richiami alla cucina di Pierre Gagnaire forti e ben assestati. Splendidi anche i Garusoli con patate al limone, salsa ravigote e peperoni così come gli altri piatti, nessuno escluso.

Un plauso, come sempre del resto, alla precisione e originalità della pasticceria di Nicola di Lena, davvero un’anima importante di questo Seta, che fornisce ed imprime un valore aggiunto innegabile.

In conclusione il tratto comune che ci è parso di cogliere è da un lato l’ulteriore elevazione dell’asticella nella direzione della finezza e dell’eleganza. Le proporzioni e le geometrie dei piatti, mantenendo una golosità di fondo tipica della cucina del Seta, hanno però impresso una velocità diversa rendendosi più raffinati e sottili, con tocchi lievi. E poi l’uso delle speziature, oggi ancora più persistente e dosato rispetto ad un tempo hanno decisamente portato su un piano notevolmente superiore le preparazioni che, ribadiamo, mantengono la golosità e piacevolezza di un tempo immutata.

Complimenti meritati e sentiti anche al rinnovato entusiasmo del personale di sala, capitanato da Manuel Tempesta, davvero pronto e attento, forse desideroso e scalpitante di tornare e riprendersi quella dignità lavorativa che era persa da tempo immemore.

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Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione: