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Il menù caccia e bosco di Davide Caranchini

Into the wild

È autunno e alcuni bravi cuochi si lanciano in menù dedicati alla cacciagione. Davide Caranchini, al Materia a Cernobbio, ha preparato un menù degustazione, caccia e bosco, assolutamente originale e fuori dagli schemi classici. Accostamenti insoliti, utilizzo di agrumi, spezie, erbe e persino note iodate. Gli animali sono tutti cacciati nella vicina Val d’Intelvi, così come la provenienza del tartufo nero utilizzato.

Davide da sempre ci ha abituato a passeggiate palatali di acidità, erbosità, balsamicità, aromaticità, amaro e dolcezza, che si ritrovano in questo affascinante percorso “into the wild“, dove incontriamo cervi, lepri, pernici, cinghiali, galli cedroni, colombacci, anatre. Il primo accostamento inusuale è quello dell’elemento iodato, che apre la promenade con un brodo di funghi e alghe, a seguire la tartare di cervo, rafano e plancton. Diventa esplosivo in una versione, decisamente alternativa, di una royale di pernice, con l’ostrica a sostituire il foie gras, salsa albufera e limone: sontuosamente gustosa. Il secondo accostamento insolito ma assolutamente riuscito nella valorizzazione e veicolazione del gusto della nobile materia prima è quello con gli agrumi, utilizzati come agenti naturali di acidità.

Nel germano all’arancia il germano è cotto allo spiedo, poi servito tiepido con una salsa concentrata, come un fondo, ottenuta solo ed esclusivamente dalle arance, cotte in pressione, maturate, estratte e ridotte in essiccatore. Scorza di arancia e foglie di maggiorana a chiudere aromaticamente un gran piatto. È invece il pompelmo, insieme alla liquirizia, a fare da perfetto contraltare al colombaccio. Terzo elemento valorizzante e rafforzante per contrapposizione è quello della dolcezza. I ravioli hanno un ripieno di ritagli e interiora degli animali usati nel menu; la salsa è un fondo di cottura di selvaggina con aceto di lampone e cacao amaro, a ricordare il classico dolceforte.

Dolcezza di fondo anche per la purea di castagne arrostite, contrastata dall’acidità del frutto della passione, per il cinghiale in salmì con il tartufo nero. Fuori dal menù abbiamo avuto la possibilità di gustare anche una classica lepre alla royale, così come un gallo cedrone dalla texture e dal sapore sorprendente. In conclusione un menù assolutamente da provare per entrare in un mondo che si sta piano piano perdendo.

Grandi giochi di equilibri, maestria nelle varie cotture, millimetriche, valorizzazione assoluta di una grande materia prima, nobilissima, da parte di uno chef di grande talento, che si conferma in grande forma.

La Galleria Fotografica:

L’alta cucina classica francese rifiorisce ad Ivrea

“Hai un nuovo messaggio Instagram da Giovanni Passerini”

“Alberto, ti scrivo per segnalarti un matto che ha lavorato da me per un anno e mezzo e che ora ha ripreso le cucine di un locale di Ivrea. È un fuori di testa che serve germano e lumache di mare in vineria, un ossessionato di tecnica francese. Non lo conosce nessuno e so che su queste cose tu ti esalti. Un abbraccio a presto!”

Già, Giovanni mi conosce bene. E per una volta abbandoniamo lo stile classico della recensione per introdurre un ragionamento che ci sta molto a cuore. Perché in questa semplice frase c’è la quintessenza della nostra professione, fatta di immensa, sconfinata passione. Passione nello scovare sempre una novità che stimoli noi e che stimoli il nostro lettore, fare chilometri per una liévre à la royale, per un timballo, per un nuovo piatto avanguardista; insomma, per scovare un talento che non si era ancora svelato.

Siamo noi che, mossi dalla passione, abbiamo la responsabilità di raccontare queste meravigliose storie e veicolarle affinché luoghi e persone vengano visti, visitati, celebrati. È il nostro compito, ancor più in momenti difficili, come questo. E dovremmo tornare a farlo con tanta intensità e frequenza ancor più a breve, perché ciò sarà il motore di una ripresa ci auguriamo essere rapinosa perché, ecco, questo settore non è solo la nostra passione ma, non dimentichiamolo, è anche una delle più importanti e straordinarie risorse di cui dispone il nostro Paese: il comparto agroalimentare e tutta la straordinaria filiera che vi ruota attorno.

Nel regno di Roberto Bordone e Alessandro Esposito

Eccoci quindi effettuare una prenotazione fulminea alle Cantine Morbelli e intraprendere un viaggio che, di questi tempi, tanto scontato non è. Arriviamo e subito rimaniamo colpiti dalla varietà di bottiglie e di produttori non scontati che scorgiamo sugli scaffali. Merito di Roberto Bordone, titolare di questa splendida realtà che, con grande passione e capacità, vi saprà regalare abbinamenti forieri del suo talento, della sua personalità e della sua sensibilità. È lui che ha preso in mano il tutto, 6 anni fa dalla famiglia Morbelli, lanciandosi letteralmente nell’ignoto.

Oltre che le sue grandi doti di sommelier e di wine-scout, Roberto ha anche il ruolo fondamentale di mecenate di Alessandro Esposito, giovane poco più che trentenne eporediese che ha trascorso qualche anno a Parigi facendo esperienze in cucina che lo hanno segnato indelebilmente. Da Christophe Pelé a Le Clarence, con il grande Giuliano Sperandio come co-partner in crime, ha attinto la grande passione per il classicismo francese rivisitato e una quasi-ossessione per l’abbinamento ittico-cacciagione. E poi il passaggio dalle cucine di quel cavallo di razza dal talento jazz e un filo punk di Giovanni Passerini, che gli ha consentito di approfondire ancor più l’irriverente manipolazione dei classici con un tocco di folle ma lucida, eretica pazzia.

Il risultato? Beh, pur nella sua verde e ancora lievemente acerba elaborazione, siamo al cospetto di una delle cucine più interessanti che abbiamo avuto modo di trovare in questo periodo girovagando l’Italia. Le ingenuità non mancano, la tecnica è ancora sporca, l’errore è dietro l’angolo, ma quanta personalità e quanta passione! E ancora quanto rigore, quanta voglia di crescere, migliorarsi, emergere! Un progetto ambizioso quello di Alessandro e Roberto, ambizioso e qualitativamente elevato, al pari del rispettivo talento.

La grande scuola francese al servizio di una cucina di mercato

L’intento qui è quello di portare una grande cucina di mercato tutti i giorni, frutto di improvvisazione e tecnica, tanta tecnica, contaminando i grandi classici con spunti creativi. Il legame tra il regno del mare e quello della caccia è una costante ereditata dall’esperienza a Le Clarence, la grande passione per la pasticceria classica e la voglia di cimentarsi con ricette tanto importanti quanto complicate completa il cerchio di questo luogo davvero magico.

E nel nostro pranzo un tripudio tra liévre à la Royale, tourte de pigeon, le turbot en vessie, mille feuilles e via di seguito, non disdegnando nemmeno un risotto e dei tortelli, anch’essi francesizzanti, forieri di storia, tecnica e un condensato di passione davvero elevatissimi.

Il giudizio, non ancora pieno, è prospetticamente e velocemente raggiungibile ma soprattutto è l’auspicio che qui si continui a fare questa rivoluzione lenta ma continua in una piazza tutt’altro che facile. E allora largo ai temerari di Cantina Morbelli, inondiamoli della nostra presenza!

La galleria fotografica:

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

Stimolati dalla stringata ma come sempre affidabile segnalazione del buon Luigi Cremona, e stuzzicati non poco dalle fotografie che abbiamo visto sul suo blog, ci siamo precipitati qui, a Desenzano. Arrivati in anticipo, una sera di fine estate, abbiamo ripiegato per un aperitivo al vicino Leprotto, il bistrot di famiglia con l’entrata di fianco al ristorante.

Bello scoprire in un posto come questo, che grazie alle frotte di turisti che assediano la cittadina non ne avrebbe affatto bisogno, un concentrato di competenza, passione, gioia di fare il proprio mestiere e tanta, ma davvero tanta, divertente e piacevole giocosità.

Ci accoglie una giovanissima ragazza, che ci mette cinque minuti secchi ad inquadrare degli appassionati, mettendoci nel calice per l’aperitivo un Cremant biodinamico di Borgogna. Un po’ sgasato, un po’ imperfetto… ma con grande fascino e charme, per un Cremant s’intende.
Bello davvero scambiare due chiacchiere con questa giovane entusiasta, che ci racconta delle sue scorribande enologiche alla scoperta di chicche tra le più estreme che si possano immaginare.

Questa è l’aria che sin da subito abbiamo respirato alla Lepre. Nome assai impegnativo, che metteremo certamente alla prova. Con cosa? Bien sûr, Lièvre à la Royale, parbleu!
Perchè il giovane cuoco, Roberto Stefani, vanta trascorsi da Marchesi e da Guida. E forse anche qualche puntantina oltralpe lo deve avere formato a dovere. Lo chef ha manico, una mano elegante da Saucier davvero invidiabile. Una serie di tocchi che ci hanno fatto volare direttamente alla Ville Lumière, come quell’indivia cotta in un boullion che da solo parlava, e poi ripassata alla plancia per rilevarne gli zuccheri, come direbbe qualche cuoco famoso.

Bravo davvero lo chef, che con mano decisa ci ha proposto una serie di preparazioni, ad un prezzo encomiabile (menù degustazione di 6 portate a 59 euro) e di qualità eccelsa.
Ma quindi, manca qualcosa? La risposta è che ci aspettiamo, da un talento tanto pulito e cristallino, qualche azzardo in più. Magari non come quello spada, culatello, crescione e melone, molto confusion e poco fusion.
Belle, centrate e coerenti le altre preparazioni, con una mano sensibile, lo ripetiamo, sulle salse e sui fondi. Ma leviamo quei rametti tutti uguali, lasciamoci l’insicurezza alle spalle, perché il cuoco ha una padronanza che deve lasciar scorrere.

La vostra serata trascorrerà nel migliore dei modi anche grazie a Walter Viganò, che in sala vi delizierà con la sua classe nonché la sua elegante e dimessa presenza. Cantina interessante, molto indirizzata verso il naturale e la biodinamica, ad un prezzo competitivo.

Dunque andate di corsa alla Lepre, senza alcuna esitazione, e incoraggiate questo gruppo di giovani ragazzi che promettono davvero tanto e bene!

Amuse bouche: tartare di salmone e panna acida.
amuse bouche, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
L’ottimo pane, accompagnato da burro di qualità.
pane, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Il nostro eccellente, ed ancora in forma, compagno di viaggio.
champagne, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Gamberi, tartufo, yogurt, pesca. Interlocutorio.
gamberi, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Capasanta, yuzu, prezzemolo, ricotta e macedonia di frutta. La salsa, ah mon dieu!
capasanta, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Raviolo aperto, con una elegante bisque tirata alla francese con un filo di panna (ma che salsa!) ai frutti di mare e crostacei. Il pomodorino? Inutile, pleonastico.
Raviolo aperto, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Spada, dalla cottura perfetta, accompagnato da culatello, gel di aperol, melone e salsa al prezzemolo. Bocciato!
spada, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Anatra, cotta perfettamente (ça va sans dire), con salsa al carcadè, un eccellente purè, e un’indivia stupenda. Peccato per quel germoglio, nuovamente caduto sul piatto.
anatra, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Tortino caldo al cioccolato, cocco, terra di cacao e punti di frutta.
Tortino al cioccolato, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
La piccola pasticceria.
piccola pasticceria, Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia
Il leprotto… andateci!
il leprotto,  Alla Lepre, Chef Roberto Stefani, Desenzano del Garda, Brescia

E’ inutile nasconderlo: stiamo seguendo Luigi Taglienti al Trussardi alla Scala con grande interesse, convinti sin dalla prima visita che da queste parti si stia facendo un lavoro molto interessante.
La domanda che era legittimo porsi è se la forte personalità dimostrata dallo chef sin dalla partenza, alle redini di questo prestigioso locale milanese, sarebbe stata mantenuta o avrebbe dovuto venire a patti con una piazza più incline, in fatto di cucina, alle mode che alle avanguardie.
Possiamo, dopo questo ennesimo passaggio, essere tranquilli sul fatto che cuoco e proprietà sono riusciti a trovare un difficile equilibrio tra un’offerta più classica e adatta a una clientela in gran parte d’affari, specie a pranzo, e una proposta gourmet di rara originalità, capace di spingersi su territori rari di questi tempi. Una proposta che, per dircelo chiaramente, rende questa tavola una delle più interessanti della cucina italiana contemporanea.
L’appassionato in cerca di emozioni può, cosa difficile, provarne davvero dando carta bianca allo chef, soluzione che, pur da refrattari alle degustazioni chilometriche, in questo caso caldeggiamo decisamente.
Taglienti è riuscito a darci un’esperienza unica, condita di propensioni individuali (una predilezione per l’amaro che non è solo moda avanguardista di questi tempi), richiami al classico come modello insuperabile (la lièvre à la royale e il babà sono pezzi di bravura da table parigina d’altri tempi), provocazioni (un germano dalla frollatura “gore” accompagnato da una tagliatella panna e tartufo di consistenza morbidamente transalpina). Un campionario originale e ambizioso, mai velletario anche nei momenti più anomali (e ce ne sono diversi), fotografia di uno chef molto sicuro di sé.
Se gli si può imputare qualche “scorciatoia” (la presenza del pompelmo nel dare acidità e amaro potrà avere in futuro alternative più originali) è solo perché riteniamo che, da queste parti, ci si possa attendere in futuro persino qualche passo in avanti, perché tutti i “reparti”, dagli amuse bouche ai petits-fours sono già oggi in grado di soddisfare qualsiasi palato.
Oltre alle belle prove già citate e meglio descritte in seguito con le relative foto, ci sembra indispensabile rendere omaggio a uno dei piatti più interessanti provati nell’intero 2013: il crudo e cotto di minestra campana, in cui l’associazione popolare di broccolo campano, sottocotenna e un fenomenale pomodoro si fa alta cucina, italianissima e la povertà degli ingredienti diventa oro nelle mani di uno chef sapiente, che non si spaventa di dare all’amaro un ruolo centrale.
Servizio giovane molto felice di raccontare i piatti che propone e carta dei vini per portafogli carrozzati.
Imperdibile.

In apertura: confini ai profumi d’autunno, una cialda sulla quale sono adagiate suggestioni di stagioni tra mare e terra. Sporcatevi le mani e cominciate il percorso!

Cozze, midollo e carote: giochi di consistenze e stimoli acido-amari a presentare da subito quello che vi attende
cozze, midollo, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Peperone e bagna cauda: concentrazione spintissima. Con 10 grammi di materia prima si può fare un gran piatto, di intensità tendente a infinito
peperoni, bagnacauda, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Stoccafisso e topinanmbour. Aspetto più monastico che semplice, ma cotture e abbinamento impeccabili
stoccafisso, topinambur, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Crudo e cotto di minestra campana. Già detto, qui siamo al fondo scala della cucina italiana
crudo e cotto, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Raviolo di zucca ripensato da un ligure (con amaretto e mostarda di chinotto). Facile pensare a Checco Zalone, ma il boccone è di rara persistenza
raviolo di zucca, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Risotto con bergamotto, ruta e lumache di mare: sul risotto non si può scherzare. Nemmeno Taglienti lo fa…

Petto di piccione e tiramisù di porri e polenta. Presentazione lussuriosa e preparazione d’alta scuola
petto di piccione, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Salmì (chitarra di rapa rossa, salmi di fegatini, cognac e cappero). Piatto di rara potenza, con la componente alcolica in primissimo piano, senza concessioni alla tanto sbandierata ricerca dell’equilibrio. Qui si propende per un sano squilibrio, ed è un colpo da KO
salmì, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Germano reale. Vegetariani astenersi anche dalla sola vista
germano reale, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
…e la tagliatella, come se fossimo al Ritz o da Chez Maxim
tagliatella, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Lièvre à la royale. Se da sempre c’è un motivo per andare per ristoranti, sono piatti così
lievre a la royale, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Soufflé-glacé, carciofo, Cynar. Un pre-dessert? Originale, quantomeno
soufflè, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Miele, granita al limone, origano e capperi. Frutti di mare al dessert, per chiudere il cerchio
miele granatina, limone, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Babà, perché un pasto memorabile va chiuso con una grande preparazione di pasticceria tradizionale. E questa è una grandissima prova
babà, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Alcuni dei fragranti, riuscitissimi, pani
pane, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano
Chiusure dolci. Sì, un cannelet è già stato divorato, d’altronde quelle rare volte che lo si trova ed è fatto a regola d’arte come si fa a resistere?
piccola pasticceria, Trussardi alla Scala, Chef Luigi Taglienti, Milano