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Barred

Due fratelli e molti tatuaggi, a Roma


È la cronaca, in positivo ci mancherebbe, del nostro ritorno ai tavoli di Barred, nel quartiere Appio Latino di Roma dai Palucci bros’. Torniamo in un’insegna che distilla atmosfere a tratti nordiche, ma come già scritto nel nostro precedente resoconto non è pago di riferimenti gustativi alla tradizione de’ casa nostra. Il dogma dei Palucci è ovviamente sovvertire i canoni tradizionali di lavorazione dell’ingrediente senza perdere di vista la resa finale scevra da qualsiasi forma di manierismo. Cucina schietta nell’accezione romana di approccio, ma rigorosa nella lavorazione materica in particolar modo sul versante vegetale. Una rosa di caratteristiche, queste, che ritroviamo tratteggiata nei tatuaggi dei due fratelli e, per estensione, nel quartiere stesso in cui si trova il Barred, che interseca culture e stili di altri paesi presentando una miscellanea, gastronomica e non, davvero molto divertente.

Tratti sicuri, sfumature complesse

In un sequel immaginario la Sora Lella di Elena Fabrizi prende un volo diretto per Tokyo, con la celebre Fettuccina (e non si dica tagliatella!) in sposalizio a scalogni fritti e alla coppietta fatta però con il tonno. Una sorta di kastuobushi, ma con la tenace plasticità tipica del salume laziale essiccato. Da Tokyo a Bangkok, le ore di volo sono 6, da Barred sono stati sufficienti circa 10 minuti per spostarsi sull’Asparago glassato con crema di arachidi, coriandolo e peperoncino così atavicamente pad thai. Va ammesso tuttavia, che per le altre portate successive dobbiamo constatare un eccessivo lasso di tempo per un locale che, a capienza massima, esibisce una certa difficoltà di gestione della comanda. L’Ombrina, nella sua azzeccata cottura, incontra il frutto rosso per acida astringenza, a rincarare piacevolmente la dose ci pensa la bieta. Peccato invece per il Diaframma alla pizzaiola che soccombe a causa del pomodoro arrosto, relegando la succulenza del taglio al rango di fettina asciutta al sugo, dove nemmeno il vigore piccante dell’nduja riesce a risollevare in finale.

La triade dei dolci coniuga sapientemente le competenze pasticcere del Barred offrendo una corretta visione, a traino francofono classico, tra savarin, crème caramel e pain perdu. Nulla di nuovo sull’approccio enoico al 99% in chiave naturale adottato da questa insegna, sempre raccontato con minuzia e senza boria da prestazione. I Palucci come si evince anche dal loro aspetto, nel loro Barred perseguono un personale progetto di romanità, che qualche anno fa avevano solo idealmente abbozzato. I tratti oggi sono sempre più sicuri, le sfumature sempre più complesse, e in grado di delineare un ideale collegamento tra il mondo del tatuaggio e quello del ,cibo. Estro, artigianalità e narrazione, nonostante la natura diametralmente opposta del risultato ottenuto: temporaneo quello della gastronomia, permanente quello del tatuaggio. Pronti, allora, a vederne altri.

IL PIATTO MIGLIORE: Fettuccine, compiette di tonno e scalogno fritto.

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L’inedita bistronomie romana

Parigi o Roma? Marzapane, ubicato all’interno di un grazioso palazzetto terrazzato nei pressi di Piazza del Popolo, catapulta in Francia. A tavola, fra beurre doux e crème fraîche, la sensazione di trovarsi ad un tratto Oltralpe diventa realtà. Del resto, il nuovo corso definito da Mario Sansone, titolare di questo locale a tinte internazionali e dal design minimal, punta forte sullo stile bistronomico impresso dal cuoco Antonio Altamura; non a caso, allievo di Inaki Aizpitarte e di Giovanni Passerini, rispettivamente padre e portavoce di spicco di questa calligrafia gastronomica che tanto ha segnato il milieu parigino. Dai maestri viene mutuata l’attenzione maniacale verso la materia prima e la sua evoluzione secondo cicli stagionali che ormai possono durare anche solo poche settimane (“il timo in primavera è solo quello in fiore”). A rendere poi l’offerta culinaria ancor più sorprendente, sui generis per il contesto capitolino, è la combinazione che ne risulta con il ricorso calibrato alla brace, tecnica appresa dal celebre Asador Etxebarri. La carta dei vini presenta piccole produzioni artigianali che raccontano il territorio, con una nutrita selezione francofona e uno sguardo particolare alla Sicilia.

Istinto e libertà di espressione

Improvvisazione adrenalinica e quotidiana capacità di adattarsi all’instabilità microstagionale dei prodotti devono costituire le lenti con cui osservare i piatti. Non mancano quindi intriganti azzardi ai fornelli di Altamura, talvolta meno convincenti, come nel caso della Salsiccia di coratella di razza casertana seguita da Seppioline con il loro nero: ottime singolarmente per consistenza e gusto, ma sporcate dalla loro confusa sovrapposizione. Una cucina rischiosa per alcuni, amusante per altri. Laddove si fa chiara l’impronta francese vengono espresse le proposte migliori. Da mangiare con gli occhi il Pâté en croûte del sous chef Axel Ayza Gallart, scuola Lastre, perfettamente abbinato a una foglia di cappero e al profumato limone Meyer, che portano al palato uno stacco acido, fresco e di pulizia assai azzeccato. Affascinante per le diverse percezioni gustative suscitate la Struncatura: pasta tenace, richiamo marino e sapido, ritorno lattico e cremoso frenato in chiusura dalla nota leggermente piccante ed erbacea. Sapori decisi e intensi riecheggiano. Dopo il timido benvenuto, sono gradualmente emerse personalità e coraggio ai fornelli di Altamura: alcuni accostamenti interessanti, cotture d’autore, che non hanno però tradito il manifesto di “semplicità” sfociando in superflui manierismi. Forse, nella giungla ristorativa della Città Eterna, una formula così mancava. Le promesse creano aspettative, chissà se verranno deluse…

IL PIATTO MIGLIORE: Struncatura, lumache di mare, beurre persillé all’aglio selvatico.

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Andrea Antonini un talento ormai ai vertici

Sono passati quattro anni, e in mezzo è successo di tutto, da quando il compianto Roberto Wirth decise di affidare le redini di uno dei ristoranti più affascinanti e iconici di Roma, non fosse altro per la vista unica sui tetti della Capitale, ad un ragazzo nemmeno trentenne, sconosciuto ai più, Andrea Antonini. Una scelta coraggiosa che ha pagato il suo dividendo: in quattro anni l’Imàgo è diventata una delle cucine più interessanti e stimolanti nel panorama fine dining capitolino e non solo. Una cucina che mette al suo centro italianità e, ancor più, romanità (le amate radici dello chef Antonini) riviste in tecnica e presentazione del piatto, ma sempre mantenendo la centralità dei gusti e sapori della tradizione. Importante in questo percorso l’aver saputo formare una squadra di altissimo livello, alla quale si è recentemente aggiunta la figura di Luca Villa, pasticciere con una lunga esperienza dai Roca. E non da meno la sala, coordinata da Marco Amato, che gira alla perfezione.

Una cucina rigorosamente italiana

Il nuovo menù primavera/estate esprime alla perfezione i concetti di italianità e romanità che Andrea Antonini sta sviluppando all’Imàgo. Niente fermentazioni (con l’eccezione della mela che funge da starter lievitativo in uno degli ottimi pani), niente sottovuoto, solo cotture dirette, orpelli estetici ridotti al minimo. E anche il menù si è asciugato: l’antipasto all’italiana o, ultimamente,  quello di mare che invadeva il tavolo di assaggio, ora è proposto piatto dopo piatto, a partire dall’inizio con la bottiglietta di bitter e le patatine confezionate che sono Pelle di pollo alla diavola, tutto preparato home-made, così come, quotidianamente, la magnifica Porchetta servita nel classico panino e le coppiette. Ma è con il Garofolato di manzo che si toccano i vertici: rispetto alla ricetta classica, la carne è cruda, a dare consistenza al morso, e i condimenti, a ricostruire il sapore, sono nel piatto dal soffritto alle spezie fino al fondo di carne. Un piatto emozionante così come l’unica concessione alla classicità internazionale del Raviolo di granchio con limone, mandorla e il tocco italico della pancetta. Poi, al netto di un Abbacchio, patate ed erbe che mantiene, nella sua semplicità, tutte le promesse, non si può non fare un plauso alla parte dolce finale: Rosa, panna e fragoline è un gioco (anche bellissimo) nel quale si uniscono dacquoise alla mandorla, vaniglia e meringa oltre agli interpreti principali, e senza dimenticare il ricco carrello dei dolci a cui, sia pur a fine pasto, non si può resistere.

Imàgo: un altro rapido passo verso i vertici della ristorazione capitolina e, per estensione, italiana.

IL PIATTO MIGLIORE: Crudo di manzo “garofolato”.

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Venghino Signori venghino

Siamo a pochi passi da una delle zone più affollate di Roma, Fontana di Trevi. Cerchiamo riparo dal bailamme e dalla calca, un’oasi dove riprenderci dalle fatiche e, perché no, assaporare qualche specialità. Ecco, come un miraggio ci appare Baccano; il nome non fa rima con la tranquillità di un’oasi, ma ci troviamo in un circo ordinato ed estremamente confortevole. I camerieri acrobati spaziano da un tavolo all’altro, con velocità e maestria, è un caos ordinato, una macchina perfetta che ci consente di rilassarci, sebbene in presenza di un locale di notevoli dimensioni. Come in un circo c’è un po’ tutto, dal cocktail alla caffetteria, dal crudo di mare ai dessert. A dirigere la truppa ecco Nabil Hassen, pregevole domatore, che assicura un’inaspettata qualità ad ogni portata.

Tanta gente, tante proposte, ma tanta qualità

La cosa che più ci ha colpito è, infatti, la capacità di Nabil Hassen di mantenere alto il livello anche in presenza di numeri così grandi e con un’offerta così ampia. Il Risotto con burro e acciughe, croccante alla nocciola e limone di mare è inappuntabile. Sorprende la freschezza del limone di mare che garantisce al piatto la giusta sapidità marina. Veramente speciale la Carbonara, diversa da quella di Luciano Monosilio per la tipologia di pasta utilizzata (rigatoni vs spaghetti) e per la gestione della sapidità (più decisa in questo caso), ma definire un vincitore sarebbe arduo. In mezzo a tutta questa sorpresa peccano i Taglieri che abbiamo provato; restano buoni, ma ci saremmo aspettati qualcosa di più particolare. Importante la cantina, con tantissime etichette italiane ed estere, anche il comparto mixology non tradisce completando un’offerta adatta a soddisfare ogni desiderio.

IL PIATTO MIGLIORE: la Carbonara.

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Il ritorno di Roy Caceres

A tre anni dalla chiusura di Metamorfosi, ristorante che per quasi un decennio aveva viaggiato con il supporto di pubblico e critica, torna in campo Roy Caceres con Orma che, nel nome, richiama non solo l’impronta che vuole lasciare nella cucina capitolina, ma anche in anagramma il nome della Capitale che lo ospita ormai da lungo tempo. Un locale dal design moderno ma avvolgente tra legno, pietra e ferro, ben definito anche negli oggetti che adornano gli spazi e i tavoli, a cui si aggiunge un luminoso terrazzo esterno che a pranzo ospita il bistrot, con piatti dedicati e a cena diventa teatro dell’aperitivo e del momento dei dessert a fine pasto, così come l’inizio è affidato a degli snack preparati al momento e consumati davanti alla cucina a vista. Il servizio è giovane e rilassato, la carta dei vini, naturalmente ancora in divenire, gioca sui territori, Champagne in primis, con pari dignità tra convenzionali e naturali.

Una cucina generosa ed empatica

Con Orma, Caceres ridefinisce il suo concetto di ristorante fine dining: più che all’esperienza di Metamorfosi si fa riferimento a quella di Carnal, il bistrot di successo da lui aperto nel 2019 dove le sue origini latino-americane (Caceres è colombiano) si fondono con materie prime italiane. Ed è questo il filo conduttore dell’esperienza, tra ingredienti, idee e tecniche sempre al servizio del gusto. Oltre alla carta, ci sono due menù: “Tracce indelebili“, con i classici dello Chef, e “Tracce correnti“, basato sulla nuova linea. Dopo un inizio interlocutorio, dove il carciofo e l’uovo, soprattutto quest’ultimo, coprono il gusto del riccio del mare (e il side dish di Gambo di carciofo con canocchie al burro di Jersey non convince nell’abbinamento), si sale subito di livello con il matrimonio tra Indivia e platano, giustamente marcato da una salsa al caffè di cicoria, arricchito dalla nota terrosa del tartufo nero. Sferzante il Raviolo d’ostrica, dove la pasta è fatta con l’impasto utilizzato per i noodles e il ripieno combina il mollusco, la sua acqua, grasso di agnello e peperoncino, il tutto completato da fave e dragoncello a dare allungo vegetale all’assaggio.

Gioca su una bella  cremosità lo Spaghetto al latte di pinoli e sulla pulizia del gusto la pecora cotta alla brace con radicchio, senape, yogurt e olio al lentisco. E, al momento dei dolci curati dal fratello Diego, si uniscono ancora di più culture gastronomiche nella combinazione tra platano, kefir, cioccolato bianco, panela e latte di cocco. Una fotografia della cucina di Orma.

IL PIATTO MIGLIORE: Raviolo d’ostrica, fave, dragoncello.

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