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Nebbia

Nulla di rarefatto

In una tranquilla via in zona Navigli, a Milano, Nebbia è una rinomata seppur giovane insegna che indossa il nome del fenomeno meteorologico un tempo imprescindibile e intrinseco la vita di tutti i nostalgici meneghini; qui, felicemente a discapito dell’appellativo impiegato per identificare questo ristorante, la cucina, diretta dai due soci chef Federico Fiore (in curriculum varie collaborazioni tra cui con Cesare Battisti presso il Ratanà, Enrico Crippa al Duomo e Inaki Aizpitarte) e Mattia Grilli (militanze all’Armani, Ceresio 7, Rovello 18 e a Parigi, da Passerini), ha un orientamento molto nitido e concreto, per nulla rarefatto, che sa impiegare, con mano elegante e visus contemporaneo, materie prime peculiari, ma in genere meno valorizzate (vedi le tante frattaglie nel menù di Nebbia) che, negli antipasti, toccano il loro vertice espressivo.

Tecnica e sensibilità

Ruspanti e saporite le Merguez (salsicce di montone) servite con cavolo e salsa piccante di Habanero, etereo il Baccalà mantecato accostato a delle falde di peperone arrosto adagiate su una stuzzicante crema fumé, composta e “bon ton” la Ricciola in un abito esoticizzante di lime e coriandolo fresco seguite da iper talassiche Ostriche Déesse Blanche aromatizzate da una granita di cetriolo che amplifica la nota verde, umorosa e potentemente iodata dei molluschi e concludono le entrèe, gli ormai celebri e spumosi Fegatini su pan brioche e cipolle caramellate. Passando ai primi, purtroppo gli Spaghetti cime di rapa, cozze e bottarga sono stati danneggiati dall’eccessiva sapidità delle cozze esasperata, a sua volta, dall’impiego delle uova di muggine, mentre tra i secondi si distingue il Baccalà all’olio, purea di patate e funghi dall’accattivante nota “umami”, seguito di un soffio nella valutazione, dalle appetitose Seppie cotte con il loro nero, dadolata di seppie crude su una purée di cavolfiore e crostigliante cavolo nero “on top”, confluenti in un abile esercizio di consistenze, cotture e sapide intonazioni. Più materica la Trippa (dal taglio rustico) all’amatriciana, pecorino e menta; curiose invece le aggraziatamente sulfuree Kalette fritte: riuscita crasi botanica e lessicale tra cavoletti di Bruxelles combinati con il sapore del kale, cavolo nero.

Dulcis in fundo, il Semifreddo con mousse al caffè, di note espressione stilistica, conclude questa piacevole sosta allietata anche dal gentile operato di tutto il personale di sala. La carta dei vini di Nebbia è ristretta, ma lodevole per la scelta di etichette non scontate e per l’orientamento contemporaneo verso le produzioni naturali.

IL PIATTO MIGLIORE: Baccalà all’olio, purea di patate e funghi.

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Il bacino del Mediterraneo

Milano e i suoi Navigli poco fuori dal centro città rappresentano un luogo culturalmente e socialmente vivo e dinamico; è qui che da qualche anno Marco Ambrosino, originario di Procida, ha deciso di insediarsi e portare la sua visione di cucina. 28 Posti, con i suoi piccoli spazi, è un luogo dalle mille influenze, sia nel design degli interni che nei gusti e profumi delle pietanze, i quali provengono dai paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Una location con un ambiente semplice, rilassato e dinamico con la possibilità di godere del pasto anche nel dehors quando il tempo e le temperature lo permettono.

Una filosofia di cucina e uno studio, quelli di Ambrosino, che hanno portato lo Chef a fondare il “Collettivo Mediterraneo”, dove porta avanti i suoi studi e le sue ricerche sulle culture e le tradizioni annesse delle popolazioni che vivono questa parte di orbe terracqueo.

Un viaggio culturale prima ancora che gustativo

Il menu degustazione di 28 Posti è la rappresentazione di un grande studio sulle tecniche, sui prodotti e sulle ricette, che vengono poi trascese e applicate al gusto e ai prodotti al quale lo Chef è affezionato. Un percorso dinamico nel quale si gioca disinvoltamente con sapidità, acidità e leggeri amari, e la cui ricerca finale è la profondità gustativa. Su tutti i piatti del percorso, spiccano, ancora, l’Ostrica alla brace glassata al lievito, aronia, lentisco, succo di insalata del pastore dove il gioco tra la sapidità e grassezza dell’ostrica, la nota lattica del lievito e l’acidità dell’aronia portano lunghezza, dinamicità e profondità, così come la “Pasta e Fagioli” e vino fortificato di pasta servito come dessert; un grande lavoro sul carboidrato, a cui Ambrosino ci ha da sempre abituati, qui in combinazione col legume dove entrambi gli elementi vengono lavorati in modo da aumentarne la profondità gustativa ed estrarne tutte le sfumature possibili. Un piatto che si sviluppa in modo orizzontale e verticale ampliando le nuance e lo spettro dei due ingredienti.

Il risultato è una tavola dinamica, vivace e spaziale che porta a fare un viaggio culturale e di conoscenza dei profumi e sapori del “Collettivo Mediterraneo” scoprendo sfumature e sapori persi o dimenticati; dove forse l’unico appunto è in alcuni casi una sapidità leggermente eccessiva e, nelle Trottole, una salsa che va a coprire e arrotondare, non permettendo al piatto di esprimersi al meglio.

In complesso, si ritrova qui una cucina di alto spessore gustativo e culturale, unica nel panorama meneghino e italiano dove ricerca, studio e personalità vanno di pari passo, cui solo lo spazio di lavoro così ristretto, per lo Chef e la sua brigata, costituisce, in ultima analisi, il limite. Non solo spazio fisico ma anche prospettico di sviluppo.

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“Giovani forchette alla riscossa. In questo spazio di PG, raccogliamo dunque testimonianze, racconti, itinerari e segnalazioni di giovani penne dall’attitudine ‘buongustaia’, che autonomamente hanno trovato affinità con il nostro approccio. Non sarà consentito loro, per ora, di esprimere un voto, ma solo commenti e descrizioni della loro esperienza. Il canale ‘Young Forks’: ai giovani parole e forchette, a voi la lettura”

Novità e certezze

Sui navigli da trent’anni, Al Pont De Ferr è ancora capace di rinnovare, sotto la guida del nuovo chef Luca Natalini – nostra vecchia conoscenza ai tempi di Autem – la propria cucina genuina e raffinata.

 La proposta è semplice, ma tutt’altro che banale: una carta breve prevalentemente di carne che alterna piatti dai gusti rotondi e classici come le cremose lumache alla bourguignonne con spuma di patate all’olio o il piccione cotto nella sua carcassa dal sapore autentico e naturale, a portate dai forti contrasti come l’ottima insalata di anguilla affumicata con aceto di riso. Fiore all’occhiello del menu uno dei signature dish dello chef: la pasta in bianco con vermouth alle prugne, aceto e miele, dove i giochi di acidità esaltano il sapore naturale della pasta. Meno convincenti l’ostrica con tartare di cavallo, dove la carne è poco incisiva, e i dolci non ancora in linea con il menu degustazione.

Ambiente ampio e curato, servizio gentile, ma ancora in rodaggio.

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Una grande cucina in un piccolo bistrot

A due passi dai Navigli, da qualche anno ha trovato casa uno dei bistrot più interessanti nell’ambito della ristorazione milanese. 28 posti è cucina contemporanea interpretata dal talentuoso Marco Ambrosino che, oltre ad avere un’idea ben precisa di cucina mutuata dalle esperienze al Melograno di  Libera Iovine e al Noma di Copenhagen, ha a cuore l’etica del suo mestiere e le sorti del pianeta e, così facendo, va oltre l’idea di cucina fine a se stessa per diventare un progetto di inclusione sociale, un’idea di sostenibilità ambientale nonché una finestra sui piccoli produttori. 

Il locale, discreto e raccolto, è frutto di lavori di ristrutturazione eseguiti dai detenuti dell‘Istituto Penitenziario di Bollate e la Onlus Liveinslums che all’interno del carcere ha avviato un laboratorio di falegnameria, ha realizzato i tavoli e l’arredamento minimal del ristorante.

Ogni due mesi, un crescendo di sensazioni ed emozioni nuove…

Il menu cambia ogni due mesi. Si può scegliere fra 3 differenti menu degustazione di 5, 8 e 10 portate, con la costante presenza in carta di alcuni cavalli di battaglia.

Già le entrée manifestano ciò che accadrà di lì a poco: una combinazione di dolcezze, sapidità e acidità risveglia il palato, che difatti inizia a fremere, e accoglie l’ottimo  Brodo di cavoli e legumi, bevuto con una cannuccia di sedano a fare da consommé alla Verza col suo estratto  fermentato e una cialda di tartufo nero e al Chiajozza, un souvenir del mare, da cui lo chef proviene: crudo di canocchie, cavolo cappuccio, gelato di riccio di mare, olio di pino marittimo, sabbia di carapaci di canocchie. Simile ma già più urbanizzata l’Ostrica alla brace marinata nel suo garum, salmoriglio, rape in conserva, olio al caffè: un piacere per gli occhi e per il palato dove le sfumature aromatiche della brace, l’amaro del caffè e della rapa sono alleggerite dal salmoriglio a rilasciare freschezza. 

È quindi il momento della Palamita con tamari di cicerchie, capperi di sambuco, finocchio di mare, mela cotogna e caviale di cefalo – eccezionale, quest’ultimo – che precede i Bottoni di semola ripieni di fave secche affumicate, estratto di cavoli fermentati, olio di arance amare, foglia di mirto. Lo spunto è interessante, ma la temperatura di servizio (troppo calda) e il supporto non aiutano ad apprezzare completamente il piatto. Sempre la temperatura, troppo fredda, stavolta, è il tallone d’Achille dello Spiedo di agnello marinato nel suo garum.

…e sorprese

 Un Patè di cosce e fegati con polvere di carota fermentata  e una leggera Ricotta di mandorla ed erbe a chiusura, lascerebbero intendere che la cena viri verso i dessert.

Ma è in arrivo una sorpresa, un grande classico di Ambrosino, gli Spaghettini con acqua di orzo fermentata e miso di ceci neri. Senza dubbio un gran piatto: gusto rotondo e grande equilibrio, quasi un pre-dessert. I dessert, tutti nel solco del dolce-non dolce, sono interessanti e sostanzialmente ben eseguiti. Spicca però, per originalità e carattere, il Gelato di miso di tumminia, tempeh di orzo, gel di kombucha di cachi. 

Una bella esperienza in un posto informale dove soddisfare il vostro appetito tanto quanto la vostra voglia di conoscere, e toccare con mano, una cucina mai scontata e sempre sorprendente. E su Marco Ambrosino ci sentiamo di scommettere per una crescita ed evoluzione ulteriore, forse senza i difetti strutturali di una cucina che ne limita, per spazi e ingombri, il talento e le possibilità.

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Una nuova apertura sui Navigli che promette bene, anzi belé

In una zona popolare della capitale meneghina, universalmente riconosciuta come il centro della movida ma a debita distanza dal chiassoso brusio che la caratterizza, si trova Belé, l’ultimo nato della famiglia Pinch, il noto cocktail bar con cui condivide anche la posizione: il Naviglio Grande.

L’apertura risale a Gennaio e, a differenza di tanti altri locali in zona, siamo sicuri che farà parlare di sé anche dopo l’effetto novità, in un crescendo graduale di interesse. Ai fornelli la giovane chef Giulia Ferrara -diplomata all’ALMA con esperienze da Sarri, Ratanà e Al Pont De Ferr– soddisfa, con una brigata di sole tre persone lei compresa, i 60 coperti divisi tra l’interno e il verandato.

La sala, che prende in eredità dal Pinch una bella offerta di cocktail, è gestita da Sergio Sbizzera, già una mascotte per i frequentatori del cocktail bar e ora anche titolare del ristorante.

Spigliato e amichevole con la clientela, mette a proprio agio i clienti in un’atmosfera inizialmente un po’ ingessata, tanto per l’eleganza dell’arredamento quanto per alcuni “inciampi” del personale, prontamente e brillantemente rimediati durante il corso della cena.

Cucina coraggiosa in un contesto turistico

La proposta culinaria del ristorante è incentrata su una carta stagionale, che annovera 4-5 piatti per portata e che si arricchisce di 2 fuorimenu, i quali variano ogni 3 settimane. Il pairing è suddiviso fra i cocktail – il punto di forza del locale – e i vini, proposti in una carta in verità molto poco interessante.

Negli antipasti si scorge la maturità gustativa della chef, che si rispecchia in Sgombro, ciliegie e pistacchi, dove la semplicità di un pesce povero si arricchisce di dolcezza e grassezza e nei Nervetti fritti con crema di yogurt allo zafferano, nel quale i due ingredienti meneghini vengono sgrassati dall’acidità di sedano e cipolle rosse. L’arcinota Salsiccia di Bra viene anch’essa proposta in una versione non banale, in un insolito accostamento al pan brioche, con friggitelli e stracciatella affumicata.

I primi rappresentano sicuramente il primo motivo per tornare: gli accostamenti, per quanto possano apparire sulla carta azzardati, sono quanto mai pensati e calibrati, come nel caso di marmellata di albicocche e ‘nduja, in cui i due sapori principali collaborano alla costruzione di un equilibrio gustativo perfetto.

I secondi rappresentano ad oggi la portata con maggior margine di miglioramento: nel diaframma di manzo e nelle costine di maiale, seppur buoni piatti, traspare meno l’estro creativo della chef, così come nel pollo, sicuramente perfettibile nell’esecuzione ma ben concepito negli abbinamenti a chiusura del piatto.

I notevoli dessert, dai sapori familiari e mai banali nella presentazione e negli accostamenti – come dimostra Pesche, vino e pane – sono un dolce capitolo per chiudere la cena.

Insomma una cucina interessante e frizzante, con ulteriori margini di miglioramento.

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