Ratanà

VALUTAZIONE

Cucina Classica

15/20

PREGI
Una cucina che è la quintessenza di Milano.
La carta dei vini con ricarichi non-milanesi.
L’edificio Liberty tra i prati in fiore e i grattacieli.
DIFETTI
La collocazione di alcuni dei piatti in carta e all’interno del menù.

O, della resilienza

In primavera, da Piazza Gae Aulenti al Ratanà, è tutto uno zigzagare tra i fazzoletti di verde punteggiati dei vivacissimi colori dei papaveri, dei fiordalisi e delle margherite de La Biblioteca degli Alberi, tra le architetture e i cantieri della cosiddetta “Nuova Milano”. Qui, la sensazione è davvero quella di trovarsi nel punto più prossimo al nucleo profondo della città: un habitat che ha introiettato il cambiamento così visceralmente da farne la conditio sine qua non della sua esistenza, della sua resistenza e, non ultimo, della sua prosperità.

Perché è sempre attuale, Milano, e pertanto accondiscendente nei confronti di una trasformazione che è capace di far coesistere, in questo scenario avveniristico, anche una palazzina dei primi del Novecento. È quella del Ratanà, la dimora dove Cesare Battisti ha trovato la sua dimensione professionale ed esistenziale, anch’essa risolutamente avvitata attorno al concetto di resilienza che campeggia, a mo’ di monito, anche sul menù, dove si trova scritto quanto segue: “Adattarsi non significa accontentarsi. Anche l’acqua di un fiume si adatta alle sponde che la contengono, ma non per questo si accontenta: continua a cercare il mare.

La citazione, tratta da un brano di Giulia Bergonzoni, è però anche presagio di una cucina,  quella di Battisti, per cui “il mare” altro non è che la città stessa, che lo chef abita – e di cui è abitato – sin dall’infanzia, trascorsa tra le tentazioni e le desolazioni di via Padova anni ’90.

Il ristorante di Milano

Ratanà, infatti, ha oggi introiettato ciascuno degli stimoli progressisti della “primavera” post Expo e li ha impastati con le nostalgie della Vecchia Milano, che rivive in versione ipertrofica nel risotto omonimo col midollo in osso, la gremolata e il sugo d’arrosto, quasi un’allucinazione tanto potente e filologico, quanto nei mondeghili, attraversati però da un sospetto esotico: ovvero un’affatto ortodossa ancorché piacevolissima speziatura.

Molto coraggioso, come ci fa notare l’amico Gabriele Zanatta, “il punto di sale” sposato da Battisti, di certo più di un punto sopra quello imposto dalla vulgata popolare, e quindi squisitamente retrò. Una scelta, questa, che si rivela in tutta la sua sensatezza in particolare nelle strisce di pasta al ragù d’agnello e rigaglie, dove il supporto della pasta pallida, tumida e consistente, è opportunamente separato dal suo condimento, e rovesciato rispetto alla consuetudine che vorrebbe la pasta sotto e il sugo sopra. Qui, la pasta sormonta il suo condimento e si combina nella forchetta alternando la sacrosanta dolcezza e avvolgenza donata dall’amido con la sugosità saporitissima del sugo, a piacere del commensale. Un tributo al libero arbitrio, insomma, che ritroviamo in tutto il menù, posto che si sappia dove e come collocare le portate.

L’intera esperienza è difatti un agone tra due spinte: quella di piatti rinfrescanti, capaci di riconsegnare il milanese all’efficienza della produttività che la città ancora gli domanda – e che ritroviamo nel riposante ceviche con salmerino alpino e avocado siciliano, nei felici peperoni rossi in carpaccio e nel virginale vitello tonnato con capperi di Salina – e quella più meditativa imposta da piatti che, invece, esigono un periodo di decantazione postprandiale che riguarda, oltre i due primi già citati, anche la terrina di pecora brianzola alle erbe con crostone di polenta di mais rostrato rosso e aglio orsino: un piatto imponente e molto potente, prodigo della concentrazioni caloriche del cibo di montagna e dei suoi umori ovini.

Vivace e stagionale la sezione dedicata ai dolci – ci è rimasta la curiosità di assaggiare nespole e zenzero –  nonché il corposo compendio dedicato agli spiriti a suggello di una carta dei vini gremita di referenze interessanti, a ricarichi più che leali.

La Galleria Fotografica:

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Leila Salimbeni

In famiglia si ritiene che abbia ereditato il palato del nonno Adorno, col quale ha imparato ad amare il vino e a fare colazione con pane, burro e pasta d'acciughe. Perfino le sue prime parole furono parole di gusto: precisamente, il rifiuto di mangiare i biscotti inzuppati nel latte, di cui detestava la consistenza. Una presa di posizione sul mondo, commestibile e non, che dopo una laurea in linguistica la porta a Bologna dove, con una tesi specialistica, decide di applicare la Semiotica Strutturalista alla cucina di Massimo Bottura. Correva l'anno 2010: da allora, non ha mai smesso di scriverne.

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VALUTAZIONE

Cucina Classica

15/20

PREGI
Una cucina che è la quintessenza di Milano.
La carta dei vini con ricarichi non-milanesi.
L’edificio Liberty tra i prati in fiore e i grattacieli.
DIFETTI
La collocazione di alcuni dei piatti in carta e all’interno del menù.

INFORMAZIONI

PREZZI

Menu degustazione: 90€
Alla carta: 70€

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