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Paolo e Barbara

Un pezzo di storia della cucina ligure di Ponente

Paolo Masieri e Barbara Pisani, più semplicemente Paolo e Barbara, sono una delle coppie d’oro della ristorazione italiana. Il loro ristorante, una bomboniera con una ventina di coperti in tutto, ha una storia ormai trentennale e per molti anni è stato considerato, e a ragione, il migliore dell’intera Liguria, nonché una delle migliori cucine di mare d’Italia.

Barbara è una eccellente padrona di casa con il dono innato di far sentire tutti gli ospiti a proprio agio, in questo aiutata da una location intima e accogliente come poche. Sommelier molto capace – la carta dei vini è ricca di spunti di interesse soprattutto sul versante delle etichette naturali – è stata anche allieva di Iginio Massari, e difatti tocca a lei la linea dei dolci. Paolo Masieri, cuoco contadino, come ama definirsi, al rientro da brevi stage da Gualtiero Marchesi e, in Francia, da Bernard Loiseau e Georges Blanc, ancora giovanissimo, fu presto notato e apprezzato dalla critica che non tardò a gratificarlo con importanti riconoscimenti per una cucina che vuole e sa essere diretta, semplice ed essenziale: una cucina in prevalenza di mare e di orto.

Più gourmand che gourmet

Il mare è quello dell’amata Liguria del cui pesce Paolo – che ricordiamo come uno dei pionieri italiani del crudo di pesce – è un riconosciuto esperto. L’orto sono le due aziende agricole a cui si appoggiano: una nella vicina Val Nervia, l’altra a Ospedaletti. Il locale è da sempre “a conduzione familiare” tanto che in cucina lo chef è coadiuvato solo dal figlio Stefano. E resta quella di sempre, incurante del trascorrere del tempo da un lato, ma non scevra dal sentire un po’ il peso degli anni, a cui gioverebbe la ricerca di maggiori contrasti, nonché un aggiornamento delle tecniche per regalare qualche novità o, almeno, qualche emozione in più. Invece, tutto sembra muoversi su binari estremamente scolastici, privi di quel quid in più capace di scacciare la noia e trasformare una sosta semplicemente buona (perché buona, comunque, lo è, sia chiaro) in un’esperienza da ricordare.

Dopo due focaccine – onestamente un po’ tristi – si inizia bene con un tonnetto affumicato maison gustativamente molto centrato, a cui giova l’accompagnamento con l’acidità della prescinsêua. In altre preparazioni, però, abbiamo rilevato qualche disattenzione o difetto di esecuzione, come nel risotto, un po’ in là di cottura e con una nota di limone troppo forte che finisce per penalizzare gli altri (peraltro non pochi) ingredienti, o la tendenza a una spiccata “rusticità” come nel caso degli agnolotti e delle lumache in sfoglia che finisce col prevalere nettamente sulla finezza e sull’eleganza necessarie a certi livelli.

Paolo e Barbara è sicuramente un ristorante storico e, come tale, resta affidabile e concreto. A nostro giudizio, però, necessiterebbe di un cambio di marcia, una rigenerazione dall’interno che possa permettergli di restare al passo con i tempi e, nel tempo, continuare a tenere alto il vessillo della grande ristorazione italiana di mare.

La Galleria Fotografica:

Maison Blanc, una cucina da Highlander nella campagna di Bresse

“Who wants to live forever?”
Pensando all’esperienza ‘Chez’ Blanc, in testa risuona la voce di Freddie Mercury dei Queen, mentre intona la colonna sonora del film “Highlander”.
Sì, perché nel fascinoso e pittoresco villaggio di Vonnas, in Francia, si celebra una cucina immortale. Scolpita nei gesti e nella storia in divenire di questa magica Maison.
Lui, Georges Blanc, è ancora lì. Con spirito immutabile, come la bontà dei suoi piatti.
Chef icona di una dinastia di grandi cuochi. Sguardo luminoso, chioma argentea e tempra d’acciaio, mentre a 75 anni si aggira pacioso per la sala.

150 anni di storia, tra successi, mutamenti e quattro generazioni di cuochi

Un percorso da predestinato il suo, che lo ha visto muoversi con agilità dai fornelli delle navi militari (durante la leva), fino a prendere in mano con classe indiscussa l’eredità culinaria di mamma Paulette e della nonna Élisa Gervais. Lei, la “Mère Blanc”, che assicurò le 2 stelle Michelin al ristorante di famiglia, già negli anni ’30.
Questione di DNA? Poco importa, perché, dopo aver fatto il suo ingresso in cucina (a soli 25 anni), il prode Georges comincia a rimaneggiare e alleggerire con rispetto i ‘cavalli di battaglia’ e le ricette di famiglia. Tesori culinari tramandati dal 1868. Un nuovo stile dunque si afferma: riconoscibile e affinato nella forma e nel gusto. Evoluzione sussurrata con intelligenza, che lo porta negli anni a segnare un’epoca: elevando Vonnas a imprescindibile meta gourmet. Identità propagata con ardore verso la conquista delle 3 stelle Michelin (dal 1981 a oggi) e nell’Olimpo dei ‘Mostri Sacri’ di Francia. Cuochi del calibro di Bocuse, Robuchon, Loiseau, Chapel e Guérard.
Non solo, il suo piccolo villaggio nel cuore della Bresse ha visto sorgere nel tempo nuove strutture e progetti: hotel, cinema, parchi, resort, un’azienda vinicola. Oltre al bistrot ‘Ancienne Auberge’, che sforna piatti in omaggio alla formidabile nonna. Una storia troppo densa e romantica, per essere riassunta in singoli assaggi. Ma che trova comunque nei piatti una corrispondenza energica, piena e vitale.

Attualità classica, dal valore inestimabile

Oggi ai fuochi troviamo Frédéric Blanc, figlio di Georges, ma il valore immutabile di questa cucina non è stato compromesso. Al contrario, è un immenso piacere perdersi tra sapori vellutati, evocativi e confortanti, che riescono a far primeggiare un gusto attuale. Grazie alla padronanza impareggiabile di salse e cotture classiche declinate al moderno. Alla ricerca di materie prime eccezionali. Una tavola senza tempo insomma, che detta ancora il tempo.
Così, dal boccone ghiotto, profondo e iodato dell’Ostrica in gelatina della sua acqua e caviale; si passa in eleganza alle impeccabili Rane con carciofi, rinvigorite dall’acidità di una salsa all’acetosa dalla struttura esaltante. La possanza materica del Rombo in salsa di molluschi, trova dinamicità e freschezza nel tocco sensibile del finocchio all’anice e dello zafferano gestiti al millimetro. L’Animella al burro affumicato con salsa di cipolle e “corona” di patate soufflées è un limpido trattato di succulenza e finezza.

E poi c’è lei, la Poularde de Bresse AOP, che da sola varrebbe il viaggio. Perfetta nella sua opulenza leggiadra e soave. Manifesto della cucina di Blanc, rimarca come la storia di questa tavola abbia un significato inestimabile. Vigore tradizionale elevato alla massima potenza, trasmesso al palato con orgoglio e solidità spiazzanti. Un’esperienza da vivere e contemplare così com’è, senza interpretazioni nostalgiche.
Sorprende infine la pasticceria: incredibilmente tecnica, lieve e dai pulsanti contrasti moderni. Il servizio sfreccia a ritmi da record, narrando una cantina di rara foggia e recapitando in tavola pani e burro da assuefazione.
Forse Georges Blanc non vivrà per sempre come un Highlander.
Ma la sua cucina sì, continua a vivere. Ancora vibrante, autentica e immortale.

Che il mondo della gastronomia, e ancor più nel dettaglio della ristorazione, siano attualmente sotto i riflettori non è che un banale dato di fatto. Come sempre accade, però, il fenomeno presenta oscillazioni notevoli, per cui un ristretto nugolo di chef giovani e meno giovani catalizza su di sé la quasi totalità dell’attenzione mediatica mentre in molti, spesso altrettanto meritevoli, si ritrovano ad annaspare in un immeritato semi-anonimato.
Negli anni passati avevamo avuto modo di parlare, e assai bene, del San Gerolamo di Vercurago quando in questo ristorante d’albergo, a due passi dal manzoniano castello dell’Innominato, operava il duo formato dal giovane ma veterano Stefano Binda e dal figlio dei proprietari dell’hotel, Luca Dell’Orto. Dopo una breve chiusura, con conseguente rimescolamento di carte, Binda si è sistemato nei paraggi al Dac a Trà e le porte del ristorante San Gerolamo si sono da un po’ di tempo riaperte agli ospiti esterni. Dell’Orto, che oltre ad esperienze fresche nelle cucine del St. Hubertus e dell’Antica Osteria del Ponte vanta un passaggio anche in quelle della trattoria Giorgio Bianco di Vonnas, è ora da solo alla guida dell’ammiraglia di famiglia.
Il locale è entrato da pochissimo a far parte dell’associazione Slow Cooking, una piccola realtà con centro in Valtellina e che riunisce un ristretto gruppo di ristoratori accomunati da un’estrema attenzione ai prodotti locali e al recupero di alcune tradizioni quasi dimenticate. Il perfetto riassunto dell’esperienza francese e dell’appartenenza all’associazione per Dell’Orto è un pollo ruspante, di provenienza locale (Galbiate, a pochissimi chilometri), cucinato con patate e funghi all’interno di una sorta di archetipico girarrosto. Il “come una volta” della cottura si completa con una sauce à la crème con una nota di fegato grasso ad impreziosire le carni.
A fare da contrappeso ad una preparazione tanto classica e opulenta c’è praticamente tutto il resto di una carta che si muove fra pesce di lago, carni e ortaggi parlando l’idioma corrente con dimestichezza e proprietà di linguaggio, anche se talvolta i risultati rimangono inferiori alle aspettative per colpa dei dettagli.
L’animella d’agnello con nero di seppia, salsa alle ostriche e lamelle di funghi è un piatto apprezzabile ma penalizzato da una salsa scarsamente concentrata e di consistenza grossolana, nonché da una panatura lievemente troppo spessa.
La crema di broccoli con calamarata, missoltino e burrata rimane un tentativo velleitario di scambiare il mare e l’acciuga con il Lario e i suoi famosi agoni essiccati, assai più intensi e decisamente prevaricanti nel piatto.
Eccellente il salmerino marinato, di mirabile consistenza, accostato a rape e lingua di vitello, e notevole il risotto “fai da te” con mele cotogne, cavolfiore e burro nocciola.
Lo chef ha ancora meno di trent’anni ed è perciò a pieno titolo ancora un giovane: speriamo che il momento difficile non vada a mortificare la buona volontà che questo ragazzo sta mettendo sul campo e gli sforzi economici profusi per mantenere viva una realtà di questo tipo in una piazza difficile come quella lecchese.

Salmerino marinato, rape e lingua di vitello.
390
Crema di broccoli, missoltini, burrata ed eliche di pasta (in realtà ci pare calamarata).
390
Asparagi, limone, Schweppes, carciofi e acciuga.
390
Animelle d’agnello, ostriche, nero di seppia e lamelle di funghi (evidente omaggio alla recente esperienza a Cassinetta di Lugagnano).
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Risotto, cotogne, cavolfiore e burro nocciola.
390
Convincenti i Tortelli liquidi d’ortica, latte di capra e rapanello, malgrado la temperatura a nostro modo di vedere eccessiva del latte, che avremmo visto meglio tiepido che caldo.
390
Asparagi, blu di bufala (bergamasco!), lardo e liquirizia. Esperimento sulle persistenze, non in carta. Da ribilanciare. Elementi eleganti e grevi per un effetto montagne russe più eccentrico che carico di effetto.
390
Guarda, papà, un pollo!
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Petto o coscia?
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Facciamo tutti e due!
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Caffè e camomilla, praticamente il dilemma dell’insonne: azzardato ma centrato.
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Terrina di mele ed ananas, gelato al cardamomo, salsa al corbezzolo. Ottimo.
390
Un francese con la puzza sotto al naso. Se siete curiosi rispetto al vino lasciatevi condurre fuoricarta e troverete molti sfizi come questo.
390
390

Blu e Alta Cucina: un gioco a due senza soluzione di continuità.
Le variazioni di blu sono però infinite.
Perché quando parliamo di classico, apriamo un libro dalle mille e più pagine.
Blu come la cucina senza tempo dell’Ambroisie: inarrivabile eleganza firmata Pacaud, finezza cittadina della capitale del mio cuore.
Blu come Vonnas, la campagna, la vigna, la terra, la gente che rende vivo questo posto. Blu come la rustica potenza di Georges Blanc, l’uomo di Vonnas, il riferimento.
Immutabile Blanc: la sua Volaille in Salsa è tra i 20 piatti da non perdere nella vita di un nomade della forchetta.
Frequentatori abituali di questa tavola narrano della millimetrica immutabilità di questo piatto: semplicemente perfetto, ieri, oggi, domani.
No Signori, questa cucina non è ancora morta. Questa cucina non può morire perché non ha un tempo.
Potrei travestirmi da matematico, e magari fare medie improbabili tra antipasti, portate principali e dessert. Ma non avrebbe senso. Non ha senso qui.

Come non ha senso, mai, buttare il naso solo nel piatto. Ma questo non è né lo stile né l’idea di comportamento del nostro gruppo.
Date a Blanc il voto che volete, ma venite almeno una volta a Vonnas. E’ una necessità.
Lui rende omaggio alla sua gente con piatti dalla semplice decifrabilità, e la sua gente rende omaggio a lui, facendo girare questa maestosa macchina del cibo.
E’ giusto così, i 90 coperti giornalieri richiedono questo.
Ma niente sconti sulla materia prima! No, no, solo il meglio a queste tavole.
Perché non gioire di cotanta tavola? La tradizione ha forse bandiere?
Lo ha capito anche il nostro Massimo Nazionale: le tagliatelle perfette, i tortellini direttamente dalla pentola. Sono omaggi alla propria terra che tanti grandi cuochi sentono il dovere di fare.
Noi godiamo di queste nostre perle, godiamo dell’alta cucina che sublima la trattoria.
Qui è uguale, la trattoria Giorgio Bianco è al vostro servizio, per regalarvi qualche ora di puro piacere. Gourmand? Gourmet? Non so. Ma so che è piacere.
Uno sguardo alla carta dei vini per sognare, e pazienza se alcune delle etichette da sogno non sono più disponibili in cantina. Pazienza perché il sogno è ancora possibile, si chiama Clos de Vougeot Leroy e spegne 46 candeline. La storia di un territorio in 750 ml di emozioni: questa è vita, quella che mette la pelle d’oca al solo ricordo.
Tutto questo è possibile da Georges Blanc, inestimabile valore aggiunto di questo scampolo di mondo.

Il benvenuto della cucina

Astice confit al Vin Jaune, ravioli all’acetosella, spugnole e punte di asparagi

La Volaille de Bresse con salsa al foie gras e champagne, royale di fegato al carciofo, wafer d’aglio dolce e Crepes Vonnassiennes


Formaggi


Capriccio esotico: intorno al mango e all’ananas confit, un cremoso di erbe e sorbetto 4 fiori


Clos de Vougeot 1966 Leroy

390

Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione Ristorante

Mi piace rischiare nella vita. Non avrei scelto di fare l’autonomo prima ed il titolare oggi. Riesco a convivere bene con l’aleatorio, l’incerto. Ma anch’io, qualche volta, ho bisogno di confortanti certezze. Di una carezza, di un seno di donna accogliente, di un abbraccio affettuoso e sottile, come un foulard di seta che ti sfiora il viso. Sapere cosa ti aspetta, essere certo di quello che troverai. Ed essere immensamente felice, quando te ne andrai, perché il ricordo rimarrà con te, almeno un paio di giorni, il tempo di smaltire quel persistente sentore d’aglio. Che ti lascerà, solo, a goderti il post prandiale in pace, senza nessun disturbo al tuo fianco, e chi ne avrebbe il coraggio 🙂 (altro…)