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Sine

La gastrocrazia di Roberto Di Pinto

Leggermente nascosto in una rientranza di viale Umbria, quasi ad angolo con Corso XX Marzo, si trova Sine, “il ristorante gastrocratico” di Roberto Di Pinto, chef umile ma ambizioso che, dopo aver collezionato negli anni esperienze prestigiose all’estero e in Italia, approda prima da Gennaro Esposito a la Torre del saracino, e poi al Bulgari di Milano.

Una location elegante e accogliente caratterizzata da un arredamento semplice ma contemporaneo, fatto di luci soffuse e mise en place minimal. Su una parete della sala principale troneggia una scritta al neon rosa fluo che recita “Suonna, ca sò suonne d’oro”,  letteralmente “Sogna, che saranno sogni d’oro”, una frase che gli ripeteva spesso il padre, emblema del sogno coronato, proprio qui, dallo chef napoletano: proporre una cucina capace di arrivare a tutti, partendo da materie prime di qualità attraverso una proposta gastronomica creativa che punta all’essenzialità. Una proposta semplice ma ben costruita, fatta di rivisitazioni di grandi classici nelle quali mescola tecnica e passione, tradizione ed innovazione, abbinando sapori mediterranei ed ingredienti asiatici.

La forma sulla sostanza 

Abbiamo deciso di provare il percorso degustazione ideato dallo chef, un viaggio articolato di sapori e sensazioni, rappresentativo della sua idea di cucina essenziale e creativa, incentrata su preparazioni semplici e gusti mediterranei. Nonostante le premesse, però, alcuni piatti non ci hanno convinto del tutto. In alcuni casi la forma ha prevalso sulla sostanza e, in generale, ci saremmo aspettati più equilibrio fra i sapori, spesso monocordi.

Per iniziare ci viene servito in una tazza da tè un gazpacho di verdure accompagnato da alcune amuse-bouches (degna di nota la crème brûlée al fois gras, pepe di timut e polline d’api, deliziosa) e l’immancabile pizza fritta al nero di seppia, farcita con zucchine trombetta, palamita marinata, mandorle e basilico. Leggera e molto saporita. 

Proseguiamo con gambero rosso, pesca, crème fraîche e caviale, piatto delicato e piacevole. A seguire ci viene servito su un letto di pietre uno spiedino di lumache e cipolla alla brace condito con salsa di coriandolo e ostrica, forse il piatto meno riuscito della serata sia per via della cottura che della sapidità, del tutto assente.

Non mancano gli omaggi alla cucina milanese, come il risotto allo zafferano tributo a Gualtiero Marchesi, mantecato a regola d’arte, e a quella emiliana, coi cappelletti ripieni di datterino giallo liquido, salsa di burrata e nove variazioni di pomodori. Un tripudio di consistenze, partendo dalla pasta fresca, cotta al dente, come vuole la tradizione partenopea.

Ci viene poi servito personalmente dallo chef un piatto a lui caro, “la cotoletta del figlio ultimo“, ricordo della sua infanzia: piatto interessante che, però, non ci ha conquistato a causa della panatura,  troppo morbida perché completamente affogata nell’aceto di mele e per la consistenza della carne, leggermente stopposa. Buone, invece, le verdure di contorno. 

A conclusione della degustazione arrivano i dessert, che confermano la grande cura dello chef nella presentazione dei piatti: Eruzione di Limone, uno scrigno vulcanico di cedro bruciato che racchiude un gelato alla polpa di cedro, crumble di limone, meringa al lime, yuzu, gel al limoncello, olio extravergine d’oliva e basilico, e l’Amuleto Napoletano, un cornetto rosso simbolo per eccellenza di buon augurio e protezione. Entrambi piacevoli ma non eccezionali. 

Servizio attento e accogliente, a tratti un po’ lento. Il conto, infine, ci è sembrato più che corretto rispetto alla qualità dell’offerta.

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A tavola nella Venezia nativa

Una costellazione di 62 isole compone l’arcipelago della Laguna più famosa del mondo: oltre a Venezia, Santa Cristina, Sant’Erasmo, Mazzorbo, Torcello, San Michele, ciascuna con la sua anima, ciascuna con la sua storia. Mazzorbo è legata a Burano da un ponticello, lo stesso percorso in passato da chef del calibro di Paola Budel e Antonia Klugmann. Un gineceo culminato, e forse anche superato, da Chiara Pavan che, qui, officia oggi con la complicità, nella vita come dietro ai fornelli, di Francesco Brutto.

Sorprendente la sinergia che lei prima e, poi, la combo dei due ha instaurato con Matteo Bisol, tenutario non solo del progetto fisico ma anche di quella visione di recupero di una Venezia nativa che qui si ritrova già nel nome, Venissa, oppure Venisia o Venusia, come canta il poeta Andrea Zanzotto. E che si concretizza nel coinvolgimento attivo degli abitanti dell’isola, che nei ventimila metri quadri del parco agricolo cinto ancora dal muretto medioevale – clos, per gli amici –  vantano orti dove, oltre alle coltivazioni, crescono spontanee tutte le erbe della laguna: salicornia, salsola soda, santonico, erba stella e così via.

Etica ed estetica in cucina

Un progetto di spessore e non solo, a tavola come anche nella vita, considerando che la sua madrina vanta trascorsi accademici in filosofia, indirizzo estetico. E proprio questo impianto, che non è solo dunque etico ma anche profondamente estetico, è alla base di una filosofia che sarebbe piaciuta a Gualtiero Marchesi e non solo per l’encomiastico spaghetto all’oro, ma anche per il suo legame viscerale col territorio, lui che presagiva un futuro culinario in cui l’effetto campanilistico della cucina italiana si sarebbe moltiplicato fino a trasformare il chilometro in metro zero.

Il menu è, quindi, quanto di più mutevole si possa immaginare, cambia quotidianamente e quotidianamente mette alla prova i suoi interpreti, chiamati a misurarsi con la fluidità di gradienti che investono non solo le componenti organolettiche degli alimenti ma anche i loro cromatismi: ed ecco che tutto è verde, in questo preciso momento dell’anno, e verde è anche lo spirito che anima ogni piatto abitato da una superba immediatezza di gusto che sa, però, anche prendere una traiettoria ascensionale e  incalzante nel corso dell’intero menù.

Ove spiccano ravioli di artemisia, con miso di pinoli ed erbe, dove il  carboidrato lascia al vegetale il ruolo del protagonista, o i mitici (nel senso di mitologici) spaghetti all’oro, intinti nel succo della Dorona acerba, varietà autoctona dell’arcipelago della Venezia nativa.

Un leitmotiv assai lieto e fecondo, questo della Venezia nativa, e tutto avvitato intorno ai frutti di Mazzorbo che si corona in un gioco finale – il ghiacciolo di Dorona acerba e liquirizia – vessillo di un palato tanto sensibile quanto peculiare: che non ha bisogno dei fuochi d’artificio per stupire.

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Il bistrot in serie A

Il Calandrino si trova al centro di un triangolo magico per tutti i buongustai itineranti: dietro l’angolo (letteralmente) si cela infatti la casa-madre Le Calandre, di fronte troviamo la gastronomia gourmet In.gredienti e, al centro, lui, il bistrot gourmet supervisionato da Laura Alajmo, terzo elemento di uno splendido trittico completato dai fratelli Raffaele e Massimiliano.

Il locale si presenta in maniera direttissima, con arredi minimali ma assai curati, nel quale assaporare le molteplici leccornie firmate Alajmo, in vari momenti della giornata, dalla colazione alla cena. È una dichiarazione d’intenti precisa e sensata, che intende allargare lo specchio già ampio dell’universo della famosa “J” a un pubblico curioso di assaporare, a prezzi vantaggiosi, la filosofia che anima questa famiglia.

Ciò tuttavia potrebbe indurre a credere che la proposta veleggi su un tono minore rispetto al tristellato sito a pochi passi; e non si potrebbe cadere in errore più grande. Come detto per gli altri locali della costellazione omonima, la grandezza di questa realtà culinaria sta nel dissimulare ciò che è complesso per renderlo immediato e appetibile a tutti, garantendo il fine ultimo di una degustazione: l’universalità del piacere e la soddisfazione del palato, che il Calandrino eleva all’ennesima potenza. 

Rotondità, morbidezza e pulizia, in un solo boccone

La proposta presenta gusti estremamente rotondi, opulenti, morbidi ma intrisi al contempo di una precisione e una pulizia a dir poco irresistibili. Il tutto non dimenticando il piacere di giocare sulle consistenze, in maniera sottile e quasi impercettibile.

Un esempio ne è la meravigliosa focaccia soffice di riso nero con sfilacci di fesa di tacchino e salsa tonnata, nella quale le morbidezze della crema e della carne sono state completate dalla croccantezza della crosta della focaccia, a tratti sorprendente.

O ancora gli spaghetti aglio, olio, peperoncino con melanzane fritte, piatto che da solo meriterebbe il viaggio: perfettamente equilibrato tra la dolcezza delle melanzane e la lunghezza del peperoncino, la portata ha trovato nelle briciole croccanti un coronamento per il palato non meno che meraviglioso. E la purea di melanzane, a parte, ha completato un quadro già di per sé ottimo, invogliando plurime scarpette per la gioia del commensale (e della cucina).

Per ciò che concerne i dolci segnaliamo la crostatina con crema chantilly, passata di pesche e sorbetto di amarene, in cui si è palesato un bel contrasto tra la dolcezza del sorbetto e la lieve acidità della passata di pesche assieme a una crema chantilly tanto precisa nel gusto quanto delicata (per non dire evanescente) nella consistenza.

A causa dei noti e tristi eventi post-Covid, il menu ha subito un leggero snellimento, togliendo (per il momento) la degustazione e lasciando le portate più rappresentative alla carta. Ciò non ha naturalmente intaccato di una virgola la qualità dell’esperienza.

Chiudiamo con una nota sul servizio, vero e proprio marchio di fabbrica degli Alajmo, in cui informalità e spigliatezza hanno messo in risalto la professionalità e la serietà dei giovani ragazzi in sala.

Bravi!

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Un tuffo nel Mediterraneo

Le occasioni per immergersi nella bellezza assoluta, quella che normalmente non fa parte del nostro vivere quotidiano e la cui semplice contemplazione di default lenisce amarezze ed eleva lo spirito, non sono così facili da individuare. Un pranzo o, ancora meglio, una cena al Caracol, però, rappresenta a buon diritto una delle migliori opportunità per immergersi in un così salvifico balsamo.

Lo spettacolo che si presenta davanti agli occhi, col mare aperto e Procida e Ischia che quasi sembra di toccarle e Capri in lontananza è di tale intensità che lo chef Angelo Carannante ci perdonerà di averlo descrittivamente anteposto alla sua cucina di mare.

Quest’ultima merita, però, altrettanta attenzione: solida, ben eseguita, mediterranea fino al midollo, rispettosa della materia prima presentata non senza qualche sapiente tocco da altre culture gastronomiche sono la dimostrazione dell’abilità di uno chef che vanta nel curriculum anche il Marennà di Paolo Barrale e la Terrazza Bosquet di Sorrento.

Un cucina dalle idee chiare, dove accanto a un elemento principale  si articolano nel piatto accompagnamenti che, a vario titolo, sono scelti per completarlo: una marinatura nel caso del tosazu con battuto di gambero; una salsa al lemongrass a corredo del calamaro arrosto; una delicata maionese di pesce a guarnire la rana pescatrice… il tutto senza particolari gradienti di acidità o contrapposizioni di sapori e all’insegna di una leggibilissima godibilità e dello star bene, che è poi l’obiettivo principale di ogni pasto fuori casa.

Tutto questo, davanti a un panorama che rifocilla anima e corpo in una comunione estetica senza pari.

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“La concessione francese”

Nella sterminata offerta gastronomica di Shanghai una posizione di rilievo viene occupata, in misura sempre maggiore, dagli avamposti della cucina occidentale. Una delle “ambasciate” del gusto più nobili e affermate è quella del sommo Pierre Gagnaire, ospitata nel vivace quartiere di Yueyang, all’interno del Capella Shanghai, uno degli hotel di design più belli della città.

Qui, oltre al nome del grande chef, altrettanto degna di attenzione è apparsa l’offerta del pranzo, che consta di due piatti a 328 yuan (circa 42€) o tre piatti a 378 yuan (circa 48€); una proposta in cui, a  stagliarsi netta, ancor più dello stile poliedrico e originale, è la solida e impeccabile classicità che rappresenta l’altra anima di questo immenso chef, il quale offre la possibilità di scegliere dalla carta alcune preparazioni che, sebbene meno appariscenti delle celebri variazioni sul tema gagnairiane, non ledono minimamente la sensazione di appagamento. Inoltre, la maggiore essenzialità dell’offerta sottolinea in modo ancora più efficace, crediamo, il valore di questa tavola presidiata da Romain Chapel, alter ego a Shanghai dello chef francese.

Così sarà possibile apprezzare la grandezza di una salsa tirata come si deve, la perfetta cottura di una costoletta o la consistenza da manuale di un babà che resterà impresso nella memoria.

Il tutto in un ambiente ovattato, un’autentica enclave francese dove la distanza dalla casa madre viene annullata e dove concedersi 90 minuti di relax, nella splendida e tumultuosa metropoli cinese, appare un’irresistibile opportunità.

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