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Il Desco

A pochi passi dall’Arena, la cucina neo-classica e verticale di Matteo Rizzo

Il Desco, con Matteo Rizzo al timone dopo il passaggio di consegne del padre Elia, è ormai una realtà consolidata nel panorama veronese. E non era facile prevederlo visto che la grandezza dei padri è, per i figli, spesso più fardello che leva di lancio. Complice lo stile culinario, di stampo neo-classico, Matteo riesce nell’impresa di dare vita a una cucina più strutturata, più verticale, più composta, attualizzata mediante un lavoro di lima di michelangiolesca memoria che non rinuncia, però, ad affondare nel gusto: la stessa urgenza che aveva il padre, oggi col prezioso contributo di esotismi, lambiti per mezzo delle spezie, e verticalità raggiunte mediante l’utilizzo, edotto quando non vertiginoso, delle acidità.

Così accade nel Salmone fondente con crema di capperi e polvere di caffè dove, a risultare interessante, è soprattutto per la texture del salmone e il gioco “torrefatto-salato” che ne deriva dall’abbinamento, di alajmesca memoria, di capperi-caffè. Colpisce poi un piatto di passaggio – Capesante scottate, gazpacho di anguria, pomodorini ed erbe aromatiche – talmente preciso da ambire a una collocazione più importante nella sintassi del menù pur nell’esattezza della sua ubicazione odierna, ovvero quella di preparare al piatto successivo: Scampi fritti con insalatina aromatica all’aceto di lamponi che, è pur vero, si tratta di una rivisitazione che stabilisce più di un legame, un dialogo, si direbbe, col super classico delle origini

Si prosegue col Risotto Torba, Cipolla e Pomodoro che del talento di Matteo rappresenta la acme, giacché si issa sullo straordinario connubio tra la torba, la dolcezza del pomodoro – che ha, a volte, risvolti tartufati – e la dolcezza della cipolla: un piatto semplice eppur superbo, tutto centrato su sottili, subliminali concordanze aromatiche. Più gustative, invece, le concordanze sulle dolcezze, in toni e sfumature diverse, del Baccalà mantecato e cipolla rossa caramellata alle erbette e liquirizia: anche qui siamo al cospetto della rivisitazione di un classico di cui riprende sia il concetto “tradizionale”/”tipico” del piatto sia l’esplicito omaggio al passato, insistendo ancora una volta sull’esatta collocazione all’interno della successione dei piatti giacché questo baccalà funge, precisamente anche se parrebbe contro-intuitivo, da pre-dessert.

Si tratta, insomma, di una cucina che, oltre che pratica, è anche mitica, nella costanza con cui rimanda all’archetipo, e che lavora sottovoce, persuadendo profondamente.

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Il buen retiro di Carlo Cracco nel Golfo del Tigullio

La residenza estiva di Carlo Cracco non poteva che trovarsi a Portofino. Lo Chef, infatti, benché veneto di origine, ha finito per incarnare, nel corso della sua carriera, molte cose, tra cui la città di Milano di cui rappresenta l’estensione di un’italianità mercuriale, colta e cosmopolita, la stessa che colloca a Portofino la sua seconda casa al mare, o la raggiunge per celebrare gli anniversari più importanti. Ma questa storia, tuttavia, è anche una “fenice”, giacché rinasce dalle ceneri di quello che già fu il Pitosforo che, negli anni Cinquanta, attirava il jet set nazionale e internazionale nel Golfo del Tigullio, sempre per merito della capacità della famiglia Vinelli d’interpretare l’aire du temp. Cosa, questa, che fa magnificamente anche oggi affidando a Carlo Cracco, da luglio 2021, il timone della sua storia contemporanea. 

Qui, ogni elemento della natura è racchiuso in un ambiente diverso: due terrazze e un pergolato al sole, come vuole l’immaginario ligure; la roccia in cui è incastonato, invece, il bar, con l’imponente bancone a ferro di cavallo; ultimo ma non ultimo il mare che, oltre a dominare ogni affaccio, è anche l’elemento che abita la sala da “dentro”.

Quanto al menù, bisogna premettere che la brigata di Cracco Portofino è orchestrata, e ottimamente, da Mattia Pecis: giovanissimo talento – classe 1996 – Mattia è nato sotto il segno di Cracco dove approda nel 2015 dopo aver fatto il periplo delle migliori cucine dello Stivale. Ma è precisamente a Portofino che Pecis trova la sua casa contemporanea, introiettando lo spirito del tempo mediante un uso centrale dell’elemento vegetale, che diventa il proprio topos di riferimento: siamo pur sempre in Liguria, del resto, benché pied dans l’eau e, così, questo regno viene ritratto in ogni piatto, quasi come fosse un trompe-l’œil, in tutto il suo nitore, la sua intima fragranza, la sua turgidità caduca e, pertanto, preziosa. Ne è un esempio, e lapalissiano, “L’orto di Iva“, ovvero un segmento di porro cotto sotto la creta di cui la consistenza, croccantissima, magnifica la commovente freschezza. Un vegetale che, in tal guisa, assurge all’importanza di una carne complici alcuni passaggi come il bel servizio al guéridon e l’uso del fondo che, seppur vegetale, è profondo come fosse a base di carne, che ricorda pure nella masticazione. Siamo, dunque, al cospetto di un clou, che tale deve apparire sia esteticamente che gustativamente. 

Quanto al mare, esso si fa veicolo per la tradizione come accade nel bel Cappon magro cui, pure, avrebbe giovato, a corroborare, un giro d’olio più generoso o di salsa verde. Sempre in termini di eloquenza, e di Zeitgeist, si fa notare anche lo Spaghettone con estratto di amarena, scampo crudo e provola affumicata: non è la prima volta, infatti, che a uno spaghetto viene demandato il compito di introiettare un frutto, o l’essenza dello stesso, come a dire che buona parte dell’avanguardia gastronomica italiana possa passare proprio tramite un veicolo trasversale, e versatile, come la pasta: la nostra pasta nazionale.

Il menù, comunque, prosegue spedito, senza inutili complicazioni, servendosi dell’assist di un Leitmotiv importante: quello, appunto, dell’elemento vegetale. Ciascun piatto, infatti, è vestito e avviluppato da una salsa, una laccatura, un gel, un brodo, un fondo, sempre di verdure, capace di creare dinamiche gustative costantemente differenti ed evocando suggestioni da mondi lontani – vedi il Ramen – o vicini, se non vicinissimi come accade nel caso del pesto nel golosissimo Collare di ricciola con le verdure.

Anche stavolta, insomma, Carlo Cracco – anche qui a Portofino – ci regala un’altra grande prova d’autore, nonché la riprova che la cucina altro non è che un altro modo, alla stregua di ogni arte, di interpretare lo spirito del proprio tempo e del luogo in cui dimora.

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Nostrano di Stefano Ciotti: una nuova maturità

Alla soglia dei 50 anni Stefano Ciotti ha in sé uno spirito e una energia unici. Rimane l’eterno giovane folletto di sempre, con grande vitalità e piglio veloce, ma contemporaneamente acquisisce la calma e la determinazione condita da un pizzico di concreta stabilità tipici della maturità. E non esita a mettersi ancora in gioco, rinnovando il locale e investendo fortemente sulla brigata di cucina e sala, per porsi e lavorare per obiettivi ancora più ambiziosi di oggi. Il cuoco romagnolo, ormai marchigiano di adozione, non si ferma un attimo e, in questi momenti di difficoltà, rilancia e con grande grinta, determinazione e fiducia nel futuro spinge sull’acceleratore per raggiungere nuovi traguardi.

Ecco quindi che al nuovo Nostrano la ristrutturazione della sala, ancora più fine ed elegante di un tempo e con molti coperti in meno, segue anche il rafforzamento del team di sala, giovane e dinamico nonché molto preparato, e la spinta su una cucina che riesce a crescere e a stupirci ancora.

Una cucina più matura e raffinata di un tempo

Che la cucina di Stefano Ciotti fosse buona e golosa non è un mistero: lo è sempre stata. Non ha mai rincorso le mode stravaganti di sapori esterofili, fermentazioni, erbe e profumi strani e ricercati. La cucina del Nostrano è costruita su solide basi italiane, di gusto e persistenza, con uso di salse e intingoli per quel che è necessario, con l’impiego di spezie rigorosamente italiane. Se dovessimo pensare a un principio ispiratore lo porremmo a metà strada, stilisticamente parlando, tra un Mauro Uliassi e un Niko Romito di qualche anno fa. Concentrazioni ma gusto, persistenza ma golosità. Il tutto condito da italianità profonda, che significa centralità del prodotto, uso di erbe tipiche della nostra cucina, intingoli in accompagnamento a golose preparazioni di base.

Il benvenuto dei Pomodori al Gratin è un concentrato ed un emblema di questo concetto. Goloso, primordiale nella sua intensità gustativa, ma anche elegante ed equilibrato. Così come Cialda di occhi di seppia, trippe di pesce, menta, finocchiella che è anch’esso l’emblema del concetto della cucina del Nostrano. La solida partenza viene confermata da piatti come Scampo tostato, conditella, cetrioli, kiwi e Pappardelle ripiene di cacio e pepe, calamaretti, cannelli, fave per terminare con la splendida Costoletta di agnello con il secondo servizio della sua coratella. Splendidi i dolci, con particolare menzione per Fiore di robiola, frutti di bosco, granita di ribes, latte tostato, mandorla con l’uso di un fiore di robiola ricercato dal cuoco con attenzione nei dintorni e splendida la presentazione del teatro rossiniano, originario di Pesaro, che introduce l’ottima piccola pasticceria.

Un ristorante che saprà raccontare a lungo le storie, più o meno importanti, della città di Pesaro.

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La villa neoclassica trasformata in relais di lusso

La ristorazione di alta qualità oggigiorno non può prescindere dal mecenatismo di famiglie e gruppi economici di grande solidità. Le grandi catene alberghiere internazionali sono sicuramente le prime realtà che contribuiscono a sostenere questo incredibile settore, ma una peculiarità per lo più italiana riguarda invece un gruppo di famiglie storiche, impegnate nell’imprenditoria d’avanguardia, che poi per passione e per amore per il bello e per l’accoglienza sostengono realtà che consentono a più o meno giovani talenti di esprimersi e crescere. Questo è il caso della famiglia Bucci, presente e leader da generazioni nell’industria tecnologica mondiale, che ha base a Faenza. Il padre degli attuali eredi Bucci, Massimo e Stefano, negli anni ’50 ristrutturò l’antica villa neoclassica Abbondanzi che i due fratelli integrarono e completarono nel 2004 con la sistemazione degli annessi edifici agricoli e del vasto terreno circostante, costruendo e ultimando un relais di campagna di grande qualità e fascino. Il parco è anche abitato da un gruppo folto di fenicotteri, da cui il nome del ristorante gourmet dell’albergo – il Fenicottero Rosa – dove Martina Bucci, attuale direttrice della struttura e figlia di Massimo, dirige un luogo di grande fascino con camere, suites, piscine e spa, oltre a un parco secolare immenso, e molto suggestivo.

Una cucina di impronta elegantemente pariniana

La ristorazione ha un ruolo fondamentale per la struttura, lo testimoniano i due ristoranti presenti, il Cinque Cucchiai per una ristorazione più tradizionale e informale, seppure di elevata qualità, e il ristorante gourmet il Fenicottero Rosa. L’executive Chef del relais e lo Chef del ristorante gourmet è Alessandro Giraldi, giovane cuoco (34enne) con esperienze al Noma di Copenhagen e una lunga permanenza alla Trattoria del Nuovo macello di Milano. Giovane e a capo di una brigata di giovanissimi, dinamici e motivati cuochi. Che splendida sorpresa questo ristorante e la sua cucina, che ci ha davvero conquistato con la sua eleganza e la sua personalità.

Il cuoco Giraldi ha una impronta che definiremmo pariniana, aggettivo coniato per significare che l’uso di contrappunti, principalmente erbe e spezie ma non solo, sono molto affini alla stilistica di Pier Giorgio Parini. Con una grande personalità il cuoco ci ha intrigato con piatti come Sogliola, zucchine, arachidi e caffè di cicoria o come l’equilibrato seppur contrastato Spaghettino freddo, ostrica, crescione e caviale così come lo splendido Cervo, pesca, fagiolini e rosa. Una cucina con un uso delle sapidità leggere, che danno grande spazio ai sapori e agli allunghi naturali, che rende il tutto davvero molto elegante.

Unico appunto alla cucina sui dolci, decisamente sottotono rispetto alla componente salata, seppure di livello. Il servizio, attento, giovane e molto presente ed entusiasta, va leggermente rimodulato sull’uso della posateria, a tratti non adeguata ai piatti presentati. Dettagli, sia in cucina che in sala, che se ben sistemati potranno elevare ulteriormente la già ottima valutazione espressa.

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La maturità come segno di libertà 

Riccardo Agostini ha varcato la soglia dei 50 anni proprio in piena pandemia. Eppure al Piastrino da cui, dobbiamo essere onesti, mancavamo da tanto tempo, la sua cucina ha subito un’ulteriore crescita: un impulso, crediamo, nella direzione della libertà stilistica. In particolare, ci pare si sia fatta più sottile, raffinata, eclettica, pur nel rispetto della godibilità e della orizzontalità di gusto che l’ha sempre contraddistinta.

L’uso di erbe, di spezie autoctone auto prodotte, di intingoli e di concentrazioni ha donato dunque slancio e apertura, non solo nella direzione dell’intensità ma anche nella lunghezza e nella profondità: merito delle erbe, che riportano spessissimo e in molte preparazioni l’effetto liquirizia, ossia una lunghezza balsamico-erbacea che allunga e rende intensi, e ancora più precisi, i sapori primari di ciascun piatto.

È quello che accade nel Riso Carnaroli, cipolla dolce, midollo e polipodio, emblematico, o negli Asparagi grigliati, uovo,  aringa e sesamo nero, così come nel Piccione e finanche dell’Anguilla. Per non parlare, poi, del dolce: quel Foglie e foglie, mandorle e Chartreuse di pariniana reminiscenza dona una freschezza e una balsamicità che solo la grassezza elegante della mandorla interviene a smorzare in maniera egregia e puntuale. Ottimo e, soprattutto, goloso, un piatto quasi interamente vegetale: Cavolo alla brace, latticello e caviale, elegante preludio e persistente partenza del menù degustazione che abbiamo scelto.

La sala è precisa e puntuale: un orologio svizzero capitanato da Claudia, compagna nella vita e di questa avventura dello Chef di Pennabilli. In estate vi potrà anche capitare una serata fresca e corroborante come la nostra perché, a queste latitudini, il clima non è quasi mai eccessivamente afoso. Il consiglio è quello di percorrere il tortuoso e sinuoso tragitto che vi accompagna qui, ed entrare nel regno di una cucina e di un ristorante che merita senz’altro la massima attenzione.

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