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Mastrosasso Torricella

Il nuovo passo della tradizione bolognese, oltre i colli di Savigno

Se fosse un personaggio Marvel, Irina Steccanella potrebbe essere ‘Rogue’. Caparbietà combattiva, coraggio e animo curioso. I cultori dei comics perdoneranno l’azzardata citazione, ma il carattere della chef di Mastrosasso Torricella di Savigno evoca un insolito mix tra l’eroina mutante e spigliata degli X-Men e una moderna Giovanna d’Arco versione culinaria. Riflessiva e scrupolosa, ma anche graffiante e capace di ascoltare il proprio istinto con emotività sincera.

Un percorso, il suo, legato indissolubilmente al fronte tradizionale, dove è stata in grado di disfare e ricucire tutto per poi trasmetterlo al futuro con un pizzico di spirito ribelle e di sana ambizione. Così, con scaltrezza da cuoca indomita e tenace, Steccanella ha saputo ritagliarsi un ruolo di autonomia espressiva, attingendo nozioni, metodo e strumenti dai cuochi/maestri con cui è entrata in contatto. Conservando sempre capacità di adattamento e intraprendenza.

Apprendistato e formazione senza sosta al servizio della qualità

Dagli albori dell’Osteria Vini d’Italia a Bologna, sotto l’apprendistato tecnico di Massimiliano Poggi, poi in rapida successione alla corte di grandi chef italiani: lo stage in Francescana da Massimo Bottura; il progetto di Lino/Da Panino condiviso con Giuseppe Palmieri; il continuo scambio di suggestioni e idee con Niko Romito del Reale CasaDonna. Una formazione in costante movimento, che ancora oggi porta Steccanella a mettersi in gioco ricercando nuove sfide e nuovi stimoli. Come dimostra l’attuale visita da ‘rinnovata stagista’ al Kresios di Giuseppe Iannotti, durante il periodo di ferie.

Tra i vari pellegrinaggi lungo lo Stivale, Irina ha scelto di rimettersi all’opera nel suo territorio di origine, trovando base presso il ristorante della struttura Mastrosasso Toriccella di Savigno. Un suggestivo avamposto, a due passi dal celebre Amerigo, dove ha ripreso in mano il fuoco della tradizione, applicando tutte le conoscenze apprese e assimilate durante il suo tour esperienziale. Chiamatela pure ‘trattoria moderna’, ma il concetto ben appurabile a tavola è quello di una cucina classica, schietta e territoriale. Ritemprata con levità, pulizia e scrupoloso rispetto del prodotto, in particolare in esecuzioni e cotture.

Tecnica e leggerezza, al servizio dei grandi classici

Uno sguardo al menu, mette subito di buon umore: il rigore emiliano di paste fresche, salumi ed esercizi casalinghi, che nel contesto estetico del locale si intonano alla perfezione.
Il risultato però può facilmente sorprendere, in particolare in piatti minimali, come i succulenti porcini aglio, olio e peperoncino, dal morso elegante e carnivoro; o nell’assolo vegetale dell’avvolgente verza e patate, dal chiaro omaggio ‘Romitiano’. Guascone e gagliardo il tosone fritto con friggione bolognese, che non sottrae gloria alle splendide tigelle calde con battuto di lardo e rosmarino servite in rinforzo del pane.

Impeccabili i tortelli verdi ‘balanzoni’, ripieni di ricotta e mortadella, vestiti con un estratto di salvia e parmigiano di rara finezza e bontà. Digeribilità e ritmo, anche in passaggi cruciali: suadente la classica gramigna con salsiccia; maestose le lasagne verdi al ragù. Qualche perplessità, forse, sull’eccessiva limpidezza del brodo dei tortellini – quando la modernità prende troppo la mano – ma sono dettagli trascurabili, in particolare vista la centralità gustativa dei dolci. Su tutti, il fiordilatte al caramello.

Da Mastrosasso la regola della trattoria ‘futurista’ funziona, perché qui si sta un gran bene. Con il quid di una personalità così ben definita dietro ai fornelli, che fa la differenza e riserva sempre nuove sorprese rivolte al futuro.
Vini giusti ed essenziali – dell’azienda agricola Torricella – vivacizzano l’esperienza, in tandem con un servizio di sala caloroso e preziosamente genuino.

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L’insularità è una forma esistenziale

Poco importa che essa conduca a nord o sud dell’equatore; un cuore isolano, se naviga in continente, farà sempre ritorno alla sua isola.
Alcuni cuori, poi, lo sono così visceralmente, così intimamente che solo a guardarli si sente l’odore che spira dai flutti e, nelle belle giornate, lo sciabordio lento delle acque chiare onde intravedere quel mondo iridato fatto di pesci e di rocce sommerse.
Un’insularità più di terra che di mare, però, è quella di Rino Duca che, come tutti i veri isolani, non sembra intenzionato a scendere a patti coi lustrini e coi fuochi fatui della contemporaneità a cui preferisce le lucciole in amore del mar di Sicilia e, da qualche tempo, l’aurora boreale delle isole Orcadi.
Una luce che brilla a Il Grano di Pepe nel nuovo menu dedicato alla Scozia; un diario di viaggio che è anche un’altalena di durezze e di dolcezze, anche interiori, cui fa da contraltare un bel repertorio di whisky in più che plausibile abbinamento.

Le affinità elettive tra piatti e single malt

A cominciare dall’incipit, un highball a base di whisky e ginger beer fermentata della casa col fragrante benvenuto del suo pane e panelle e dello sfincione, «per ricordarmi da dove vengo». Cartoline à rebours della sua Sicilia, queste, a cui segue lo scampo scozzese con battuto di pecora cornigliese cruda servita su una vaporosa riduzione di stout: un boccone stavolta perfettamente Scottish, che rima naturalmente con le note dolci e iodate di alghe e il graffio della torba del Lagavulin Islay di 16 anni.
Ecco quindi la volta del piatto nazionale, l’haggis, un insaccato realizzato con la pecora di Ettore Rio di cui Rino mescola cuore, polmone, fegato e rognone con l’avena e che “insacca” simbolicamente in una patata cotta nel sale. Indicibilmente delicato, il suo haggis diventa vibrante col tornito sorso dell’Ardbeg Uigeadail.

In termini di abbinamento, tuttavia, la acme si raggiunge con l’eiglefin di baccalà su vellutata spumosa di porri; un idillio di contrasti in combinazione con le virtù placanti del Bowmore 12 anni che lo stesso Rino definisce «un whisky sotto le mentite spoglie di un cognac.»

Colpo di scena, quindi, con la McCacio, una quattro formaggi in lattina a scimmiottare le storpiature subite nel mondo anglosassone dalla cucina italiana. Soave, qui, l’idillio con le note agrumate e di camomilla del single malt Auchentoshan 10 anni.
Irresistibile benché più canonica la polpa d’agnello cotta nell’alloro con purè di patate.

La chiusura, in questo angolo di Emilia che è già Scozia, è poi ad libitum. Rino arriva infatti con una zuppiera debordante di gelato alla crema in ricordo della trasgressione più peccaminosa della sua infanzia: il cornetto al whisky. In abbinamento un Laphroaig Quarter Cask, il quale, per via della maggiore esposizione al legno, infonde le papille di un calore torrefatto ripulendole con un provvidenziale grip tannico.
Per i più motivati, il sipario con gli whisky più torbati al mondo, gli Octomore di Bruichladdich, pionieristica distilleria di Islay, è d’uopo.

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Volere è potere: a Ravenna una cucina un po’ acerba, ma dal grande potenziale

Non l’eroe che meritavamo, ma quello di cui avevamo bisogno“. Con queste parole il commissario Gordon, nel film “The Dark Knight”, descrive Batman in relazione alla città di Gotham. Le stesse parole potrebbero essere usate per descrivere il ruolo dell’Alexander per Ravenna, ovvero uno dei pochi ristoranti del panorama cittadino a offrire una cucina moderna e giovane (sia per lo chef classe ’90, sia per il tipo di clientela che lo frequenta abitualmente) a un ragionevole rapporto qualità/prezzo. Un locale elegante in stile liberty (il locale era un cinema negli anni Venti), ma con un occhio di riguardo alla contemporaneità, specie nella mise en place.

Sebbene una piazza come Ravenna, va detto, meriterebbe ben altre vette e locali di alta qualità -a supporto del grande patrimonio storico culturale presente in città, e per soddisfare le pretese di un target turistico di livello internazionale- l’Alexander è il tassello di cui al momento la città dei mosaici necessita per crescere sul versante dell’alta gastronomia.

La cucina dello chef Borroni, con esperienze nel milanese (tra cui il Four Seasons Hotel), punta all’alta gastronomia, all’ingrediente di tendenza, alle tecniche più in voga, alle soluzioni estetiche elaborate dai grandi, ma in tutto questo rincorrere a emulare perde a volte la propria cifra. Nonostante un’indubbia base tecnica e un genuino gusto estetico, manca una precisa identità, una ricerca creativa personale che parta dalla materia prima piuttosto che dall’idea di qualche grande étoilè. Una cucina al momento confusa, perché cerca di stupire invece che meravigliare.

Tre i piatti più emblematici della serata, per comprendere al meglio luci e ombre che hanno caratterizzato la nostra esperienza: il risotto, il merluzzo, il dessert.
Il risotto, benché dall’aspetto impeccabile, presenta sapori che mal si conciliano in bocca e una quantità di assaggio esigua. In particolare la polvere iodata in superficie tende a celare il sapore del riccio; mentre alla lunga l’eccesso di aglio appesantisce il palato. Un piatto che passa e in fretta si dimentica.
La portata principale, il merluzzo, ripropone una porzione molto ridotta e discreta latitanza di sapore. Gli unici picchi infatti sono dati dalla gradevole acidità della mela e dalla punta amara del radicchio tardivo, che muovono un piatto altrimenti statico.

Il dessert si rivela il passaggio più riuscito e originale della degustazione. Un uso assai dinamico dell’ingrediente, l’arachide, che viene valorizzato in modo sapiente nel gelato, nel pralinato e nella terra. Il gioco molteplice di consistenze e temperature è ben calibrato ed estremamente piacevole, nonostante il dessert risulti esagerato nelle proporzioni e poco legato insieme (la pralina di burro di cacao e crema inglese, seppur deliziosa, finisce per diventare un’opera di mero assemblaggio).

Nel complesso lo iato tra l’idea di cucina dello chef e la sua effettiva attuazione, tra forma e contenuto dei piatti, è ancora troppo grande per non sentirsi parte di un’esperienza incompleta e a tratti insoddisfacente. Si ha l’impressione di uno chef che guarda lontano ma con radici troppo esili al momento; un fiore non ancora pronto a sbocciare, ma che in un prossimo futuro potrebbe regalare sincere emozioni.

Non resta che attendere la primavera.