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Hands by Noone

4 Mani di 2 Signori Nessuno

Due giovanissimi Chef under 23, Hands by No-one, un posizionamento fuori dagli schemi per una proposta di ristorazione a 360 gradi, avvolta da un alone di mistero, intrigante; una sorta di manifesto in cui, partendo dal presupposto di essere, ancora, due “signori nessuno”, due giovani aprono un ristorante e, con umiltà, vi trasferiscono la loro idea di cucina. Sono piemontesi, Silvano Toscani e Gioele Vacchina, volutamente non dichiarano dove hanno lavorato prima perché non vogliono essere codificati e classificati in base a esperienze pregresse. Vogliono apparire low profile, ma alla base c’è uno studio super ricercato in termini di proposta gastronomica, immagine, grafica, stile nell’arredamento. 

Loro sono giovani, “indie” nel cuore. Ricordano, per cifra stilistica, eleganza, classe, bravura, tecnica, creatività, alcune band leggendarie dell’etichetta 4AD, di cui loro, probabilmente, non conoscono nemmeno l’esistenza: Dead Can Dance, This Mortal Coil, Cocteau Twins… Per l’approccio moderno alla comunicazione e alla cucina ricordano, a livello embrionale, i Bros, a Lecco anziché a Lecce.

No-one o N°-one?!

Una cucina con un pensiero, concettuale nella creazione dei piatti e nei loro nomi, tanta voglia di differenziarsi, a partire dalla logica degli amuse bouche, rivisitati nella sequenza, come singoli bocconi introduttivi dei vari ingredienti che si troveranno poi nel piatto a seguire. Anche il pane con l’olio, piatto di partenza, è diverso dal solito, con un olio alla mirepoix, ricavato dall’estrazione a caldo di sedano, carote e cipolla. Deliziosa la Tartelletta di sfoglia croccante, maionese all’aglio, perle di barbabietola acidificate e polvere di barbabietola alla brace che introduce “Velluto“: eleganti ravioli di barbabietola, dalla texture originale, con bagnetto verde su base misultin, crema all’aglio dolce e olio al prezzemolo. “Sosia” è un piatto geniale: partendo dalla similitudine dimensionale fra i rognoncini di coniglio e i fagioli giganti e nella loro “trasformazione” visiva in cui i rognoncini sembrano fagioli e viceversa: i rognoncini sono nappati con una crema di fagioli giganti e i fagioli giganti, cotti in brodo di coniglio e croste di parmigiano, sono nappati con fondo di coniglio, bucce dei fagioli, olio e fiori di santoreggia. A chiudere un altro gioco con una trippa, senza trippa, sostituita da croste di parmigiano con fagioli occhio e polvere di santoreggia.

Testa di c**o!” è una pasta a forma di organo sessuale maschile, con una salsa al cervello, fondo di manzo e foglia d’ostrica, un piatto in cui il cervello, usato più per la grassezza nella mantecazione, potrebbe invece essere più protagonista. Decisamente riuscito il contrasto fra dolcezza e sapidità in “N lacrima“: ravioli dalla forma insolita, appunto di lacrima, ripieni di ricotta di pecora, con cannella dello Sri Lanka e ragù d’agnello, mentre il risotto con rane, topinambur e cerfoglio ha una deriva un po’ dolce. Molto interessante il lavoro fatto sul sedano rapa sia nel boccone di presentazione (una elegante sfoglia inversa di sedano rapa e insalata acidula del medesimo) sia nel piatto principale, “Connessioni di sedano rapa“: una millefoglie di sedano rapa, crema leggermente aromatizzata all’anice stellato e fondo di sedano rapa a laccare, con occhi realizzati graficamente sul piatto con polvere di fibra dello stesso.

Il Petto di pernice tataki, cosce, caldarroste, fondo di castagna, fondo di pernice, polvere di castagna , spuma di castagna, olio e fiori di rosmarino è un piatto davvero riuscitissimo, così come “Il gioiello” introduttivo con castagna al vapore ripassata nel fondo di castagna, incoronata dal filetto della pernice marinato e polvere di rosmarino. Visivamente di impatto il dessert: una stratificato alla zucca (Semifreddo di zucca, cake alla zucca e i suoi semi), gelato alla gianduja e juice di melograno, perfetto come pairing. Una cucina già ora identitaria e molto forte, quasi incredibile per dei ragazzi di 22 anni, che da No-one vogliono (e hanno il talento per) arrivare un giorno ad essere N°-one. 

Ci sono ovviamente delle cose da affinare, sia nella valorizzazione di alcuni elementi, citati, ma non così presenti, in alcuni piatti, sia nello storytelling delle presentazioni, dove si percepisce la loro giovane età. Vogliamo comunque premiarli, con una ottima votazione di ingresso, puntando su questi Signori Nessuno.

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Bianca sul lago: un “campano” sul lago di Annone

Emanuele Petrosino è stato il giovane chef rilevazione per la Guida Michelin 2019: 1 stella al ristorante I Portici a Bologna, esperienze importanti sia in Italia, da Enrico Crippa,  Gennaro Esposito, Nino Di Costanzo, sia in Francia da Christopher Coutanceau e da Anne-Sophie Pic.

Da agosto 2020 ha deciso di intraprendere una nuova avventura e approdare sulle sponde del lago di Annone, in un nuovissimo e affascinante relais dove cura sia la parte hotel che il bistrot e il ristorante di fine dining: Bianca sul Lago. La sua è una cucina di impostazione classica, che riflette decisamente la sua formazione campana, in primis con tributi a Di Costanzo, poi a Anne-Sophie Pic. Una  grande cura del dettaglio, con cotture millimetriche in piatti di grande impatto cromatico e di elegante bellezza. Una cucina sofisticata ma indubbiamente confortevole.

Cromatismi di grande eleganza

La “vege-table” introduce il microcosmo culinario del cuoco, con piccole miniature vegetali, in diverse consistenze e cotture. La Campania emerge prepotentemente nell’utilizzo, in tante portate,  della bufala e del pomodoro, protagonista, in differenti varietà, nello spaghettone, così come nella salsa alla puttanesca che accompagna, valorizzando, una triglia, farcita di spinaci. Insolito l’accompagnamento della triglia con il tagliolino, servito come una sorta di contorno al posto della verdura, con richiami alla cucina sia francese che mitteleuropea.

Chiara ispirazione francese, con l’accostamento crostaceo-selvaggina, si ritrova qui nell’incontro scampo-pollame, con la dolcezza del crostaceo, ricoperto da lamelle di cavolfiore crudo, a mitigare il sapore deciso della faraona, servita in diverse sue parti e come raviolo, con il suo fondo. In realtà le due componenti vivono di luce propria e potrebbero tranquillamente essere servite come piatti separati,  non avendo riscontrato una particolare sinergia dal loro accostamento. Piacevole e saporito il tortello con ripieno di Parmigiano, polvere di peperone crusco, cannellini e scarola, quenelle di basilico, con la crema di cannellini forse fin troppo preponderante. Molto bello il dessert, in due portate,  con un interessante sorbetto di bufala e camomilla, coperto da una elegante cialda di miele millefiori.

Cromatismi di notevole eleganza in tutti i piatti, con presentazioni stilisticamente ineccepibili, che appagano tutti i sensi. Auspichiamo soltanto qualche slancio verso la ricerca di maggiori contrasti, per una certa discontinuità all’interno del percorso che, ribadiamo, risulta essere molto confortevole, ma che potrebbe rivelare maggiori complessità e profondità di gusto. Soprattutto auspichiamo anche che questi piatti, gran parte dei quali identici a quelli proposto nella sua precedente esperienza a I Portici, vengano rinnovati e cambiati. Stiamo in ogni caso parlando di una esperienza di grande piacevolezza, in una ambientazione di grande fascino.

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Quel ramo del lago che volge al gusto

Siamo a Mandello del Lario, delizioso borgo lacustre, a pochi chilometri da Lecco. Qui lo chef Stefano Binda ha dato vita, il febbraio scorso, a Texture, una piccola bomboniera di moderna e intima eleganza, con pochi coperti. Un passato da Enrico Crippa, Norbert Niederkofler e Antonino Cannavacciuolo, per arrivare a conquistare la stella Michelin al Dacatrà. Dopo la sua chiusura, un periodo di lavoro da Mamma Ciccia, proprio a Mandello, dove insieme alla stessa imprenditrice Silvia Nessi decide di far partire il progetto di Texture, primo che lo vede impegnato come chef e come imprenditore.

La sua cucina punta dunque a colpire, con l’obiettivo finale del gusto, ma in modo equilibrato, rassicurante, confortevole, rotondo. Non è una cucina da spigoli o accelerazioni, gioca decisamente di più sull’armonia dei sapori, con piatti ben pensati e decisamente piacevoli al palato, con una attenzione anche a ridurre il più possibile le materie grasse per avere piatti più leggeri possibile. Lo chef spazia con le materie prime, sia di terra sia di mare che di lago, e con tendenze sia locali che estere: ne scaturisce una cucina che ha una sua identità e che risiede proprio nella varietà delle proposte, dalle rivisitazioni di piatti della tradizione alla combinazione di diversi elementi di gusto e di consistenze nello stesso piatto.

Texture games

I giochi di consistenze e la ricerca nell’utilizzo di materie prime provenienti da varie parti del mondo si alternano durante tutto il percorso, partendo dalla accoppiata particolare della capasanta con la lingua salmistrata e una salsa verde di pastinaca all’alga nori. Il salmone marinato in casa con le sue uova risente di una eccessiva dolcezza della spuma agrodolce di accompagnamento. Sfizioso e gustoso il pulled duck con trevisana ed emulsione di senape al miele, così come la seppia arrostita con crema di cavolfiore e anacardi con il chorizo grattato, due piatti che arrivano diretti al palato con una bella forza propulsiva di gusto e sapidità.

Nei primi lo chef si diverte e fa divertire con la tecnica del ripieno liquido: è il caso dei cappelletti con ripieno liquido di coda brasata, aria di ribes fermentati e melograno, con un bel gioco di contrasti di sapidità e acidità, che resta comunque sempre in una gradazione di delicatezza. Buoni anche i ravioli ripieni all’acqua di vongole con la liquidità del ripieno che pulisce il palato lasciando una bella sensazione di iodio che ben si sposa con un guacamole di broccoletti e il limone candito. Bello il risotto mantecato con porcini, finferli e pioppini, glassa di funghi, aglio orsino e stracchino di capra, intrigante per il pungente ma delicato sentore di aglio, anche se in difetto di incisività di gusto. Una mancanza che invece viene colmata nell’ottimo tataki di scamone con hummus, cipolline, salsa alla paprika dolce affumicata.

Piacevoli e interessanti i dolci, con il fresco sorbetto allo shiso e pino mugo e  il gelato alla melanzana con crema di ricotta, che chiude un pranzo molto vario pur riprendendo tanti piatti del passato, anche se parzialmente rivisitati e affinati sia come gusto che come estetica.

Ebbene, considerata la tecnica solida e il palato, ben assestato, dello chef, il consiglio che ci sentiamo di esprimere è quello di svincolarsi dalla reinterpretazione dei piatti del passato e concedersi il lusso di inventarne di nuovi. Un percorso che sia solo suo e che già trova conferma in un’esperienza che ci ha piacevolmente colpito per varietà, gradienti di gusto e consistenze, nonché per il servizio, attento, e l’intimità della sala. Un approdo sicuro, insomma, per gourmet e gourmand, in quel ramo del lago di Como che, dalla parte di Lecco, non brilla particolarmente in ambito fine dinining.

La galleria fotografica:

Un simpatico bistrot di stampo contemporaneo a due passi dal lungolago

In posizione invidiabile sull’elegante area pedonale del centro di Lecco, a pochi metri dal lungolago – tra le non poche trappole per turisti disseminate sulla strada – spiccano le vetrine di questo bel bistrot voluto da Luca Dell’Orto, giovane, promettente chef che si è fatto le ossa nel locale di famiglia, il San Gerolamo a Vercurago a cui si è poi aggiunto, sempre a Vercurago, il bistrot-pizzeria Du Pass.

Il format è quello, oggi vincente, basato sulla ricerca delle materie prime e su un’offerta gastronomica ampia e originale che comincia dall’aperitivo, passa per la pizza e culmina con la cena, di impronta gourmet. Dall’apertura, circa tre anni orsono, ad oggi, il L’EK ha avuto un buon successo ed inevitabilmente sono cresciute anche le ambizioni della cucina. Dalla lettura della carta, assolutamente eterogenea, è difficile intuire quale sia tuttavia la linea. Si va dalla pregiata carne della vacca galiziana ad una selezione di “pizze gourmet”; dai crudi di mare al pesce di lago, dal filetto alla Rossini al babà. Si tocca un po’ tutto lo scibile gastronomico, insomma, senza vincoli di sorta fatta eccezione per il rispetto della stagionalità. È previsto, poi, anche un menu degustazione a sei portate – tra quelle presenti in carta – composto liberamente dallo chef.

Stagionalità, ricette classiche e un tocco di modernità

In tutto questo, abbiamo trovato intriganti e molto gradevoli le lumache con salsa al prezzemolo: perfettamente cotte, per nulla terrose, spinte da una spiccata nota erbacea, ci sono sembrate una bella versione contemporanea della classica “bourguignonne”. Ci ha favorevolmente impressionato poi anche la tagliata di vitella, carne frollata a mestiere e perfetta per cottura, temperatura, consistenza e sapore.
Belli carichi e connotati da una marcata rusticità gli spaghettoni con cipollotto e missoltini.

Dall’altra parte ci è sembrato un po’ forzato il matrimonio tra tonno rosso e salsa alla pizzaiola; non così soffice, poi, il petto d’anatra seppur accompagnato da un buon fondo di cottura e da un’equilibratissima mostarda. Ahinoi assolutamente da rivedere il babà per la consistenza (troppo poco soffice) e l’eccessiva stucchevolezza della crema in accompagnamento.

La carta dei vini, benché alquanto scarna nei numeri, non è priva di qualche proposta meritevole di attenzione.

Un locale che, sicuramente, ha portato una ventata di novità nel panorama della ristorazione lecchese, anche se confermiamo l’impressione di una cucina ancora priva di un’identità. Ma, forse, si tratta di un effetto determinato dall’intenzione di soddisfare qualsiasi tipologia di avventore e questo, a ben vedere, potrebbe anche essere un plus dal punto di vista commerciale.

La Galleria Fotografica:

Una cucina creativa di mare… sul lago

Era il 2004 quando un giovanissimo Fabrizio Ferrari iniziò a prendere in mano le redini del ristorante di famiglia. Al porticciolo 84 (il 1984 è l’anno di nascita del ristorante) era il punto di riferimento in zona per gustare del buon pesce. Ottima materia prima, cucina di impronta tradizionale, una clientela ormai consolidata, tra i piatti simbolo una ricchissima grigliata di pesce.
Il giovane Fabrizio però manifestò da subito la sua intenzione di determinare un cambio di rotta verso una cucina diversa, in cui poter esprimere tutta la sua creatività e le tecniche apprese nelle sue esperienze in importanti cucine in Italia e all’estero (tra cui Uliassi e il Noma di Redzepi).
La rivoluzione non poteva che essere graduale.

Per un non breve periodo i piatti di impostazione moderna e creativa si sono affiancati a quelli che erano i cavalli di battaglia del locale. La necessità di non spiazzare la clientela abituale -in una zona, peraltro, storicamente poco incline ad ogni forma di sperimentazione in cucina- determinò la necessità di far forzatamente convivere due anime nella stessa cucina.
La transazione è ormai ampiamente compiuta ed oggi il Porticciolo 84 è a tutti gli effetti il ristorante di Fabrizio Ferrari e della sua compagna di vita Anna Valsecchi che si occupa in maniera impeccabile del servizio in sala.
La famosa grigliata mista (che era peraltro molto buona) è scomparsa dalla carta e la linea di cucina è oggi quella di Fabrizio, senza più compromessi. Una cucina in cui al centro resta comunque l’Ingrediente: quel pesce marino di cui lo chef è un grande conoscitore.

In carta, a parte i notevoli crudi, dieci piatti. Al centro dei quali dieci diversi ingredienti marini a cui si uniscono una serie di elementi di contorno.
C’è spesso un tocco di oriente, rilevanti le speziature, notevoli le componenti acide, esasperati i contrasti. Una cucina senza dubbio originale, di buona personalità con piatti che riescono quasi sempre a raggiungere un ottimo equilibrio gustativo. Diciamo “quasi” perché a volte il bravo Fabrizio sembra perdersi in qualche ingrediente di troppo, smarrire la strada diretta verso il gusto a vantaggio di una ricerca, che può apparire talvolta forzata, dell’elemento “diverso”, della chiave aromatica spiazzante.
Ma ci può stare, stante il coefficiente di difficoltà e la abbondanza di elementi e di contrasti che caratterizza la gran parte delle preparazioni.
Il piatto della serata, quello con la P maiuscola, si e rivelato senz’altro la Razza servita con salsa olandese, caviale di lampone, olive taggiasche croccanti e finocchio, molto elegante e intenso con la (moderata) acidità del lampone che ben si sposa con la grassezza di una salsa olandese perfettamente eseguita. Una menzione la meritano anche gli assaggi iniziali, anch’essi alquanto compositi come da cifra stilistica dello chef ma molto centrati e ben eseguiti, in particolare la Spugna di arachidi, maionese di cozze, polvere di barbabietola e cetrioli, una vera e propria carezza per il palato e la Crema di melanzane, uova di salmone, olio al peperone grigliato e gelsomino, con le uova che si rompono in bocca rilasciando tutta la loro intensa carica gustativa.

Una cucina coraggiosa, non banale, molto personale, a volte imperfetta, ma in fondo va bene anche così.