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Giodo

Dall’amore per il Sangiovese all’Etna e i suoi vitigni autoctoni

La storia di Giodo inizia con il Sangiovese, il primo grande amore di Carlo Ferrini.

Tra lecci, querce, arbusti di lentisco e ginestre, si giunge in quella Toscana, tra bosco e macchia mediterranea, dove trovano sede le più note aziende di Montalcino. Ed è tra Sant’Angelo in Colle e Sant’Antimo, sinonimo di perfetta esposizione, ideale altitudine e suoli ideali, che dal 2001 il sogno di Ferrini si avvera. Giodo, nel nome un omaggio ai genitori Giovanna e Donatello, nasce da una vita professionale votata al Chianti Classico, una passione che ha condotto l’enologo di fama internazionale e grande appassionato della più nobile Francia del vino ad acquistare un piccolo podere di circa un ettaro, che si è poi esteso in due ettari e mezzo con l’impianto di altre tre parcelle contigue, completato nel 2021 con una cantina di vinificazione e una casa colonica di recente ristrutturazione, in totali 6 ettari di vigna. Un sentimento condiviso con la figlia Bianca, trentenne, coadiuvato da Riccardo Ferrari e Giuseppe Pitzeri, tra vigna e cantina.

La perfetta esposizione sud-est, a 300 metri s.l.m, e il suolo di medio impasto ricco di scheletro sono le ottime basi per mettere a dimora i cloni che più avevano convinto l’enologo negli anni: 8 diversi, di poca resa, scarsa vigoria, con grappoli spargoli e acini di ridotte dimensioni. La pratica dell’inerbimento con leguminose e la concimazione naturale sono garante di una corretta gestione agronomica che in questi due ettari e mezzo di vigne sono dedicate al Brunello, mentre gli appezzamenti più giovani all’IGT Toscana La Quinta. Queste accortezze sono riproposte nel secondo appezzamento individuato qualche anno dopo da Ferrini, dove ad un un’altitudine maggiore, di 400 metri s.l.m., con un suolo sassoso e più profondo, trovano dimora gli stessi cloni.

Dopo il Sangiovese, Carlo Ferrini si innamora anche dell’Etna e dei suoi vitigni autoctoni: il Nerello Mascalese e il Carricante, da cui inizia la storia di Alberelli di Giodo. Queste due espressioni trovano terreno fertile in otto piccoli appezzamenti nella Sicilia di Contrade Rampante e Pietrarizzo, che, sommati, arrivano a poco più di due ettari e mezzo. In questi terreni l’altitudine, l’ideale esposizione a nord, e il terreno nero di pomice del Vulcano concedono struttura unica e una spiccata mineralità.

I quattro vini monovarietali che ne derivano sono lo specchio e l’essenza del territorio di origine da cui provengono e dell’attenta cura in vigna che tanto contraddistingue Ferrini.

La Degustazione

Questo Brunello di Montalcino si rivela di un’innata eleganza: di buona morbidezza, profondo, intrigante ed intenso si compone di uve perfette, che maturano in piccoli legni francesi che terminano l’affinamento in bottiglia, restituendo a Giodo equilibrio e spessore. Su tutte ci ha entusiasmato l’annata 2016, intrigante la 2018 e molto buona, comunque, la 2015. Ma la 2016 ci ha davvero impressionato per eleganza e finezza.

La Quinta Toscana IGT nasce dall’omonima parcella impiantata nel 2018, la quinta appunto, dedicata a uve Sangiovese. Di notevole freschezza, si dimostra di buona beva e dalla buona persistenza aromatica. Sentori di frutti rossi che si alternano a eleganti speziature di vaniglia conducono ad una bocca corposa e di tannino ben integrato. La 2018, ma in particolare la 2020, ci ha impressionato non poco. Un rosso di Montalcino, forse anche un Brunello, travestito da vino apparentemente più semplice, ma che semplice non è affatto.

Al Nerello Mescalese, Alberelli di Giodo, dalla prima annata 2016, dedica una vendemmia manuale e macerazione in vasche d’acciaio aperte a cui segue un affinamento per 12 mesi in piccole botti di legno francese.

Dall’annata 2020, ad Alberelli di Giodo si unisce il Carricante, anch’esso in purezza che, dopo 20 giorni di fermentazione in acciaio, matura per circa 6 mesi con le sue fecce sempre in acciaio e affina per 10 mesi in bottiglia.

Un vino sapido, balsamico, da vigne ad alberello di oltre 70 anni con una porzione oltre i 1.000 metri di altitudine, esprime sentori di mandorla ed eucalpito, con un finale molto lungo e persistente.

L’autenticità in tavola

Ci troviamo nel Chianti Rufina, una terra d’incanto che è un tripudio di ulivi e vigneti, un angolo di Toscana incontaminato e bellissimo. L’agriturismo Podere Belvedere Tuscany è abitato da numerose specie di animali da cortile che, dopo aver goduto appieno di una vita appagante e al naturale, riforniscono la cucina di Edoardo Tilli assieme alle numerose botaniche provenienti dai campi e dall’orto. Larga parte degli ingredienti, qui, è autoprodotta, frutto di questa terra ricca e generosa. Materie prime genuine, che riflettono nel sapore la loro autenticità e che permettono allo Chef, per dirla con Annie Marquier, di “scoprire il fuoco sacro, il fuoco della sua anima. E di fare in modo che la vita intera sia l’espressione di questa anima. La cosa più bella che possa capitare a un essere umano.

Quando tutto questo accade, infatti, l’autenticità traspare in qualunque atto si realizzi. Può trovarsi nel mungere una mucca, nell’accarezzare una spiga di grano, nello stagionare un cervo o una vacca vecchia e infine cucinarla. Con il fuoco, vivo e sincero. In questa serie di atti, tanto atavici quanto contemporanei, si nasconde il talento e la verità di Edoardo Tilli. Un talento che dire poliedrico è forse riduttivo. Un talento che va dal cuocere una carne alla perfezione, dopo averla selezionata e stagionata, al creare un piatto come Coscio di daino frollato, ostrica alla griglia e vellutata di erbe amare. O come Rognone alla griglia, albicocca fermentata, acetosella, scampo laccato con strutto di vacca, bottarga di interiora di agnello. Sovrastrutture? Sovrapposizioni? No. Verità, tanta verità nel piatto. E si sente. 

Per dare la possibilità ai nuovi clienti di sperimentare i piatti più conosciuti di Belvedere, il menù “Invicta” si è di recente evoluto nel menù “Vixit“, dal latino vissuto, ossia un percorso costruito lungo le tappe fondamentali del percorso di crescita dello Chef. Accanto a questo, due nuove proposte: il menù degustazione “Fieri“, avvenire, e il menù “Omnia“, tutto, che della filosofia di questo luogo ogni cosa racchiude. Questi ultimi sono due menù che non danno risposte facili e rotonde, ma indicazioni interessanti sull’articolata, complessa e studiata opera della cucina. Una cucina che dispensa schiaffi come carezze.

Una cucina libera e priva di confini

Il benvenuto della cucina si concretizza in un Brodo di gallo nero Ayam Cemani frollato 60 giorni e cotto nel coccio sulla brace, salato con garum di pollo arrosto; una pozione benefica che favorisce la digestione delle portate che seguiranno. Nella tazza da tè, prima di versarci il brodo con la teiera, viene presentato un uovo di quaglia marinato e cotto in stile giapponese, con dei fiori di calendula essicati raccolti attorno al Podere.

Seguono le intramontabili Olive finte; un rimando all’ubicazione di Belvedere, circondato dall’oliveta. Per realizzarle si utilizza lo stampo di un’oliva Santa Caterina toscana colmato di yogurt di kefir, marmellata di fichi e olio di alloro; tutti ingredienti rigorosamente autoprodotti. Si prosegue con il Tartufo finto, un boccone formato da un tuorlo d’uovo svuotato della sua parte liquida e ricolmato con una fonduta di Parmigiano Reggiano 60 mesi al tartufo, impanato con carbone vegetale e farina di riso e finalmente fritto. E ancora le Polpettine di recupero, per le quali ci si serve del lampredotto rifatto e della testina di cervo. La cialda a farfalla di senape, miele e pomodoro giallo con semi di senape marinati nel tosazu e polvere di frutti, pomodoro e limone. Interessante il Koji arrostito con shoyu di cannellini, che sviluppa sentori simili a quelli della carne. Infine la vellutata di rapa rossa con miele di castagno, acetosella e uova di trota marinate in un garum di lievito e il Bao.

La prima portata consiste in un Boccone di anguilla alla griglia laccato al tavolo – così che la laccatura non diventi eccessivamente coprente – con una teriyaki fatta con garum di anguilla di recupero e wasabi grattugiato al tavolo da radice di 3 anni. Un boccone semplice e molto piacevole, ma di elevatissima qualità e artigianato.

La Tartare viene servita nella sua essenzialità. Il piatto vuole presentare la carne nella sua estrema essenza che, tuttavia è assai preziosa. La carne viene infatti frollata per quasi tre mesi prima di essere reidratata con un fermentato di selvaggina e un goccio di olio di oliva. Il risultato è un sapore intenso e complesso. La frollatura fatta in alta umidità rende elegante la carne e fa sorgere e percepire dei sentori vegetali variegati. La Crêpe di sangue di maiale con pesto di finocchietto selvatico, diverse varietà di senapi con i propri fiori, rifinita con una salsa di koji lattofermentato, è un’accentuazione e riproduzione di quel sentore vegetale che si scopre nella tartare.

L’incontro tra terra e mare si presenta sotto forma di un boccone di Coscio di daino frollato in alta umidità, così da tirare fuori sentori salmastri, con ostrica alla griglia, ricoperto con una vellutata di erbe amare. Un infinito di ostrica. Un altro piatto di incontro gustativo e olfattivo tra terra e mare è il Rognone alla griglia, con albicocca acida (fermentata), acetoselle, scampo laccato con dello strutto di vacca e zucchero di canna, lievemente arrostito. Al tavolo viene aggiunta della bottarga di interiora di agnello, che all’odore ricorda la vera bottarga, mentre in bocca esprime l’intensità della carne.

Si prosegue con il Carpaccio di colombaccio alla griglia con mix di spezie e sugo d’interiora; Cosce con marmellata di fichi e olio all’alloro; Filetto marinato nel suo garum e cotto appena da un lato; spiedino di petto laccato con salsa di miso e aceto di riso tosazu; due fette di salamino di colombo maturo e, infine, il brodo ghiacciato con erbe fresche aromatiche, ad accompagnare la coscia affumicata e impanata nella polvere di fiori di sambuco con fiori freschi di erba aglina. Quindi il Musetto di maiale cotto nel latte in pressione e i suoi succhi di rilascio fatti a crema con mandorle tostate, brodo di limoni, burro bruciato, scalogno e senape.

Si procede con il turno della griglia, un trittico inaugurato dalla Bistecca alla griglia, che in realtà presenta pezzi di diverse età, di diversi muscoli e di diverse frollature. Dalla Frisona di 10 anni con 300 giorni di frollatura, alla Jersey di 5 anni con 110 giorni. Segue una fetta di Cecina di bue stagionata per due anni e mezzo, servita con peperone corno sottaceto.

La Faraona alla griglia con miso di ceci, crema di sesamo tostato e zucchero filato è succosa come non ci si aspetterebbe da una carne di questo tipo alla griglia. Essa viene cotta, coperta, ad una distanza di 40 cm sopra la griglia, lentamente, così da mantenere il calore e il fumo. Lo zuccherò rende molto appetibile il boccone, lo bilancia, lo contiene. Il Capriolo alla griglia scuoiato al tavolo, frollato 60 giorni, presentato con il suo fondo, nocciole leggermente annerite e pancetta di Mangalica, si scioglie in bocca esprimendo eleganza e delicatezza, tutto ciò che non ci si aspetterebbe dalla selvaggina.

Infine il Sottobosco, un risotto acido con mela sciroppata, polvere di cipresso, funghi e lamponi gelati e la Tagliatella al ragù di cervo vecchio, con garum di cervo e miele di cipresso. Un grande lavoro di arrostitura e rifinitura, con il garum a rendere il piatto imponente nel sapore, ma mai esagerato in termini di pesantezza.

A conclusione del percorso vengono serviti una Panna cotta con burro di capra, lemongrass e Caviale Calvisius Siberian italiano; un Lime muffato, dove il lime viene sbollentato, svuotato, inoculato con spore di aspergillo e completato con mousse, crumble e marmellata di fichi; una Girella di sfoglia, timo e sale Maldon con crema inglese al rhum e fava tonka.

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La celebrazione del territorio

Questo bellissimo ristorante “gourmet”, sito in uno degli scenari più suggestivi del mondo, risiede nel cuore dell’antico Borgo Medievale della Valdarno Aretina all’interno dell’omonimo Relais&Chateaux. Qui protagonista assoluta, appena varcata la soglia, è la risplendente cucina “a vista” diretta dall’Executive Chef Andrea Campani, nativo di Montevarchi, che impiega materie prime locali e in primis i prodotti dell’orto della Tenuta. Progetto che ha conseguito la Certificazione BIO dal 2015 e che, inizialmente ideato ad uso esclusivo della famiglia Ferragamo, oggi si estende per la superficie di ben 3 ettari.

Ottimo benvenuto da parte di tutto il personale di sala e del sommelier Leonardo Lazzerini, facente le veci del Direttore di Sala Stefano Redditi assente per il vernissage di un nuovo ristorante della proprietà, a Creta. Anch’egli Toscano DOC, che ha illustrato i menù aiutando l’ospite nella comprensione della celebrazione autoctona, biologica e sostenibile che anima questo luogo.

Passeggiando al Borro

Appena accomodati, squisita ouverture constante di una piccola sfera tiepida di Pane fritto ripieno di mozzarella fior di latte e fiori di zucca. Tre le scelte di degustazione offerte: “Passeggiando al BORRO” improntata su proposte di terra, “Il Mare Toscano” su quelle Ittiche e, infine, “La nostra storia in 7 assaggi”, che celebra un viaggio di sette portate secondo le preferenze del cliente.

Circa il primo menù succitato, schiude il pasto “Il Nostro Uovo BIO”, consistente in un Tuorlo fritto fondente su una profumata e densa pappa al Pomodoro; a seguire il Carpaccio di cinghiale marinato con insalata di radici, polenta soffiata e salsa al vino rosso, piatto in perfetto tema autunnale; proseguono la cena sapidi Tortelli ripieni di coda di bovino brasata su crema di Parmigiano-Reggiano e scaglie di tartufo nero seguiti da un superbo Controfiletto di cervo, cotto alla perfezione, topinambur, salsa al vino rosso e frutti di bosco, omaggio definitivo al territorio e al menù scritto in capo. Abbiamo preferito concludere il desinare, in alternativa al dessert, con un primo piatto di impronta rustica e succulenta, anche se esteticamente avulsa dal contesto: “Mezze candele al ragout di faraona” le cui tenerissime carni hanno appagato lautamente il palato.

A tutto pasto, il rosato Bolle di Borro: un Metodo Classico da uve 100% Sangiovese maturate 60 mesi sui lieviti il cui perlage è risultato fine e persistente.

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Il ristorante di Santa Margherita

Una piccola gemma nascosta, questo Vitique, ristorante ed enoteca di Greve in Chianti, amena destinazione incastonata nel sacrario del Chianti Classico, dove gli ambienti confortevoli e raffinati, ricavati all’interno della distilleria storica Bonollo, si uniscono alla florida bellezza del paesaggio, ammirabile dal curatissimo dehors, per un insieme di grande fascino.

Vitique è l’esperienza in ambito ‘ristorativo-bistrot’ di Santa Margherita Gruppo Vinicolo, storica firm nata nel 1935 dalla visione del Conte Gaetano Marzotto, che fin da allora credeva in un’agricoltura moderna, capace di mixare sapientemente uomini, natura e tecnologia. Prosecchi pionieristici già negli anni ’50 e, poco dopo, un Pinot Grigio che fa tuttora storia, anche nei tentativi di imitazione. Dieci le tenute condotte ora, che vanno per l’appunto da Santa Margherita, a Kettemeir, in Alto Adige, a Cà Maiol, affacciata sulle sponde del Lago di Garda, a Lamole di Lamole, imprescindibile etichetta del Chianti Classico, a Cantina Mesa, l’icona del Sulcis. La forte emanazione viticola, comunque, non deve trarre in inganno, Vitique è tutt’altro che un flagship store: nelle luminose sale che alternano legno e corten, infatti, si perseguono consistenti idee di territorialità con un occhio strizzato alla sperimentazione.

Cucina (e sala)

Il merito va indubbiamente ascritto all’executive chef Antonio Guerra, bel talento brianzolo (ma pugliese di origine) che nonostante la giovane età vanta un curriculum di tutto rispetto, maturato a fianco di Luigi Taglienti, presso il Lume di Milano – una stella Michelin – a Giancarlo Morelli, una stella Michelin, anche lui e storico imprenditore, passando per Antonello Sardi, presso la Bottega del Buon Caffè di Firenze, seminale locale fiorentino di Relais Borgo Santo Pietro, anch’esso insignito di una stella.

Iniziamo con un elogio alla sala: mise en place davvero di eccellente livello, coordinamento perfetto delle uscite e tempismo impeccabile nella risposta ai solleciti, bravissimo Francesco e bravo Dario Nenci, restaurant manager. Il bonus è che l’ambiente è davvero confortevole, 200 metri quadri morbidamente avvolti in tonalità pastello che inducono, senza forzature, a chiacchiere sottovoce, subordinandole all’esperienza.

La quale inizia, da par suo, coi panificati, Focaccia all’olio e pane con lievito madre golosissimo il cui sapore è amplificato dall’olio di Lamole di Lamole, anch’esso prelibato, e dal burro salato, misuratissimo. Iniziamo con gli amuse-bouche, che alternano consistenze a sapori con bella armonia, con interessante vena sperimentale soprattutto nella Crème brûlée di foie gras, davvero godevole, e Tacos di guancetta assai gustosi.

Arriviamo ai primi piatti con una delle ‘firme’ di Antonio, Pane ricci e pomodoro, avventuroso pellegrinaggio sulla falsariga di un classicone locale, dotato tuttavia di punte acido-salmastre mozzafiato, tanto da farlo immaginare piatto estivo, da consumare vista mare e allietati da correnti iodate; tuttavia anche, magicamente, comfort food da giornate uggiose. Proseguiamo con il battuto di coniglio, il Coniglio 2020, forse il piatto meno convincente del pranzo, leggermente anonimo come sapore in uscita, con una punta forse eccessivamente sapida sul finale.

Proseguiamo con il bell’accostamento del Seppia e spugnole, altra creazione ormai entrata in heavy rotation qui al Vitique, ancora a giocare sull’equilibrio salmastro-sapido con successo. Ottima invece la Guancetta da latte brasata con salsa barbecue e prezzemolo, ancora bello l’accostamento e l’equilibrio delle due salse, con la squisita materia prima a fare da morbido ponte (dalla perfetta cottura) tra parte tannico-sapida ed officinale. Si conclude con una bella Insalatina di finocchi ed arance a sgrassare e una notevole Zuppetta di zabaione, che precede un obbligatorio assaggio di Vin santo e caffè (perfetto) e mini-pasticceria (gustosissima).

In conclusione, va detto che la carta dei vini, coi vini del gruppo, merita pienamente muovendosi tra tradizione e innovazione con grande ricerca della pulizia tecnica. Quanto alla cucina, l’impressione è che Antonio Guerra abbia nel suo DNA la volontà di interpretare una proposta in cui la sperimentazione sia al servizio dell’esperienza. Un’esperienza in cui l’alta cucina non trascura la concretezza della trattoria. Restate sintonizzati, perché sicuramente ne vedremo delle belle!

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In equilibrio tra tecniche antiche e progresso, con dedizione certosina

Dell’azienda agricola Podere Forte abbiamo già detto e scritto svariate volte. Tuttavia, ogni volta che si presenta l’occasione per approfondirne la conoscenza, emergono dettagli che ci sorprendono e ce ne fanno innamorare un po’ di più. È ciò che è successo lo scorso mese, in occasione di una degustazione dei prodotti di Podere Forte ospitata in un tempio dell’enogastronomia lombarda, l’enoteca “da 8tto” a Senago.

Cercherò di non ripetere quanto già stato detto dai miei illustri predecessori, Alberto Cauzzi, qui, e Orazio Vagnozzi, qui e qui. Basti sapere che l’azienda agricola in questione, situata in quell’idilliaco scenario che è la Val d’Orcia, si configura come un’antica cortes romana: 500 ettari di terreno incontaminato, asservito alla produzione di vino, olio, cereali e allo scorrazzamento dei capi di Cinta Senese, che qui razzolano felicemente prima di essere affinati da quel mago del salume che è Massimo Spigaroli. Il tutto condotto all’insegna della naturalità e della tecnologia. Come ama dire il patron, Pasquale Forte: “lavoriamo i campi come duemila anni fa e in cantina siamo duecento anni avanti”. Ed è proprio questa massima che oggi andrò ad analizzare, perché quello che a una distratta lettura può sembrare un claim commerciale, nasconde in realtà l’universo che rende INCREDIBILE questa azienda.

Lavoriamo i campi come duemila anni fa

Fin qui tutto chiaro. Come si diceva Podere Forte è una fattoria polivalente, “dove uomo, piante e animali contribuiscono a realizzare un macrocosmo integrato, autosufficiente e sostenibile.
Un esempio concreto è dato dalla presenza di venti splendide vacche di razza chianina. Vacche da latte? Ovviamente no, ma nemmeno da carne. Si potrebbero definire “vacche da letame” dal momento che sono allevate su questo suolo incontaminato, e nutrite con i suoi meravigliosi prodotti, al solo fine di ottenere “ottimo compost”.

La biodinamica è la tecnica agricola privilegiata, dunque i prodotti di sintesi chimica sono banditi, si fa uso di corno letame e calendari lunari, ma, soprattutto, si sta in campo. Ad esempio per curare le barbatelle, che una volta impiantate sono innaffiate con un imbuto di rame una ad una, con un dispendio in termini di tempo davvero imponente.  Questo è il senso più intimo della biodinamica: il tempo speso a contatto con la terra per poter reagire prontamente a qualunque problematica insorga. L’idea è che l’energia vitale che in questo modo scaturisce da vitati, oliveti, boschi e allevamenti, si traduca nel sapore autentico dei prodotti, dando vita a prodotti genuini e vini in grado di esprimere compiutamente il terroir.

In cantina siamo duecento anni avanti

Un approccio saldamente ancorato alla naturalezza che, tuttavia, viene portato avanti con metodo scientifico certosino, attingendo a piene mani dal progresso. I terreni che compongono i 24 ettari vitati, ad esempio, sono stati studiati e “zonizzati” da Lidia e Claude Bourguignon, due ingegneri del suolo assoldati da produttori del calibro del Domaine de la Romanée-Conti e Château d’Yquem. I “Gran Cru” dell’azienda sono delineati da quei terreni dove il calco-scisto affiora già a 30 cm di profondità e lavorati soltanto attraverso l’uso di cavalli e trattori in alluminio e fibra di carbonio appositamente creati, che esercitano sul terreno una pressione inferiore a quella di un piede. Ma è in cantina, cuore dell’azienda Podere Forte, che regna la tecnologia più avanzata.

Ogni filare viene sottoposto ad almeno due vendemmie, tre nel caso dei Cru, per arrivare in cantina in un perfetto stato di maturazione e procedere a vinificazioni separate lungo l’intero processo. Qui i grappoli vengono sottoposti a vinificazione dopo essere passati sui tavoli di selezione e attraverso una diraspatrice alla quale giungono in atmosfera inerte. Il selettore ottico scarta gli acini che nutriranno le Cinte Senesi, quindi si prosegue per caduta fino ai tini troncoconici nei quali avviene una pre-fermentazione a freddo. Ogni processo della cantina, in effetti, avviene per caduta. Il passaggio successivo è la pressatura podolica, che evita una rottura eccessiva degli acini, limitando così l’estrazione dura. Quindi la fermentazione, l’uso sapiente di botte grande e barrique di Taransaud, congegnate appositamente per l’azienda, affinamenti che vanno dai 12 ai 24 mesi e l’assemblaggio dei numerosi vini base secondo la sensibilità del cantiniere.

I vini

Il risultato sono vini che sorprendono per pulizia ed eleganza, di una piacevolezza rara. Discorso che vale per tutti, ma che tocca vertici inesplorati nel caso dei due vitigni principi dell’azienda: il Sangiovese e il Cabernet Franc.

Il Sangiovese

Espresso in purezza nel Petruccino, nel Petrucci Anfiteatro e nel Petrucci Melo, il vitigno si presenta in una veste inedita, estremamente fine e beverina. Nessun eccesso selvatico al quale questa bacca spesso soggiace, mentre tutte le sue virtù sono esaltate al meglio. Grande struttura, un’acidità rinfrescante e mai astringente, tannini ben presenti ma di seta, una splendida rotondità data dal legno perfettamente integrato.

L’Anfiteatro 2016 si potrebbe dire più immediato, con sentori di amarena, scorza d’arancia rossa, pepe nero, erbe balsamiche e lievi note carnacee assolutamente gradevoli. Equilibrato, intenso, ampio: un vino che invoglia, più e più volte, all’assaggio.

Il Melo 2016 presenta note più scure, di more e mirtilli, una mineralità più accentuata tradotta nella pietra focaia e in generale un naso più sottile e austero. Il tutto si ritrova fedelmente al palato, che rivela un vino da scoprire lentamente, dalla incredibile capacità di invecchiamento.

Il Cabernet Franc

Colta l’incredibile attitudine di Vigna Orniello, che dava risultati eccezionali, dal 2016 si è deciso di abbandonare il blend di Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, per produrre il primo Cabernet in purezza. Un lavoro difficile, perché con questo vitigno pare di essere sempre sul filo del rasoio: se è verde è destinato a restare tale per poi tendere alla grassezza, ma se è portato a giusta maturazione può dare risultati incredibili.

Nasce così il Guardiavigna 2016, un vino profondo e complesso, di grandissima piacevolezza. Il naso unisce la rosa rossa al peperone crusco, il pepe bianco e le noci al cacao amaro. Al palato è gradevolmente salino, avvolgente, di grande eleganza. Uno dei più alti esempi di Cabernet Franc in purezza.