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Osteria di Giosano, Izano (CR), di Alberto Cauzzi

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In questa terra di mezzo, tra le nubi del cremasco e del cremonese mi sento decisamente a casa. Sarà la vicina città natale del godurioso Tognazzi, che è anche la mia terra d’origine. Sarà quel profumo invernale di terra bagnata, in una fredda domenica di fine Febbraio, e chi lo sa. Saranno forse quei fantastici marubini ai tre brodi, che mi ricordano tanto quelli che mi preparava la mia nonna paterna. O sarà forse stata la temperatura del brodo, incandescente, che, mi ha riacceso il ricordo dei miei avi e la loro singolare tradizione : un bicchiere di buon vino rosso nel brodo, per portarlo ad una temperatura corretta, si diceva. Io sorrido, ripensando a quel gesto, perché lo vedevo e lo vedo tanto una scusa per bere un bicchiere in più, o forse no. Si sta bene all’osteria di Giosano. Tra un piatto di salumi misti in cui spicca quel cotechino, nascosto laggiù, di qualità e cottura impeccabile. Passando per quei tortelli cremaschi, rivisti nella proporzione per adeguarli ai palati foresti. E per una sensazionale zuppetta di lumache e porcini, nonchè un sorprendentemente fresco e croccante fritto misto (singolare da queste parti).

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Eccoci nell’elegante palazzo quattrocentesco al centro di Piacenza, quartier generale di Filippo Chiappini Dattilo, cuoco gentiluomo con una spiccata predilezione per la cucina d’oltralpe ma i piedi ben piantati nella tradizione piacentina, figlia di un terra di confine che è si emiliana ma, allo stesso tempo sensibile ai sapori provenienti dalla Riviera ligure, dalla collina piemontese e dalla Bassa lombarda.
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Kruishoutem dall’Italia è lontana, adagiata nelle Fiandre, un puntino tra le grandi distese pianeggianti del Nord.
Il navigatore sarà il vostro, necessario, compagno di avventura. E’ facile perdersi in Belgio, è facile perdere l’attenzione quando il paesaggio è sempre uguale, nessun declivio, cielo grigio e bruma invernale lo renderanno ancora più noioso.
L’Hof Van Cleve è lì, in una casa di campagna, come ce ne sono tante da quelle parti. Peter Goossens ci ha creduto, è dal lontano 1992 che officia in quelle candide cucine. Esperienza pregressa come pasticcere dal sommo Lenotre, 5 anni di intensa gavetta e grande disciplina. 20 anni fa la sua creatura era un semplice bistrot, piatti della tradizione belga con qualche spunto innovativo, dopo poco la svolta, a partire dagli ambienti, sempre più curati, ma di un lusso sommesso. La Michelin iniziava ad accorgersene, in rapida sequenza una (1994), due (1998), tre (2005) stelline a brillare nel firmamento dei grandi cuochi europei.
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La cura maniacale nella scelta delle materie prime di Aimo Moroni.
La precisione tecnica dei delfini ducassiani, Jean-François Piège e Franck Cerutti.
La ferma visione di dove volere portare la propria cucina, di Alain Ducasse.
Non manca certo il curriculum a Piergiorgio Siviero, pur nella sua giovane età ha avuto modo di verificare di persona le doti di questi grandi interpreti della cucina contemporanea.
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Non dico nulla di nuovo raccontando che Fabio Barbaglini è uno dei pochi cuochi che ha sempre toccato le mie corde emotive più profonde, con la sua cucina colta, innovativa quanto classica, irriverente quanto smodatamente personale, provocatoriamente sbilanciata ma al contempo finemente equilibrata nei suoi eccessi. L’emblema della sua cucina è un piatto, ma potrei citarne tanti altri, che è entrato nella mia personale top five di tutti i tempi e che continua a rimanerci, dopo molti anni ormai trascorsi da quel primo interminabile ed intenso assaggio : sogliola cotta nello champagne, salsa orzata e martini dry, porri stufati al limone. C’è tutto il concentrato di barbagliniana memoria in questo piatto. C’è personalità, c’è un fine ed elegante sbilanciamento gustativo verso l’acido e l’ amaro, c’è quindi l’esplorazione di gusti e sfumature tutt’altro che ruffiane ed appaganti, c’è senso della proporzione (per chi ha avuto modo di vedere e degustare il piatto). C’è l’irriverente e provocatorio rimando al classico, con una sogliola alla mugnaia trasformata e proiettata nel secondo millennio tramite l’esasperata rivisitazione della salsa al beurre blanc, con una sferzata nella direzione amaro-acida. Della ricetta originale è rimasto solo l’elemento/ingrediente principale, relegato a comprimario da una salsa comme il faut, in cui tutta la personalità del cuoco esce con prorompente vigore.

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