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Serica

La Via della Seta, a Milano

“Serica che bella sorpresa” apostrofava Carlo Passera nel suo articolo di qualche tempo fa. E dobbiamo dire un sincero grazie a Carlo per aver scoperto questa graziosa bomboniera in viale Bligny, a due passi dalla Bocconi.

Mauro ed Elisa Yap sono figli d’arte: seconda generazione di una famiglia di ristoratori cinesi che ha dato lustro a molti locali milanesi, decidono di aprire un locale tutto loro, svincolati dai genitori. Incontrano nel loro percorso Chang Liu, cuoco con tante esperienze alle spalle tra cui la partecipazione a un’edizione di Hells Kitchen Italia ma, sopratutto, al di là di pur importanti stage all’estero, il passaggio per qualche anno nelle cucine di Yoji Tokuyoshi.

È quest’ultima esperienza, a nostro avviso, a segnare il suo giovane talento. Nella cucina scintillante e sorprendente di Chang Liu si scorge tutta la filosofia della contaminazione che Tokuyoshi ha appreso e assimilato alla corte di Massimo Bottura. Un’idea che nulla, badate bene, ha a che fare col concetto di fusion, dove il pane si trasfigura in Bao e il piatto articola concetti paradigmatici come lo Youtiao e la caponata, ovvero un impasto fritto oblungo tipico della colazione cinese qui combinato con una sicilianissima caponata. Ma c’è anche il Bao con la trippa e l’istrionico, cangiante piatto di spaghetti, granchio e zenzero candito. Ultimo ma non ultimo, il Gelato alla patata arrosto, crema al latte, tempura, nocciole caramellate, polvere di salvia, rosmarino e tartufo bianco in cui viene scimmiottato il gelato fritto, piatto fake della cucina cinese, qui nobilitato da un contorno intrigante in termini di sapori e idee.

Il tutto, orchestrato da un servizio di livello, benché migliorabile, e un conto da encomio a chiudere il cerchio perfetto di un’esperienza che, si diceva, ci ha piacevolmente stupito. Quanto questa originalità saprà andare oltre e costituirsi come creatività solida lo dirà solo il tempo. Che abbia già sparato tutte le sue cartucce o sia solo all’inizio di un fulgido, scintillante percorso, è troppo presto per dirlo.

Noi ci auguriamo di trovarci, ça va sans dire, di fronte alla seconda ipotesi.

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Un grande chef al servizio della cucina

Non c’è niente da fare: quando Paolo Lopriore si lancia in una nuova avventura, riesce non solo a far parlare di sé ma anche, come ha sempre fatto, a mettere in discussione l’alta ristorazione fin dalle sue fondamenta. In passato, al Canto in particolare, lo chef comasco aveva contribuito quanto pochi altri a cambiare il palato collettivo della cucina gourmet. Il reiterato battere sulle corde dell’amaro, le consistenze al confine tra tattile e impalpabile e le violente acidità avevano contribuito a portare alle estreme conseguenze la lezione marchesiana. Nell’ultimo lustro al ristorante Il Portico, invece, Lopriore ha lavorato soprattutto sul senso sociale e sulla struttura formale dell’esperienza gastronomica. Il risultato è la cucina conviviale, in cui il processo creativo viene restituito nelle mani dell’avventore, che compone a piacimento il proprio piatto a partire dagli elementi presentati dalla cucina all’insieme della tavola, secondo un meccanismo che può essere aleatorio o per prove ed errori.

Interessante anche la formula di mezzogiorno

Quanto detto sopra è valido per il percorso della cena e per il pranzo del sabato. In settimana, a mezzogiorno, si può, invece scegliere liberamente uno dei tre piatti proposti quotidianamente dalla cucina e suddivisi secondo il più logico dei criteri: carne, pesce o vegetariano. Ogni preparazione è strutturata come a cena: due/tre elementi principali di grande solidità e altri elementi di supporto, quali salse e condimenti ad alto tasso di intensità gustativa. Grazie all’utilizzo di tagli e pesci poveri, di elementi già presenti nella carta serale e di materie prime non eccessivamente costose, l’accessibilità della formula va di pari passo con la soddisfazione della clientela tanto che, a ogni nostra visita, vediamo la clientela locale avvicendarsi perfino ai tavoli del ristorante. La minuta carta dei vini completa l’offerta di una pausa pranzo dal rapporto felicità/prezzo praticamente insuperabile.

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Una villa dall’inarrivabile fascino, una proprietà coraggiosa e uno chef talentuoso per un connubio perfetto tra lusso e cucina d’autore

Secondo alcuni è il più bell’albergo d’Italia. Noi, senza entrare nel merito della classifica, non possiamo che confermare che Villa Feltrinelli sia un luogo semplicemente incantevole.

Costruita a fine ‘800 dalla famiglia Feltrinelli, la villa, in stile liberty, è un pezzo di storia italiana anche per il fatto che, tra il 1943 ed il 1945, Benito Mussolini vi trascorse gli ultimi giorni della sua vita. Oggi Villa Feltrinelli è un esclusivissimo albergo -con sole 20 stanze- che si rivolge ad una clientela per lo più internazionale (soprattutto americana) di altissima fascia.

Dotata di una vista tra le più belle del Lago di Garda, circondata da un parco da sogno di 80.000 mq, in cui tra le piscine, la darsena privata e un campo da golf fanno bella mostra di sé anche una bellissima limonaia e l’orto, fortemente voluto dallo chef Stefano Baiocco.
Anconetano di 45 anni, lo chef ha un curriculum impressionante che parte dall’Enoteca Pinchiorri, passa per Parigi da Alain Ducasse e Pierre Gagnaire, e quindi in Spagna da Ferran Adrià, solo per citare le esperienze più importanti.
Tornato in Italia, dopo aver ricoperto il ruolo di sous-chef al Rossellini’s di Ravello riceve la chiamata da Villa Feltrinelli, dove assume il ruolo di Executive Chef del ristorante dell’albergo.

A pranzo il ristorante, aperto per la sola clientela dell’albergo, propone una cucina più semplice, di stampo più internazionale e mai troppo complicata.

La sera Baiocco propone la sua cucina prettamente ai clienti dell’hotel e ai pochi ospiti esterni (avendo il ristorante una capienza max di 40 coperti), senza disdegnare le richieste di una clientela non facile, spesso portata ad avanzare richieste stravaganti, ma a cui non si può mai dire no.

Coraggiosa la scelta di proporre una cucina non semplice e non ruffiana in un grande albergo

Una cucina estremamente elegante, caratterizzata da marcate note vegetali e floreali.

Iniziamo con quello che è diventato ormai il suo signature dish, Una semplice insalata…: più di 100 erbe diverse per un piatto anarchico, difficile, una pennellata d’autore al servizio di innumerevoli tonalità di gusto, 100% vegetali. Non è da meno il Sandwich di Wagyu e Shiso verde in cui acido e amaro giocano a rincorrersi, in un piatto non facile servito in maniera spiazzante come seconda portata a conferma di una cucina che non ha paura di osare nonostante il contesto, come testimoniato dalla semplice rilettura del Pinzimonio che colpisce per originalità ed equilibrio.

Meno convincenti ci sono sembrati  gli Spaghetti freddi con granchio e caviale, un po’ acquosi a causa dell’eccessiva acqua di pomodori (fredda anch’essa), così come non ci ha entusiasmato l’ennesimo maialino della nostra vita, tenero e ben eseguito, ma ormai più che standardizzato. Il livello risale in coda con un dessert che porta con sé echi di Max Alajmo: Cappero, caffè e maggiorana. Di grande livello.

La carta dei vini ha ricarichi proibitivi ed è interamente italiana (con tanto Nord e poco Sud per la verità), fatta eccezione per qualche grande Champagne mentre il servizio è adeguato al contesto e, dunque, di ottimo livello.

In conclusione, non si può non rimarcare la bravura dello chef e quanto sia illuminata la proprietà (oggi russa) a concedergli la libertà di osare e di proporre, senza troppi vincoli, la sua cucina. Il contesto, i conseguenti elevatissimi prezzi (basti pensare che per una degustazione vini di livello assolutamente “normale” abbiamo pagato 100 euro a persona) e il ridotto numero di coperti fanno sì che la clientela del ristorante sia composta in maggioranza dai facoltosi ospiti dell’albergo.

Baiocco resta uno chef tra i più bravi e meno conosciuti dalla “normale” clientela di ispirazione più spiccatamente gourmet, sebbene la sua cucina meriterebbe di essere frequentata e conosciuta maggiormente, aldilà dei fortunati ospiti della Villa.

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A pochi chilometri da Milano plin, brace e pizze gourmet

Rognano, di sicuro un posto sconosciuto ai più, nel crocevia tra Milano e Pavia, è un paese piccolo, con una sola realtà ristorativa, ma salda sulle forme “gastro-architettoniche” delle classiche cascine lombarde. Gli elementi ci sono tutti: orto, animali, aia, fienile e pure la famiglia numerosa, i Ricciardella, a lavorare nel ristorante di famiglia Cascina Vittoria. Marco, il più grande dei quattro fratelli, che cura la sala, non nasconde la sua passione per i vini naturali, dove gli amanti della triplice A e non, nella carta dei vini troveranno di che dilettarsi. A ciò si affiancano la passione e la tecnica del fratello Giovanni, chef di appena 26 anni, al cui attivo conta già esperienze di tutto prestigio sotto gli insegnamenti di professionisti del calibro di Oldani e Cannavacciuolo.

Un giovane chef spregiudicato, ma che ama gli ingredienti più genuini

Giovanni Ricciardella, non pago della sola sfida ai fornelli, si cimenta anche nel mondo del lievitato, pane e focaccia, ma soprattutto la pizza. Ecco allora le pizze gourmet, con tanto di menu degustazione dedicato. Pizze da gustare magari precedendo o seguendo un piatto di Plin ai 40 tuorli (rigorosi di cascina), ripieno di midollo, con burro e zafferano, fondendo così tra Piemonte e Lombardia, l’eco dell’esperienza vissuta sul Lago d’Orta.
Nel Risotto zucca, gorgonzola e liquirizia la dolcezza della prima, viene mitigata dalla carica irruenta dell’erborinato scelto volutamente più stagionato, chiudendosi in un allungo piacevolmente sinuoso e non invadente, con la liquirizia: bestia nera (ops!), per alcuni, asso nella manica per altri. Unica pecca, forse, nel piatto la cottura del riso leggermente avanti rispetto “al dente meneghino” o veneto.
Altro argomento: il forno a legna non si riduce al solo lievitato, ecco infatti, arrivare anche tagli di carne, di invidiabile marezzatura, come le lombate di manzo cotte intere grazie al calore delle braci, rivelando lati golosamente ancestrali più che mai attuali.
Nel percorso di degustazione, trova spazio anche un predessert caco, ricotta e crumble al fondente, dove la carica zuccherina del caco in questo caso, troppo bassa per una stagionalità non centrata, insieme all’amaro del cacao, non traghettano in maniera convincente. Di natura, invece, completamente diversa il dessert dove la “Finta” panna cotta, al sifone, interagisce tra l’acido e l’asprezza dei frutti lamponi, con l’amaro del mou, regalando interessanti note, quasi di rabarbaro in questa interpretazione di un classico italiano.

Quello di Cascina Vittoria è un indirizzo ghiotto, tanto quanto la molteplicità dell’offerta proposta, che, tuttavia, rischia di essere compromessa dai tempi di attesa piuttosto lunghi. Di sicuro, la valutazione non ancora espressa in valore numerico, ma simbolica a pieno punteggio, vuole essere da stimolo a questa insegna per il salto di qualità nella dimensione ristorativa a tutto tondo: completa e coerente. Quel salto, di sicuro, non tarderà ad arrivare.

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