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Repubblica di Perno

Una repubblica che tende alla diarchia

Per Burrhus Skinner “cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto”, una definizione che potrebbe essere benissimo traslata al concetto di cucina della Repubblica di Perno. Infatti, Marco Forneis lo chef e patron di questo avamposto gastronomico, dopo varie peregrinazioni e una carriera nei ristoranti fine dining, ha deciso di cambiare rotta e proporre una cucina piemontese dall’esecuzione tecnica ineccepibile. Completamente solo in cucina, gestisce la piccola manciata di coperti del ristorante con un menù di impronta langarola e sempre disponibile a esaudire le richieste dei commensali.

In sala l’alter ego di Marco, Elena Miori, sua compagna anche nella vita, è abile nel consigliare i clienti sia sul cibo che sul vino, supportata da una carta transnazionale originale e ricercata.

Una moderna cucina di Langa

Come si è detto la cucina attinge a piene mani dalla tradizione piemontese e si fa ricordare non solo per la bontà dei prodotti impiegati ma anche per le tecniche di esecuzione e le cotture millimetriche. Un esempio è la finanziera, che colpisce per l’equilibrio e la “delicatezza” dei sapori: giardiniera, filone, animelle, creste di gallo, polpettine di vitello e un odore di Marsala a sublimare e armonizzare il tutto, per un’esecuzione da applausi

Molto buona la battuta di carne, quasi francescana nell’aspetto, condita col tartufo bianco. Il tubero pregiato è stato protagonista anche di un perfetto tajarin al burro e un classicissimo uovo fritto. Piccolo capolavoro, invece, il coniglio con i peperoni, tanto semplice quanto gustoso, portata che ha richiesto un doveroso bis. Nel segno della tradizione anche il reparto dolci con un’ottima torta di nocciole e zabaione su tutti.

Qui alla Repubblica di Perno ci si diverte e si vedono anche i proprietari divertirsi nel rito dell’accoglienza; una piccola bomboniera consigliatissima per chi volesse mangiare una classica cucina piemontese eseguita in maniera davvero esemplare.

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Una terrazza affacciata sulle Langhe

Che piacere poter constatare, di persona, quanto il vivaio delle giovani promesse della gastronomia italiana stia dando i suoi frutti, in questo caso anche stellati con uno chef del calibro di Pasquale Làera (con lettera accentata come giustamente specificato nel suo menù). Sembra un gioco di parole ma Pasquale Làera, in Langa, lo era già e la è rimasto, spostandosi solo qualche bricco più in là, nel suo nuovo Borgo Sant’Anna: un progetto a quattro mani con il direttore di sala del La Rei del Boscareto, oggi al Borgo.

I due, conoscendo vicendevolmente le rispettive lunghezze d’onda, hanno qui risolto, ed egregiamente, l’equazione tra sala e cucina, facendo di Borgo Sant’Anna il classico complesso dal sapore piemontese che, tra i suoi vicini di casa, allunga lo sguardo tra colline vicine dell’Alta Langa e vitigni, alcuni leggendari, come i 14 ettari del vigneto Francia, che Conterno sublima nelle sue bottiglie di Monfortino. Una terrazza, quella del Borgo, dove poter ammirare e godere di uno scenografico paesaggio abbinato ad una macchina di sala che, precisa ma senza ingessature, muove i suoi passi.

In cucina la mano di Làera mostra, senza troppi manierismi, l’amore per le sue origini: la Puglia così eterogenea nei prodotti, così ricca nelle sue declinazioni gustative. Il menù arride agli ultimi sprazzi estivi, ponendosi ai blocchi di partenza per quella che sarà l’opulenta sontuosità piemontese dell’autunno. Predilezione per la fresca golosità mediterranea unita alla vis creativa danno come risultato piatti di ottima fattura come le rane fritte, pomodori, pesche ed enkir, dove la proteina incontra ben cinque diverse varietà di pomodoro coniugate alla dolcezza della pesca e alla texture dell’enkir di intrigante masticazione. L’antologica rana fritta cede così compita la sua rilevanza a favore del vegetale, enfatizzato dalle diverse tipologie di pomodoro.

Sul versante dei primi alcuni dubbi sul risotto con gamberi di fiume, maiale nero ed erba pepe, dove l’eccessiva grassezza tra bisque e testina fondente di maiale sembra dominare il piatto. La calibratura perfetta ritorna nell’animella alla brace, friggitelli, cipolle in insalata e mole verde piemontese. Un piatto che distilla il presente storico di Làera unendo Puglia e Piemonte con tocchi anche sudamericani nella ripresa della ricetta del mole, ma in Langa style grazie all’uso sapiente del tono agro.

La piacevolezza del luogo coniugata alla cucina, che spazia come detto tra due regioni, costituiscono lo scenario perfetto per questo cuoco, di cui enfatizziamo una maturità tecnica e palatale che sempre più, in Italia, ci stiamo abituando a vedere.

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Da e in tavola

L’Italia, oltre ad avere il primato in termini di quantità prodotta, di uva e di vino poi, vanta anche un numero di cultivar che supera il migliaio. Diventa dunque complessa una classificazione di questo frutto che, nella vita quotidiana, in stagione, vanta una molteplicità di dimensioni, colori e sapori e, soprattutto, destinazioni d’uso. Già, perché l’uva si presta come dessert, a fianco ai formaggi o come ingrediente in cucina. Anche nelle cucine stellate. 

Con Sergio Fessia di Ortobra parliamo delle uve che troviamo, soprattutto in questo periodo, sulle tavole italiane: uve dolci, con o senza semi. Dai grappoli grandi e gli acini turgidi, dorati, bianchi, neri, rossi e rosa.

Colori e forme, l’uva nella storia e nei mercati

Se in Italia l’uva da tavola più commercializzata, e popolare, resta quella denominata, appunto, Italia, c’è da sottolineare come la il suo colore verde-oro sia uno degli aspetti su cui più puntano i consumatori, almeno nel nostro Stivale. La buccia è spessa e croccante, l’uva è dolce e gustosa. Da godere a fine pasto o merenda. A Taranto la si raccoglie anche prima del Natale ma, al suo fianco, e con la paritetica popolarità, prosperano l’uva Vittoria e la Regina.

In tutti i casi si potrebbe dire “nomen omen”: la prima è una bacca più precoce e che infatti si inizia a raccogliere tra luglio e agosto, di colore giallo molto intenso con bacche piuttosto grandi e compatte, mentre la Regina rientra nella classificazione delle uve antiche, dalla buccia secca una carica aromatica importante, è tra le più coltivate nel Mediterraneo, molto diffusa in Puglia e in Sicilia, due regioni in cui si concentra invero la maggior produzione di uve da tavola della nostra penisola. In Puglia, Adelfia (BA) è una vera e propria capitale dell’uva. Sempre al sud, c’è l‘uva Panse, un’uva precoce bianca che si trova sugli scaffali già ai primi di settembre.

Non ultima, tra le varietà bianche italiane che riscuotono un grande successo c’è la Luisa, bacca dai semi più croccanti, gradevoli anche da masticare. Al gusto non infastidiscono affatto, non si percepiscono sensazioni amare o aspre, forse più erbacee e acide. 

Quanto alle bacche rosse, due sono quelle che riscuotono maggior successo: il Moscato d’Amburgo e l’Uva fragola.  La prima, nata dall’incrocio del Moscato d’Alessandria e Schiava grossa, vanta una produttività più che soddisfacente e, nonostante l’aspetto del grappolo, che potrebbe risultare irregolare, grazie alla sua dolcezza e piacevolezza è coltivata con successo anche in Francia, California, Grecia e Gran Bretagna. L’uva fragola, invece, è quanto di più goloso e nobile non ci possa essere per gli amanti delle uve rosse. Assai celebrata in cucina, è una varietà statunitense con un sapore dolce e chicchi di grandezza medio-piccola, che rilasciano un quantitativo di dolcezza e tannicità ineguagliabili. Chicchi che, s’è detto, la rendono particolarmente cara agli chef che la impiegano come ingrediente o come accompagnamento, ad esempio a un plateau di formaggi. In Italia viene coltivata soprattuto al Nord, e da sempre si appezza la sua solidità, anche nei confronti delle malattie. 

A influenzare la domanda, la cromia in primis, che ci si aspetta essere più gialla che pallida, almeno in Italia, ove il mercato predilige uve con un colore giallo acceso a differenza del resto d’Europa, che apprezza bacche più neutre, bianche, con un profilo che riporta alla panna o al bianco carta. Un’uva gialla più gourmet, dunque, saporita in contrapposizione ad altre varietà, nate anche da incroci, che hanno richiesto tempo per la loro materializzazione. Incroci riusciti e ricercati per ottenere bacche senza semi, uno dei più importanti marker, oltre il colore, che più determinano il successo nei consumi dell’uva da tavola. 

Senza semi

Ci sono voluti vent’anni! – spiega Sergio Fessia – Si è partiti da uve con pochi vinaccioli e dopo incroci si è poi arrivati all’ottenimento di uve senza i semi, sebbene questi siano fondamentali per la comprensione del livello di maturazione dell’uva. Non c’è analisi che tenga infatti, l’assaggio del chicco d’uva è una delle pratiche più antiche ancora usate soprattutto dai produttori di vino. Il consumatore di uva da tavola si aspetta chicca grandi e saporiti e, soprattutto, senza semi.”  A ciò si lega anche un altro aspetto merceologico, quello del prezzo, che “si basa sul costo della manodopera e dei tendoni posti sopra i filari. Tendoni che vanno cambiati almeno una volta all’anno e il cui smaltimento è importante. Durante il ciclo vegetativo, prima della vendemmia, sono poi necessarie numerose operazioni manuali per garantire un livello qualitativo ottimale.”

La questione del prezzo

Come detto, il prezzo finale dell’uva non può prescindere da fatto come questi, che chiameremo “umani”. In Puglia, dove il suolo è costituito da rocce d’origine calcarea, si deve innanzitutto “trasformare” il terreno per renderlo coltivabile, operazioni che arrivano a costare anche fino a 14.000€ all’ettaro. Oltre a questo, si aggiunge il costo della realizzazione della struttura del tendone e relativi materiali necessari atti a proteggere le uve da agenti atmosferici o dagli insetti. E senza dimenticare che in un allevamento che separa la zona produttiva da quella vegetativa i grappoli maturano lontano dall’irraggiamento del sole.

L’uva nel piatto

L’uva può fungere da acceleratore del dolce oppure, per contrasto, come punto di rottura, in una salsa in cui a dare l’equilibrio, del tutto nuovo, possono concorrere l’astringenza e la durezza del tannino, sia esso più croccante o più oleoso. Il seme, o vinacciolo, rilascia del resto sensazioni che vanno dall’amaro all’acido, finanche astringente oppure, ancora, di frutta secca. Ecco di seguito quale interpretazione indimenticabile.

La Madernassa

Un piatto tecnico e tannico, ben eseguito, dove la tannicità dell’uva resta un elemento in totale contrasto con l’amido e col garum… 

… e l’edizione precedente

L’Arcade

Un piccolo intermezzo prima del dolce che, cambiando consistenza e temperatura, della frutta autunnale, regala grande soddisfazione e freschezza.

Cucine Nervi

Il tocco finale di un piatto giocato sui contrasti dolci. D’ispirazione francese, il fondo più solido e coprente si alleggerisce con la freschezza dell’uva e delle barbabietole.

Opera (coming soon)

Una materia prima di grande qualità, la cottura millimetrica , precisione millimetrica nella cottura, la salsa all’uva conferisce un tocco di dolcezza e acidità.

St. Hubertus

I peculiarissimi primi piatti di Norbert Niederkofler sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo, gioca con le acidità come solo il maliardo della Val Badia riesce a fare.

Inkiostro

L’arte in cucina di Terry Giacomello e questo piatto iper complesso, che fa dell’uva una marinatura, e dunque la presentificazione dell’assenza.

Zia

La personalità di Antonio Ziantoni è evidente, in questo piatto in cui sapienti tocchi che arricchiscono di sfumature l’ingrediente principale allungando, intensificandola, la persistenza dei piatti.

Trippa

Continua a rieditare la tradizione senza troppi tecnicismi e tanto amore per la materia questo piatto, che riprende un grande classico delle conserve domestiche.

Il bianco “francese” di Rocche dei Manzoni

La scrittura ha, fra i tanti, un pregio: fissare, attraverso l’articolazione di un’espressione razionale, l’emozione della sensazione inintelleggibile. Bloccare, in un eterno, il sussulto emotivo dell’esperienza estetica, magari accentuata dall’inaspettata sorpresa.

Chi scrive non ha bevuto tutto il bevibile, né tantomeno sostiene di averlo fatto. E proprio per questa “lacuna consapevole” è sempre attento a seguire i suggerimenti di coloro che, per ventura e passione, ‘ne sanno di più’. Anche perché, più spesso di quanto si pensi, nelle loro parole ‘vicende’ e ‘personaggi’ del passato ancora si palesano nel nostro presente.

Accade spesso, ai tavoli del glorioso Il Cigno (ristorante mantovano che, per primo, già negli anni Settanta ha portato la tradizione gonzaghesca sul palcoscenico dell’alta gastronomia nazionale), che Tano Martini trasporti – come attraverso lo specchio varcato da Alice – ospiti e amici in un antecedente prossimo di emozioni e ricordi. «Aspetta, questa volta il vino te lo porto io»: e come non fidarsi del Tano e della sua cantina, ricchissima di annate storiche, conservate (a temperatura e umidità costanti) nelle sotterranee, labirintiche stanze di un antico palazzo quattrocentesco?

Eccolo, quindi, il “vino”, un’ultima bottiglia che, scivolata dietro altre, era stata dimenticata: L’Angelica di Rocche dei Manzoni (Monforte d’Alba), nella prima annata prodotta: 1989, con la sua magnifica etichetta Belle Époque, stampata su una carta che pare una filigranata di Fabriano. Chardonnay in purezza, quindi, in un anno segnato dalla Storia che, oltre alla caduta dei regimi comunisti dell’Est, ha pure regalato fra i bricchi, e ben lo sanno gli appassionati, eccelsi Baroli.

La storia della famiglia Migliorini e de L’Angelica

L’epopea della cantina Rocche dei Manzoni e del suo fondatore, Valentino Migliorini, sono note, come note sono le tante innovazioni che questo ristoratore caorsano, appassionato di vino, ha introdotto in Langa (prima fra tutti l’utilizzo della barrique, poi il primo assemblaggio, 1976, e la prima bollicina, 1978). Non staremo perciò a ripercorrerle. Ma da dove nasce lo Chardonnay a Monforte? Vicende e personaggi che si intrecciano, si scriveva in apertura. E il Tano lo ricorda bene. Si era a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta e un ristretto gruppo di giovani ristoratori (Antonio Santini, Roberto Ferrari, Valentino, il Tano stesso e pochi altri), appassionati del loro lavoro e alla scoperta del vasto mondo del vino, erano soliti incontrarsi a Maleo, ai tavoli di Franco Colombani (colui che, dal 1975 al 1979, detenne la carica di presidente dell’Asi, Association de la sommellerie international). E proprio ai fratini de Il Sole nacque Linea Italia in Cucina. E sempre da lì, spinti dal mentore Colombani, questi giovani partivano alla scoperta della Francia: delle sue celebrate grande tables e dei suoi Domaine e Châteaux. Quanti viaggi in Borgogna! A volte ognuno per proprio conto. Ma assai più spesso in compagnia. E che emozioni davanti ai cru della Côte de Nuits e della Côte de Beaune. E quindi, ogni volta, per Valentino, il sogno, sulla via del ritorno, di tentare altrettanto in Italia. Se il Nebbiolo poteva rivaleggiare col Pinot Noir, perché non provare anche con lo Chardonnay?

Gaja aveva già vinificato Chardonnay a Barbaresco (la prima annata di Gaia & Rey risale al 1983). Ma Valentino voleva qualcosa di più, e di diverso. Qualcosa di più intensamente piemontese, ma soprattutto di più francese.

Rocche dei Manzoni rivendica su proprio sito questo pensiero, senza paura: «L’Angelica segna indiscutibilmente il percorso di Rocche dei Manzoni: un percorso francesizzante poiché è un vino che guarda molto ai bianchi di Borgogna, si può dire un vino rosso vestito da vino bianco».

Nasce così, dalla passione per la Francia, dall’amicizia sodale sviluppatasi con Colombani e con gli altri “ragazzi” che volevano cambiare volto alla ristorazione nazionale, questo vino che, attraverso oltre tre decenni, “racconta un racconto” che deve essere trasmesso e conosciuto.

Ma com’è questo L’Angelica 1989? Per fortuna, per narrare l’esperienza, c’è la scrittura! Come fare altrimenti a fissare le molteplici emozioni di questo inatteso bicchiere?

Langhe Chardonnay Doc L’Angelica 1989

Appena versato è il colore a colpire. Il giallo, di un bel dorato non troppo carico, appare vivido e pieno. Senza rottura o cedimenti. Perfettamente cristallino. E senza alcuna traccia di quei toni ambrati che sarebbe normale aspettarsi da un bianco che è in bottiglia da ‘appena’ trentadue anni.

L’impazienza della prima olfazione non è ricambiata da prorompenza. Tutt’altro. Una nota di tenera e quasi infantile timidezza invade il calice. Che sia il carattere de L’Angelica? Che sia una bottiglia non più perfetta?

Tano Martini, sguardo sornione al di sopra dell’elegante, colorato papillon che da sempre contraddistingue la sua vita di ristoratore, chiama all’indulgenza: «aspetta, dagli un paio di minuti». Il tono sicuro di chi ‘ne sa di più’ rassicura. E così, dapprima piano, poi sempre più rapidamente, si dipana uno spettro olfattivo che spiazza nella sua opulente integrità: la ritrosia diventa intensità e la carenza ampiezza. I profumi, di qualità eccellente, raccontano di un vino pensato in terra di Borgogna, ma nato e cresciuto fra i bricchi di Monforte. «Forma di un sogno già sognato» – per dirla con un nobile verso di Borges – L’Angelica esplode in centinaia di rivoli: i fiori sono gialli, un attimo prima che inizino ad appassire.

Il frutto prende le agrumate forme del cedro leggermente candito ma anche della pesca gialla, spruzzate da note tropicali (mango? papaya?) e da una spiazzante quanto inusitata albicocca matura. Parallele corrono, modulate con eleganza, le spezie date dal legno: una sontuosa e appagante vaniglia su tutto. E quindi un pizzico di curry. E una punta di rinfrescante zenzero. La mineralità è fine oltremodo, e sostiene la trama olfattiva legando le sensazioni le une alle altre con sentori di polvere pirica e di selce.

È quindi in bocca che L’Angelica sfodera tutta la sua potenza e la sua classe. Morbido, senza essere eccessivamente caldo, colpisce per una freschezza che in nulla dimostra i suoi anni. Il sorso, ricco di materia e di verticale mineralità (con quest’ultima che non sopravanza né si sovrappone all’acidità), racconta di un vino di medio corpo, intenso e ampio senza essere ridondante. La struttura è elegante ed equilibrata e tende a una complessa rotondità mersaultiana (anzi, chi scrive è tentato di dire che proprio al territorio di Mersault guardò Valentino per ‘costruire’ questo vino) che sfocia in una persistenza oltremodo lunga e fine. Quest’ultima, senza cedimenti, procede su una scia improntata a pulizia e nettezza, richiamando, quasi come onde di eco, i riconoscimenti dello spettro olfattivo. L’armonia, in chiusura, è perfetta: sferica e gratificante. In sintesi: un grande vino di un grande uomo!

Dalla Calabria – alle Langhe – con furore e passione

Ci sono storie di resilienza che vale davvero la pena raccontare. Quella di Gennaro Di Pace, calabrese classe 1984, è una di quelle che fanno bene al cuore e alla mente, in cui l’amore per il proprio lavoro e la voglia di affrontare nuove sfide incontrano, in un preciso momento della vita. Momenti che hanno un sapore ancor più dolce se arrivano dopo aver intrapreso strade impervie piuttosto che percorsi lineari, comodi e meno rischiosi.

Gennaro Di Pace ha sempre avuto chiara la sua vocazione: avere un ristorante suo per esprimere delle idee con la cucina. Ci aveva provato in un luogo difficilissimo, in quel di Saracena, piccolo borgo calabrese, conosciuto per il rinomato e omonimo Moscato Passito, presidio Slow Food. Lì, qualche anno fa, quando ancora la regione non godeva di riflettori gastronomici particolarmente luminosi, esprimeva una delle migliori e concrete espressioni della Calabria.

Dopo molti sacrifici e soddisfazioni, però, ha dovuto fare una scelta che andasse incontro ad esigenze più importanti. Dopo una parentesi da consulente al Caffè Commercio di Vigevano, ha accettato l’offerta dell’imprenditore Gregorio Gitti, produttore di vini, di prendere in gestione il ristorante adiacente al Castello di Perno, borgo panoramico nel cuore delle Langhe, territorio in cui la concorrenza è serrata e il livello base dell’offerta ha uno standard qualitativo elevatissimo.

Un connubio non banale tra Piemonte e Calabria

Eccoci allora a sedere nuovamente e con grande piacere alla tavola di questo bravissimo cuoco quasi autodidatta (ha grande abilità tecnica anche grazie all’esperienza con il grande pasticcere bolognese Gino Fabbri), che propone una cucina di elaborazione classica, centrata nel gusto, armoniosa ma con qualche sorprendente sussulto gustativo, rigorosamente rispettosa del territorio circostante ed evocativa di quello d’origine, dove balza agli occhi il sapiente uso di ingredienti simbolo della Calabria, come l’ormai inflazionata ‘nduja o la cipolla di Tropea.

Il risotto al latte e nocciole, cedro candito e Moscato di Saracena è un perfetto esempio di un connubio ben innestato tra due territori (Langhe e, appunto, Calabria). Sempre restando in tema, abbiamo trovato impeccabile il risotto (Carnaroli Riserva San Massimo) con carciofi, limone e pepe di Giamaica, accompagnati da una salsa dall’accento transalpino, di grande goduria. Notevole anche il lavoro sulla materia prima locale, come nel filetto di fassona, appena scottato, in cui viene esaltata l’essenza di questa pregiata razza bovina, accompagnata da una demi-glace alla liquirizia da manuale. Ma sono piacevolissime anche le entrate vegetali, tra le quali menzioniamo la piacevole rivisitazione dell’insalata russa, alleggerita e ingentilita dalla gelatina al prezzemolo e da una maionese fatta con yogurt e limone.

Gennaro ha ormai acquisito ritmo e costanza, incrementando la sua vena creativa che lo porta a proporre sapori voluttuosi ma in cui la componente dolce – certamente presente – di alcuni ingredienti non ruba mai la scena nell’equilibrio finale del piatto che, nel gioco complessivo di consistenze, temperature e tonalità gustative, acquisisce una componente di piacevole finezza.

La sala è gestita da Rossana, compagna dello chef, artefice di una cantina in divenire – imprescindibile a queste latitudini – che, al momento, è principalmente incentrata sul Piemonte con qualche etichetta nazionale e francese. Si respira entusiasmo, qui a Perno, e siamo certi che questo chef calabrese saprà raccogliere grandi consensi con questa sua nuova sfida.

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