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Baita Piè Tofana

Cortina è tutto!

Perla delle Dolomiti, anfiteatro naturale d’eccellenza, luogo di sport da record, ma anche icona glamour per bon vivant: “Cortina è tutto!”. Sovente questa espressione sintetizza tale località, regina immortale d’alta quota dove baite e vette competono nella grande discesa libera tra lusso e stupore alpino. Se per un certo tempo il paradigma Cortina, sembrava indirizzato verso un nostalgico decadimento a vantaggio di vicine valli, oggi l’epicentro di Faloria, Tofane e Monte Cristallo ha riconquistato la sua egemonica posizione tra Campionati del Mondo di Sci, imminenti eventi olimpici e anche una vibrante riscossa saporita, che constatiamo con grande godimento. Apripista della new wave (va precisato, nella vicina San Vito di Cadore) furono Oliver Piras e Alessandra Del Favero, poi il duo Ludovica Rubbini e Riccardo Gaspari e, infine, l’Alajmo family che con consueta lungimiranza imprenditoriale ha scelto Cortina come suo avamposto montano nell’antologico El Toulà. Nomi importanti, ma anche giovani che con la loro intraprendenza e tenacia raccontano l’olimpiade gastronomica dove, appunto, bravura e competenza degli atleti del gusto si articolano tra le diverse specialità. In tale parterre, la nostra visita si orienta, su quella più in alto (con 1665 s.l.m), con la Baita Piè Tofana di Federico Rovacchi. Più in alto ma anche più giovane, a gareggiare con materie prime che escono dalla conca ampezzana e, di riflesso, nella loro manipolazione, onorano la tradizione circostante che le ospita.

Energia pura

Quella provata è una sequenza che esprime appagamento del cliente e livello tecnico e creativo di ciascun piatto. Materia interpretata correttamente, pregevole nella fattura quanto nella sua comprensione. Dettaglio importante per una clientela come quella di Cortina, alto spendente ma talvolta poco propensa alla sperimentazione gourmand. Tre i piatti di particolare menzione, piacevolmente inseriti in un servizio di sala giovane e dinamico. Il Coniglio grigio di Carmagnola in fricassea, verza, funghi e salsa di foie gras. Il coniglio, preservata l’umettatura delle carni grazie ad una cottura espressa e alla ricchezza sontuosa della salsa al foie gras, si allinea al corposo fondo che dona il tipico carattere da lunghe cotture. La verza, poi, crea alternanza di masticazione tra proteina e vegetale, con una incalzante cadenza d’inganno ad ogni boccone. Il Plin tonnato con fava di Tonka e olio alla nocciola ci è sembrato il piatto più intrigante della proposta: una madeleine proustiana… A bordo-pista. Il ripieno del classico plin, rimane quasi invariato se non fosse per l’impiego del pastin, la tipica salsiccia del bellunese, street food per eccellenza da queste parti e tra i must dell’inverno dolomitico. La forte speziatura insieme all’arrostitura catalizzano immediatamente la mente, in contraccolpi aromatici sedati dall’amaricante dolcezza della fava di Tonka impiegata. In ultima battuta il Maiale grigio del Casentino servito in triplice servizio: il carré arrostito alla brace e accompagnato da salsa romesco fatta però con l’nduja; la costina laccata bbq; il chorizo realizzato in casa e la pancia di maiale servita alla coreana con lattuga e riso soffiato. Il problema? Forse, capire da quale parte iniziarne a godere.

Le olimpiadi di Milano – Cortina sono previste per il 2026, Rovacchi e Co., insieme a tutta la meglio gioventù che da queste parti da qualche tempo opera, sono già partiti dai blocchi: energia pura, ci sarà da divertirsi!

IL PIATTO MIGLIORE: Plin tonnato, fava di Tonka e olio alla nocciola. 

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Auto-sussistenza in cucina, o quasi…

La filosofia “Cook the mountain” di Norbert Niederkofler (e Michele Lazzarini, oggi da Contrada Bricconi) ha rappresentato un’autentica rivoluzione nell’ambito dell’alta cucina di montagna, un approccio etico-filosofico-metodologico traslabile in qualsiasi contesto d’altura. Il SanBrite di Cortina d’Ampezzo – aperto oramai da cinque anni da Riccardo Gaspari e dalla moglie, Ludovica Rubbini –  è una delle schegge nate da quella deflagrazione (com’era l’AGA di Alessandra Del Favero e Oliver Piras, di cui si sente una grande mancanza), caratterizzata tuttavia da una particolarità: il concetto di territorialità viene qui radicalizzato, poiché la gran parte della materia prima utilizzata non è “semplicemente” di prossimità, bensì auto-prodotta (dall’agriturismo El Brite de Larieto, di proprietà della famiglia).

L’intento perseguito – quasi istruttivo – è quello di valorizzare le risorse del territorio, consentire all’ospite di “seguire” l’ingrediente dalla sua forma grezza sino all’utilizzo in preparazioni complesse, cogliere le sfumature della stagionalità nonché il sapere artigianale celato dietro alcuni prodotti. In quest’ottica, la narrazione – o storytelling – svolge un ruolo fondamentale, tanto quanto la cucina in senso stretto (correndo l’evidente rischio di proporre narrazioni più incisive di ciò che si ritrova, poi, nel piatto). Di conseguenza, un ruolo centrale è ricoperto dalla sala – precisa e molto chiara nell’esposizione dei piatti -, indispensabile trait d’union tra materia e contesto, da una parte, e ciò che viene portato in tavola, dall’altro.

Il fulcro è la materia

La rilevanza della materia è testimoniata dal fatto che il miglior passaggio dell’intero percorso è rappresentato da Filetto di Pezzata Rossa di quattordici anni, un boccone di carne di qualità non comune (la maillard avrebbe potuto essere più precisa), sì come gli affettati dell’agriturismo – pancetta, coppa e spalla affumicata – e il burro da panna di affioramento montato a neve. Una menzione merita, poi, un piatto iconico dello Chef, lo Spaghetto al pino mugo – il più sfidante -, in cui la pasta viene cucinata nel brodo, mantecata con olio al pino mugo e completata con del pane croccante: una balsamicità molto intensa che vira decisa verso le note amare (il pane croccante perde la sua consistenza a contatto con il brodo sul fondo). La cucina ha svolto un lavoro davvero molto interessante sull’eliminazione degli zuccheri dal fine pasto, ben sintetizzato da Disco ghiacciato di sciroppo di sambuco, polvere di yogurt bianco, base di ricotta, cremoso di carrube, frutti di bosco ghiacciati, brodo di levistico e germogli di abete rosso: un’incisiva valorizzazione della componente zuccherina già presente negli ingredienti (carruba e sambuco, su tutti), l’intreccio tra più note gustative – acido, balsamico, lattiginoso, etc. – ed uno stimolante contrasto di temperature (il disco ghiacciato fa venire alla mente un passaggio salato dell’ultimo menù di Emmanuel Renaut, altro grande interprete della cucina montana). Una volta giunti alla fine del pranzo, resta la sensazione che la materia prima di cui dispone consentirebbe al SanBrite di puntare su di una cucina ancor più essenziale e d’ingrediente, libera da riferimenti esterni.

IL PIATTO MIGLIORE: Filetto di Pezzata Rossa di 14 anni cotto alla piastra, sale Maldon, puré di patate, pesto di mandorle ed erbe aromatiche, spugnole, cavolo viola e fondo di manzo al vino rosso.

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Cucina solida e grandi bottiglie ai piedi delle Tofane

Una baita costruita in occasione delle Olimpiadi del 1956, nel cuore di quel comprensorio delle Tofane che ospiterà anche quelle del 2026, è il regno di Michel Oberhammer. Cortinese doc a dispetto di nome francese e cognome tedesco, ha affiancato al mestiere di commerciante e distributore di vini quello di ristoratore. Il progetto, ambizioso fin dalla prima ora, mira a schivare il lavoro caotico del bordo pista per dedicarsi a un’offerta più esclusiva, passando attraverso una attenta ristrutturazione “tutto-legno” e un’estrema cura dei dettagli estetici sia dell’arredo che della mise en place, con il risultato che l’atmosfera, soprattutto a cena, è diventata una delle più ricercate di tutta la conca ampezzana.

Anche la carta dei vini è arrivata rapidamente a contendere la palma della più completa a Baita Fraina e Tivoli, i due locali fino a quel momento dominanti sotto questo aspetto. Per trovare un assetto soddisfacente e stabile in cucina, invece, ci sono voluti un paio d’anni e un paio di cambi di brigata. Obiettivo, quest’ultimo, centrato all’inizio della stagione invernale 21/22, grazie a un trio di professionisti che ha scollinato Passo Falzarego, proveniente dal St. Hubertus di Norbert Niederkofler, per accasarsi da queste parti: Federico Rovacchi nel ruolo di chef, Nicole Grof in quello di sous-chef ed Elisa Prudente, compagna di Rovacchi, in sala.

Un nuovo passo avanti

I risultati sono convincenti: cucina trasversale fra terra e mare, piatti concreti e godibili, apparentemente semplici nell’impostazione e nelle presentazioni, ma in realtà arricchiti da dettagli e sfumature che dimostrano un’ampia base tecnica e un’ottima conoscenza della brace, che in diversi passaggi recita il ruolo di protagonista, talvolta forse anche eccessivo e ridondante. Un assaggio di coppa di testa di maiale fatta in casa, e si parte con l’animella di vitello, cotta da manuale, con salsa Choron e cavolo riccio alla brace oppure con il merluzzo, salsa al burro montata come un “beurre blanc” e da un’emulsione di mandorle e ostriche alla brace, olio al prezzemolo e nasturzio.

Si passa ai primi con il risotto mantecato con crema di sedano rapa alla brace, seppioline di Porto Santo Spirito cotte e crude e Bernese al nero di seppia, caratterizzato da una componente acida netta a donare freschezza; oppure a una golosissima zuppa di cipolle gratinata con fegatini di pollo e liquirizia, questa invece dalla marcata tendenza dolce. Tra i secondi, evidente l’alta qualità della materia prima nel controfiletto di vitello con zucca e broccolo fiolaro. Si chiude con la Brazorà, dolce-simbolo della tradizione ampezzana, purtroppo quasi del tutto dimenticato. Un nuovo passo in avanti per l’offerta gastronomica di questa valle di incomparabile bellezza.

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La baita del cuore, nella conca ampezzana

Come in una fiaba in uno degli anfiteatri montani più belli del mondo, le Dolomiti, tra i lussureggianti larici, guardiani del bosco che cingono el Brite de Larieto, la casa madre da dove Riccardo Gaspari ha iniziato la sua carriera di giovane promessa della gastronomia ampezzana.  Gaspari oggi, seguendo la più articolata realtà 150 metri più giù, alle porte di Cortina, interpreta il pensiero originario nel suo San Brite senza perdere il focus su ciò che ha reso celebre questo luogo fin dagli esordi, e dove abbiamo voluto ritornare: l’ingrediente e la sua filiera. Una filiera raccontata e valorizzata in ogni suo passaggio, dalla cucina al servizio stesso, incarnato da una sala cordiale, precisa ma soprattutto preparata e consapevole del potenziale che questa realtà detiene.

Ancora una volta, rimaniamo stregati dal burro. Nel florilegio italico, ma soprattutto d’Oltralpe, il feticcio del burro in tavola spesso si esperisce in una godibile, ma pur sempre comune, ricchezza. Quello del Brite, nella sua unicità di sapore e ariosità, concorre forse tra i migliori mai degustati. I formaggi, rigorosamente prodotti e affinati nel caseificio familiare, dirimpetto al ristorante, gareggiano tra loro in bontà. In egual misura anche i salumi e in formaggi, su cui indulgiamo a lungo tra caciotte, formaggi a crosta fiorita, lonze e pancette, chapeau! Lo speck, estromesso dal tagliere, diventa una portata a sé stante e declinato in una tartare molto convincente per masticabilità e dolcezza.

Del Brite la cultura gastronomica ampezzana ne è l’asse portante: i casunziei, nella loro sfoglia leggera a celare il ripieno setoso oppure i più decisi canederli coniugati con spinaci, formaggi e speck come sintesi tra fondenti ricchi bocconi. La sfida del Brite continua anche sui secondi dove l’estro creativo emerge maggiormente ma sempre in linea con l’alto livello materico: il diaframma di manzo con cipollotto, carota e yogurt o la ghiotta costoletta magistralmente laccata con indivia brasata sono solo due tra le creazioni che abbiamo potuto assaggiare nella nostra visita. Nessuna sbavatura: cotture bilanciate tra sapori e accorti abbinamenti.

I piedi, ben piantati nella tradizione e nella tecnica, non lasciano margine di dubbio: il Brite è, nel panorama gastronomico italiano, uno di quei luoghi che difficilmente si dimenticano.

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Nuova promessa nella perla delle Dolomiti

Cortina d’Ampezzo, perla incastonata in uno dei più famosi anfiteatri naturali fra leggende di pietra che si stagliano con affascinanti rosati riflessi, è il luogo dove ha preso vita il San Brite, propaggine gastronomica avanzata di El Brite de Larieto, agriturismo già di consolidata fama condotto dalla famiglia Gaspari.

Se casunziei & co sono già materia classica che lo chef Riccardo Gaspari padroneggia, l’idea di voler fornire una visione alternativa, pur mantenendo la stessa filiera di produzione di El Brite de Larieto, sembra quanto mai intrigante. Ciò che colpisce subito nei menu del San Brite è la volontà di far comprendere l’intenzione che ha portato all’ideazione del piatto, che rifiuta cliché o trend dell’anno a favore della valorizzazione delle materie prime del territorio.

Gaspari, sciatore professionista (è stato azzurro di sci) la stoffa del campione c’è l’ha tutta, merito forse  anche del coaching vissuto con le dinamiche della grande brigata dell’Osteria Francescana.

L’intenzione per comprendere la nascita di un piatto

Ad aprire il pasto, il burro montato al momento segna la valenza della materia prodotta dal papà Flavio, casaro e pastore. La sontuosa grassezza del burro cremoso -salato al punto giusto- fa da preludio alla patata di montagna cotta alla brace e servita con il suo purè, le bucce fritte e il beurre blanc. La trota di montagna servita cruda con le sue uova, coperta da una leggera emulsione di panna acida, acqua di prezzemolo e germogli di piselli è un’altra espressione con cui lo chef ci introduce nel suo percorso tra boschi e origini familiari. Addentrandosi in questa foresta gastronomica, è possibile scorgere piatti di rimando al passato botturiano come il Panino al formaggio, dove le 5 stagionature a 1200 metri di quota sono quelle del formaggio latteria.

La meraviglia naturale di Cortina si declina anche nella sua floristica molteplicità di larici, pini e conifere. Da ciò, Gaspari prende spunto per elaborare un grande piatto: lo Spaghetto cotto nel brodo di gallina e mantecato con olio al pino mugo. Stupendo per l’impiattamento, per i sentori balsamici di sottobosco e per la carica olfattiva di freschezza erbacea, presente anche nei secondi di lumache e lepre.

L’ottovolante creativo di Gaspari continua nella sua corsa con il colpo di scena che introduce al dessert: la cagliata della ricotta, pronta per essere raccolta direttamente in sala, con tanto di caldera. Una calda apoteosi casearia, lieve al palato, cremosa e che parla ancora una volta di tradizioni locali.

Ludovica Rubbini, compagna di vita e sul lavoro con Gaspari, in sala riesce a instaurare empatia con il cliente conducendolo nell’inusuale abbinamento che collima perfettamente nella cucina proposta.

Ci sentiamo di arrotondare per eccesso perché riteniamo che la promessa della famiglia Gaspari di incuriosire attraverso l’educazione alla conoscenza del luogo, verrà confermata nel futuro prossimo, e anzi affinata.

Davvero… doloMITICO.

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