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Brosetti

La leggiadria del quinto quarto

Angelo Koyfalas, bergamasco di origine greche, ha girato varie cucine in Europa, per quattro anni in Svezia, è tornato a casa e ha aperto, in una via del centro di Bergamo bassa, la Trattoria Brosetti: una trattoria “contemporanea”, arredi minimalisti, ambiente un po’ freddo, materie prime rigorosamente orobiche, trattate con una bella mano, una scelta interessante di vini biodinamici, prezzi contenuti.

Carne, pesce di lago ma anche proposte vegetali in una carta, non particolarmente estesa, che prevede però spesso dei fuori carta, molto sfiziosi. Se da una parte ci si può orientare su piatti più classici, come le pappardelle all’uovo con ragù di pecora gigante bergamasca e il polletto alla brace, in molti piatti c’è un uso di elementi fermentati, siano salse al miso e garum, che vivacizzano le varie cotture alla brace. I fuori carta della serata prevedevano cervella e animella, ma possono capitare anche zampe, così come creste di gallo, nel nostro caso in menù, servite alla brace su un risotto con pepe di Timut.

C’è una attenzione particolare al quinto quarto che viene trattato con rispetto e delicatezza, con leggiadria. Ecco, forse, ci si potrebbe aspettare un po’ più di incisività in alcuni piatti: il risotto, l’animella alla brace con spinaci, topinambur e “soia” di caffè, la cervella con brodo di carne e miso di caldarroste, tendono invece leggermente ad una deriva dolce. Non è ovviamente il caso della lingua, a cubotti, con una nduja che parte aggressiva ma, in chiusura, scalda piacevolmente il palato. Abbiamo decisamente apprezzato il salmerino alpino, crudo, con barbabietola, melograno, capperi di aglio orsino, una ottima partenza, fresca e leggermente acida. Interessanti le parti vegetali, sia come portata principale, con il sedano rapa, salsa tartara e conserva di funghi, sia nell’ibisco e radicchio con un eccellente fondo di trota, che accompagnano una trota, leggermente scarica di sale.

Nota di merito per il pane, prodotto in casa con lievito madre, una passione per lo Chef che, originariamente, voleva aprire proprio una panetteria. Una esperienza nel complesso sicuramente piacevole che incuriosisce e invoglia a tornare per scoprire le novità sia in carta che fuori.

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Il pensiero “in&out of the box” di Marco Stagi

Bolle è la proposta di fine dining voluta da un noto imprenditore di utensili di cucina, che ha investito nella ristrutturazione di un capannone dove, al piano terra, troviamo lo show-room e, al piano superiore, il ristorante. Un interessante restyling architettonico per una sorta di box, con degli oblò che fanno entrare la luce in una sala di eleganza minimal. Qui è arrivato Marco Stagi, ragazzo ambizioso, con formazione decisamente interessante, essendo stato anni con Enrico Crippa per poi passare, unico italiano, nella cucina del tri-stellato belga Hof van Cleve di Peter Goosens. In seguito, di nuovo in Italia, diventa il braccio destro di Giancarlo Perbellini e, infine, fa ritorno a casa, essendo lui di origine bergamasche.

In questo box architettonico, in una cucina super attrezzata, il giovane chef porta tutto il suo bagaglio formativo e tecnico: dall’attenzione al mondo vegetale (Crippa) alla spinta sulle sapidità (Goosens), fino a una certa impostazione classica contemporanea (Perbellini) con un pensiero gastronomico identitario e, anche, un po’ out of the box.

Mille bolle di gusto

L’attenzione e la cura dei dettagli si percepisce dalla batteria degli amuse bouche, eleganti, belli, alcuni decisamente centrati sul gusto, altri meno, tanto che ci sentiremmo di consigliare di ridurne il numero per avere una partenza ancora più incisiva.

Notevole il benvenuto freddo, una ricciola cruda in osmosi di yuzu e soia, dalla interessantissima texture, con salsa Ponzu e finocchietto fresco a chiudere egregiamente l’assaggio. L’utilizzo della componente vegetale è sempre molto centrato ed è quello che consideriamo essere un indiscusso punto di forza e di valore, in termini di identità. Il cuore di lattuga con salsa al beurre blanc, olio di tonno, tuorlo marinato e rucola è una interessante rivisitazione dell’insalata mista, con una bella spinta sull’acidità. Il cipollotto speziato con maggiorana, kumquat, zenzero e fondo allo yuzu surclassa di gran lunga la capasanta, così come gli spinacini al lime valorizzano ed elevano il piccione, con un peculiare utilizzo del pepe nero che scalda piacevolmente il palato. Il suo signature dish, il risotto al Pomo d’oro, beneficerebbe di una riduzione della porzione, così come il ragù delle frattaglie di piccione, con un purè alle nocciole, che risulta essere fin stucchevole per la quantità.

Molto interessante la parte dei dessert, con delle belle ispirazioni pittoriche musicali: “il fuoco” è un omaggio a Magritte e alla esperienza belga, ha una bella complessità di contrasti con un cremoso allo yuzu, una ganache all’olivello spinoso, riduzione di birra nera e crumble di Speculoos, servito con una tisana che rimanda ai momenti di ritrovo intorno al caminetto. “Mission to Mars” omaggia il Duca Bianco e simboleggia le ambizioni del ristorante, di puntare sempre più in alto: è composto da pianeti, meteore ed asteroidi, ciascuno diverso.

In conclusione una cucina intrigante per l’uso elegante dei contrasti, variegata, effervescente, nella ricerca di mille bolle, non blu, ma di gusto. Segnaliamo anche la bravura del giovane maître e sommelier Michele Mazzola, per un pairing alquanto originale e valido.

Ci sentiamo, infine, di consigliare, nel menù degustazione, di valorizzare sempre di più la parte vegetale rendendola sempre più protagonista: i gourmet apprezzeranno sicuramente.

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Una dimora di charme che continua a fare la storia dell’alta cucina bergamasca

Era il luogo prediletto del grande Luigi Veronelli, l’Osteria della Brughiera, un’oasi incantata fatta di sale eleganti e un giardino accogliente e di classe. Qui, da sempre, gli Arrigoni, prima il padre e oggi il figlio, Stefano, accolgono gli avventori nella monumentale cantina, ricca di vini di pregio e salumi, formaggi e sfiziosità altrettanto uniche, frutto di una ricerca maniacale. È in cantina che, difatti, sarete accolti per l’aperitivo, accompagnato da una coppa eccelsa, affettata all’uopo con la Berkel d’ordinanza. Però “la Brughiera” non è solo cibo di qualità, è anche un elegante e raffinato rifugio ricco di opere d’arte e buon gusto, ovunque.

Quanto alla tavola, da quando c’è Stefano Gelmi in cucina, giovane talento cresciuto tra i fornelli e il pass dell’Osteria della Brughiera, la freschezza di idee e la personalità dei piatti sono cresciute a dismisura. Se ne parla davvero poco di questo incantevole luogo ma il nostro menù – incominciato per onor di cronaca con un ritardo nella partenza davvero troppo elevato – si è poi indirizzato e articolato verso un tracciato davvero originale, molto centrato gustativamente e di qualità indiscutibilmente elevata.

Già la partenza, con il polpo di Porto Santo Spirito cotto e crudo con arachide ghiacciata, oliva nera e levistico ha davvero impressionato per originalità e centralità gustativa, poi confermato e anzi superato dalla seppia in variazione successiva, elegante quanto golosa e raffinata, per poi approdare alle paste, in cui hanno decisamente spiccato le penne lisce al burro di stevia, acciughe e gazpacho e gli spaghettini con telline sgusciate.

Ottimo e per nulla scontato il piccione, con abbinamenti e commistioni originali e di livello anche il comparto dolce, in cui spicca una millefoglie molto, veramente molto buona.

Delle difficoltà in partenza di servizio abbiamo già detto, dobbiamo anche dire che il patron e suoi ragazzi hanno poi recuperato adeguatamente con solerzia, attenzione e precisione rimarchevoli. Un plauso, quindi, all’Osteria della Brughiera che, come tante altre “osterie” nazionali, pur non essendo precisamente “osteria” vi cullerà col calore, il garbo e la piacevolezza di un tempo.

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Musica per gourmet in trattoria storica

Perfino l’illustre cittadino Gaetano Donizetti, come ricorda una targa in bella mostra, ha avuto modo ai suoi tempi di frequentare il ristorante l’Osteria dei Tre Gobbi, storico indirizzo della ristorazione bergamasca situato in una delle vie più antiche della città. La musica in tavola è naturalmente cambiata più volte nel corso del tempo ma lo spartito scritto dall’ultimo patron, Marco Carminati, ha cambiato radicalmente proposta e prospettiva.

La svolta è stata determinata in particolare dalla  recente entrata in scena ai fornelli di Filippo Cammarata, cuoco di talento (già al Bolle di Lallio), bergamasco di origini siciliane e globetrotter per esperienze culinarie. Evidente il cambio di passo: nel menu gli intramontabili classici della trattoria che fu (i casoncelli, la taragna, la guancia di manzo brasata) sono corollario a piatti gourmet, creativi e personali, tecnicamente evoluti, frutto di abbinamenti ricercati e tutt’altro che convenzionali, anzi a tratti molto coraggiosi ma nel complesso centrati. La tendenza a spingere con i sapori la si percepisce sin dalle entrée: la bisque di teste di gambero che accompagna la mollica “atturrata  – il richiamo alla cucina di Trinacria è ricorrente –  e verbena è di rara concentrazione. Così l’originale gazpacho di nopale (le pale del fico d’India) che dà intensità di gusto alla misticanza estiva che trova accompagnamento croccante nelle cialde di amaranto soffiato.

Abbinamenti coraggiosi per sapori decisi e bilanciati

Inizio molto promettente che prelude ad una fantastica interpretazione del cervello di vitello assecondato in morbidezza ma contrastato nel sapore dal carpione al miele e dragoncello. A seguire la minestra mono verdura di zucchina (gnocchi di trombetta serviti in zuppetta di tenerumi) è un perfetto reset per affrontare un piatto di forte impatto di gusto e consistenza, i tortelli tondi ripieni di ricotta di capra arricchiti dal carpaccio di cuore di vitello (effetto ematico dirompente) e battuto di ortiche. Al confronto i classici casoncelli, che i bergamaschi reputano un piatto tutto gusto, sembrano cibo per educande.

La propensione a giocare con acidità in agrodolce si manifesta anche nella scaloppa di luccio, mais, fiori di sambuco e radicchio agro, altro piatto in perfetta armonia gustativa. La chiusura salata è altrettanto avvincente e riuscita con terrina di capretto, pomodoro e camomilla. Dopo cotanta originalità l’aspettativa per i dolci viene appagata solo parzialmente. Buoni ma più convenzionali il ghiacciolo di fragole, panna cotta, basilico e olio extravergine (giocato sulla freschezza), e il tiramisù (delicato) servito nel vasetto, a mo’ di piantina.  

Lista dei vini corposa nella consistenza della selezione come nei ricarichi. L’ambiente è semplice, da trattoria, con il plus di uno spazio completamente all’aperto e di un dehors che offre protezione nelle mezze stagioni. Servizio pure semplice ma non privo di attenzione. Peccato il pane: non rende per nulla giustizia all’impegno e alla bontà della cucina.

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Impronte siciliane e bergamasche

Vicino al centro di Bergamo, in una vecchia autorimessa completamente ristrutturata, si trova Impronte, locale moderno e ben strutturato, aperto nel 2017 ma già da due anni fregiato dell’ambita stella Michelin.

La cucina è affidata Cristian Fagone il quale, forte dell’esperienza al Miramonti l’Altro, ha  affinato le sue conoscenze di cucina classica e tradizionale. La sala, guidata dalla moglie Francesca, è la dimostrazione che la coppia è in perfetta sintonia anche nel proporre un’ospitalità di stampo classico, con una cucina che spazia da Nord a Sud, creando un ponte fra due regioni tra loro molto distanti grazie ai frequenti rimandi alla terra di origine dello chef: la Sicilia.

Optiamo per un menù degustazione da 8 portate, equamente diviso fra proposte di terra e mare da cui emerge l’idea di cucina dello chef: piatti apparentemente semplici, formati da pochi ingredienti che possano però sprigionare tutta la vivacità dei sapori siciliani uniti alla tradizione lombarda. Un percorso certamente ambizioso che, nel suo complesso, ha evidenziato il limite che alcune portate sono da affinare e sono da rendere più eleganti e meno grevi.

Un ponte lungo l’Italia

Iniziamo la degustazione con le amuse bouche, che sebbene composte da materie prime pregiate (dallo scampo al foie gras, dall’ostrica al beccafico) non paiono ben bilanciate e con elementi che sovrastano gli aromi della composizione complessiva. Un esempio? Troppo forte la cipolla caramellata proposta con il foie gras e assai coprente, purtroppo, la tempura che avviluppa l’ostrica.

Il primo antipasto è una tartare di dentice del Mediterraneo con lattuga di mare  poggiata su un’emulsione fredda di mandorla, ostrica e salicornia. I sapori molto tenui del pesce ben si sposano con la mandorla, ma la temperatura eccessivamente fredda della base non permette di distinguere adeguatamente tutti i gli ingredienti, che si perdono al palato. Molto meglio la ventresca di tonno con provola e cozze, dove la sapidità delle cozze e l’acidità del limone sgrassano perfettamente la ventresca restituendo un boccone dove si alternano il sapore goloso del tonno con le note sapide e acide degli altri elementi: sicuramente il piatto migliore del menù.

Perfettibile il crudo e cotto d’asino: nonostante sia intrigante la fusione fra la tradizione siciliana e quella lombarda il ristretto di brasato, molto goloso, copre completamente i sapori della tartare d’asino. Più interessanti i primi, come i ravioli ripieni di foie gras dedicati alla moglie che, sebbene non perfetti per cottura e presentazione, sprigionano tutto il sapore del ripieno. Molto ben pensato il riso con lumache e ristretto di vino rosso accompagnato da un calice di bianco della Borgogna che esalta il sapore del riso, riuscendo anche a ripulire il palato. Meno convincente la triglia con stracciatella e salsa di pomodoro datterino. Il sapore del pesce, non perfettamente desquamato, peraltro, viene oscurato dal pomodoro, che ne sovrasta il gusto delicato. Molto saporito, invece, il piccione, servito in ogni sua parte con funghi Champignon ed erbe. Interessante il filetto crudo e molto ben cotta la sovra-coscia.

Da affinare, infine, il dolce: un cannolo scomposto dove il gelato di ricotta non riesce a trasmettere il gusto goloso del classico siciliano. Molto più incisiva la crema di ricotta con cioccolato che non è però sufficiente a risollevare del tutto il piatto.

Il servizio è attento e veloce anche se non esente da qualche piccola sbavatura e il sommelier, ben preparato, si muove sapientemente accontentando le preferenze dei commensali, nonostante una carta dei vini non priva di qualche mancanza e dai rincari a volte un po’ eccessivi.

Una degustazione dai sapori sinceri e classici con portate ben pensate che necessitano, però, di qualche ricalibratura per poter accedere a una complessità ed equilibrio superiore, sicuramente alla portata dello chef. Basterà riprendere un po’ le misure dopo quest’ultima, si spera, lunga chiusura.

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