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Okra

Trattoria giapponese modaiola o laboratorio urbano di idee gastronomiche? Probabilmente entrambi

Hong Kong sta all’Asia come New York sta agli Stati Uniti. Senza alcun dubbio.
Entrambe le città sfoggiano poliedriche e accattivanti vetrine gastronomiche che il 90% delle città del mondo si sognano.
Sarà per il numero degli abitanti, sarà per il momento economico particolarmente favorevole, sarà che in questo continente il cibo conta più di qualsiasi altra cosa, ma il fermento gastronomico qui è palese e stimolante più che mai.

Una serie di apprezzate tavole che partono da una base fusion asiatica-occidentale, applicata al prodotto di stagione, rendono Hong Kong un felice approdo per palati che si crogiolano tra i sempre affascinanti gusti della raffinata cucina giapponese, le rotondità del confortevole cibo da strada e qualche sapore europeo incastrato con cura.
Okra, tra queste realtà, è una delle insegne più acclamate.

Locale piccolissimo con un lungo bancone, che occupa quasi interamente il minuscolo spazio, dove si dividono la partita bar e cucina. Nessuna sedia confortevole o mise en place da ristorante, ma solo una ventina di scomodi sgabelli alti da bar e un menu suddiviso in piccoli assaggi o piatti da condividere (chiamato nel menu, rispettivamente, A Side e B Side). Completa l’offerta qualche piatto speciale del giorno presentato al momento. Sottofondo musicale underground con tanto di playlist di Spotify appositamente selezionata dal ristorante.

Chef americano folgorato dall’arte della cucina giapponese

Okra si presenta come la filiale ad Hong Kong, più informale e intima, dello chef di New Orleans Max Levy (l’originale Okra 1949 si trova a Beijing dal 2013). Levy ha approfondito il suo mestiere da Sushi Yasuda di New York, uno dei templi del sushi fuori dal Giappone, lavorando come primo ed unico chef non giapponese, conservando l’attitudine da sushi bar in una cucina separata posta al piano superiore del locale.
La cucina proposta è frizzante, vivida, capace di regalare sapori netti e decisi, controllati con indubbia padronanza tecnica. Solo chi conosce e rispetta la materia prima riesce ad avere il controllo sulla stessa, e Levy sembra che la sappia lunga in merito.

Tra gli assaggi provati, eccezionale l’insalata di cavoletti fritti croccanti, salsa all’uva passa e X.O. sauce fatta in casa; seguita dal possente McBelly: ovvero bun alle patate viola e pancia di maiale arrosto marinata alle erbe, spezie e yuzu, cetrioli e daikon. Ottimi ingredienti, opportunamente valorizzati, nel Chicken fried hamachi; che spiana la strada in tavola al magnifico Unagi fun: anguilla grigliata su riso croccante e sottaceti. Semplice e intuitivo, ma ben congegnato il dessert Budino alla banana arrostita e soia disidratata.
Un’esperienza sincopata e coinvolgente qui all’Okra, segnata da un prezzo davvero contenuto, che incarna coerentemente il potenziale gastronomico di Hong Kong in questo magico e vivace momento storico.

La galleria fotografica:

Gourmet Orient Express. Cucina fusion moderna che conquista nel lussuoso Hotel Mandarin di Hong Kong

La ristorazione contaminata di Hong Kong riserva sempre insegne meritevoli, anche in contesti inaspettati.
Al 7° piano del Mandarin Landmark Hotel, troverete probabilmente uno dei migliori ristoranti della città: il ristorante Amber.
Un ambiente di gran classe, dominato dal lusso e affollato da una clientela prettamente internazionale. Qui, le redini della cucina sono affidate a Richard Ekkebus: chef di origini olandesi, che si è fatto le ossa alla corte dei più importanti chef di Francia, come Alain Passard, Gagnaire e Guy Savoy. Palestra professionale dove ha appreso e affinato le basi della grande cucina francese classica, tra fondi, jus e salse di haute cuisine.

La parola ‘contaminazione’ è forse quella che racchiude al meglio l’attuale filosofia espressa da questo cuoco. Sì, perché Ekkebus ha saputo fondere le basi classiche e la tecnica d’Oltralpe, con l’imperiosa cucina orientale, in una forma inedita fatta di leggerezza ed essenzialità. Insomma, un cuoco che è riuscito a unire due idee culinarie molto distanti, due visioni diametralmente opposte, ottenendo un risultato prezioso. Uno stile coerente e personale, che si origina dalla meticolosa selezione delle materie prime, per le quali lo chef detiene una passione maniacale. Non importa infatti quante miglia dovranno fare, da vari angoli del globo, ma qui all’Amber giunge solo il meglio dei prodotti rintracciabili.

Essenzialità efficace e contaminata: tra Francia, Oriente e ingredienti internazionali

In tavola, brillante la sequenza di snack iniziali, che ripercorre i ‘cinque gusti’ in concentratissimi bocconi dinamici (Salato, Acido, Amaro, Dolce, Umami). Opulenza neoclassica rivisitata con classe per il ‘Foie gras d’anatra poché, tè ai funghi, shitake arrosto e purè di aglio nero’; seguito dal minimalismo cromatico e vegetale dell’asparago verde con olio extravergine al pistacchio siciliano, arancia e salsa maltaise sifonata.
Finezza esecutiva e influenze materiche – in un vorticoso viaggio intorno al mondo – accompagnano ogni passaggio: dal sontuoso scampo con caviale e mela verde; all’esemplare taglio di Wagyu con cavolo viola bbq ed emulsione di pepe. Rigoroso e ben definito anche il reparto dessert.

Un grande ristorante in cui troverete non solo un ambiente straordinario e un servizio attento e premuroso, ma anche uno chef dinamico e in continua evoluzione, capace di incuriosirvi, di coinvolgervi nell’esperienza con sapori e profumi sempre molto decisi e intensi.
Ricca e interessante la carta dei vini, con presenza notevole di etichette francesi a prezzi ovviamente stellari.

La galleria fotografica:

Ogni volta che percorro i circa cento chilometri che separano Costoro di Concesio da casa mia inizio il viaggio con lo stesso pensiero: ed ora quanto ci metterò a digerire tutta questa roba?
La riflessione è d’obbligo, perché studi recenti hanno scientificamente dimostrato che sia impossibile uscire dal Miramonti senza sentire le pareti dello stomaco implorare spazio a tutti gli altri inquilini della cassa toracica.
Ciò che mi sorprende invece è che, una volta giunto a casa, tutte le sofferenze notturne preannunciate dall’abnorme quantità di cibo ingerita si sciolgono regolarmente in un sonno dolcissimo. Philippe Lèveillè, tra l’altro fresco di sbarco ad Hong Kong con suo nuovo locale L’Altro, non è certo avaro di burro e di aglio nei proprio piatti. L’intelligenza e la tecnica di cui dispone però, gli consentono di fare una cucina di matrice sfacciatamente gourmande e renderla al massimo grado possibile di raffinatezza.
Il Miramonti è un luogo magico in cui ogni componente sembra incastrarsi miracolosamente nell’altra: la cucina, l’ambiente accogliente in cui è praticamente impossibile non sentirsi a casa propria ed infine il servizio, gestito con mirabile cortesia e buonumore da Daniela Piscini che vi porterà, con un sorriso che non ammette un no come risposta ed in realtà nasconde una vena sadica, ai limiti della vostra cilindrata gastrica (Sararlo, torna! Questa casa aspetta attè).

Come in tante maison d’Oltralpe il menù ruota intorno ad un nucleo di piatti che rimangono pressoché immutati negli anni e diventano punti fermi per gli appassionati, must che non possono non far parte del bagaglio di esperienze di ogni gourmet che si rispetti. Se già nelle precedenti schede dedicate a questo locale abbiamo parlato del celebre risotto ai funghi e formaggi dolci di montagna e del fantastico gelato alla crema, è tempo di trattare del piatto più hard core fra quelli presenti in carta: il crescendo d’agnello con finale del suo carré.

Diversamente dagli altri classici del locale, questo piatto non è incluso nei vari menù degustazione, probabilmente perché ne costituisce uno da sé. Il carré, cotto perfettamente ed uniformemente rosa, è preceduto da una collezione di frattaglie, che dapprima sfilano per la sala ciascuna nel proprio pentolino, il cui solo pensiero è in grado di far rabbrividire qualsiasi angiologo e di mandare in deliquio il gourmet rotto ad ogni esperienza. Le cervella fritte, le animelle con i funghi, il groppetto (ossia la saporita carne fra le costole), il ragù, il fegato con le cipolle, il rognone, la trippa piccante, il filetto con il suo jus da bere senza ritegno ed il crostino con una mousse di piedino vengono accomodati nel piatto intorno al protagonista e ad un crostino di polenta. Tante cotture diverse, tanti bocconi straordinari che trascinano le papille su un ottovolante di sapori estremi ma sempre domati con la frusta del cuoco di classe. Il finale, un pezzo di carne che già di per sé rappresenterebbe per molti una sfida dall’esito non scontato, diventa con la sua facile succulenza praticamente un dessert.

A proposito di dolci: alla settima visita a questo locale ho finalmente trovato il coraggio di non cedere alle sirene del gelato (al cui assaggio sarò comunque piacevolmente “costretto” da Daniela) per testare un dessert al piatto, trovando piena soddisfazione nella vigorosa millefoglie croccante al pistacchio con latte di mandorla e gelato alla fava tonka.

Una nota di merito ed una dolente, per concludere. Ho sentito talvolta dire che il difetto del Miramonti sia l’eccessivo gap qualitativo fra i classici ed i piatti di più recente concezione. Le ultime due visite mi hanno convinto che questa differenza si sia nel tempo notevolmente ridotta, tanto che il piatto più banale come il galletto alla griglia con agretto di aglio e prezzemolo con rosti di patate si colloca comunque su un ottimo livello. Non inganni la presentazione: la carne è cotta ed insaporita al meglio salvo che per un certo eccesso, qui sì, d’aglio. Le lumache all’acetosella con baguette di lumache ai sapori mediterranei e mozzarella di bufala sono anzi un piatto che tiene l’asticella sullo stesso altissimo livello delle preparazioni più note.
Una piccola tirata d’orecchie bisogna farla per una carta dei vini di eccessiva pesantezza, con ricarichi che fanno passare all’appassionato la voglia di pescare pesci grossi. Bastino i 30 euro (regolarmente indicati in carta) richiesti per un calice di Terre di Lavoro 2003 a dare il termometro della situazione. Vista la simpatia di Taeko Nishikawa, spiace non darle maggiore soddisfazione.

Entrata: coniglio in porchetta e cannoncino di coscia confit su purea di cannellini e aria al rosmarino.

Lumache all’acetosella e “Baguette” di lumache ai sapori mediterranei e mozzarella di bufala con gazpacho e gelato alla senape.

Terrina di anatra selvatica, fegato grasso d’anatra, cipolle caramellate….

… e variazioni di fegato grasso.

Galletto nostrano alla griglia con agretto all’aglio e prezzemolo.

Arrivano i pentolini…

…ed il carrè pronto nel piatto in attesa di compagnia.

Groppetto.

Ragù.

Trippa.

Cervella.

L’interno del carré, dilaniato dalla mia foga golosa.

Polenta tiragna e rane alle verdure (omaggio della cucina prima dei formaggi…)

Panorama caseario.

Millefoglie croccante al pistacchio, latte di mandorla e gelato alla fava tonka.

Piccola pasticceria.





Recensione Ristorante

Estremo e dannato: ecco come ama definirsi Alvin Leung, chef del Bo Innovation di Honk Kong. Accostato a quello di Ferran Adrià, il suo stile trasforma la cucina cinese ricorrendo alle tecniche più moderne e innovative a disposizione della scienza culinaria: azoto, destrutturazione e bassa temperatura sono gli strumenti per esplorare un gusto “fusion” in cui i migliori prodotti che la cultura asiatica sa offrire (come le radici usate nella medicina tradizionale), si integrano alla materia dell’occidente senza alcun imbarazzo.
Il risultato è un’esperienza singolare e neurotonica, mai pericolosamente in bilico o troppo azzardata, anche perché l’esuberanza progressista della mano di Leung conduce sempre al porto sicuro della cucina cinese più tradizionale.
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Recensione Ristorante

Siamo senza dubbio nel santuario della cucina cantonese per eccellenza!!!
Il Lung King Heen condotto dall’executive chef Chan Yan Tak è stato il primo ristorante cinese al mondo ad ottenere le tre stelle Michelin (visitato dagli ispettori ben 12 volte prima di ottenere l’ambito titolo) ed è il miglior ristorante cinese di Hong Kong (e forse del mondo). Sicuramente è un punto di riferimento di come dovrebbe essere veramente la cucina cantonese.
Cucina che, del resto come quella italiana, negli anni è stata bistrattata e inflazionata da quei tanti emigranti cinesi che hanno spacciato per cantonese qualcosa che non c’entrava niente con una delle cucine più varie e interessanti al mondo.
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