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Bolle

Nuovi inizi

In provincia di Bergamo, proprio sopra uno store di magnifici utensili da cucina, è situato il Bolle. Il ristorante ha recentemente cambiato conduzione passando nelle mani del giovane chef Marco Stagi che, anche se non ancora trentenne, ha già un curriculum impressionante in cui spiccano le esperienze nei tre stelle di Francia e Belgio, oltre che come braccio destro di Enrico Crippa e di Giancarlo Perbellini. Due i percorsi degustazione disponibili uno di terra e uno di mare, proposti a prezzi molto competitivi, a cui è possibile aggiungere portate di crudo o quinto quarto, ma è anche possibile lasciare fare allo chef, sempre molto disponibile, e farsi guidare alla scoperta della sua cucina.

Tecnica, passione e studio

Grazie alle esperienze assimilate lo chef riesce a proporre una cucina di grande tecnica e carattere, ma sempre con un grande rispetto per la materia prima. Ciò è evidente nella cottura delle verdure, che non sono mai un semplice contorno e, ancor più, nel crudo di mare, dove un pescato di grande pregio viene accostato a riduzioni perfettamente studiate per esaltarne al meglio i sapori. È il caso dell’ombrina con olio al curry e cipolla bruciata in cui la nota amara riesce a valorizzare il gusto verace del pesce. Millimetriche cotture, come nel cervo con cipolla, proposto in doppio servizio con una tartare di fegatini o nel tacos di rognone, perfettamente scottato, così da donargli una consistenza quasi cremosa che si sposa in modo egregio alla delicata crema al dragoncello. Gustoso e perfettamente equilibrato il soffice di patate e porri con capperi, finferli e jus di vitello dove ogni elemento dona al piatto una nota imprescindibile alla sua completezza, come anche il signature dish dello chef: il risotto al pomo d’oro dove acidità, piccantezza e dolcezza si susseguono ad ogni boccone. Interessanti i tortelli di castagne e pinoli con gambero rosso e shiso rosso e infuso di bosco all’aceto, anche se il brodo tende ad oscurare la dolcezza del crostaceo. Intrigante la parte dolce nelle sue note erbacee, anche se non ancora all’altezza dei piatti salati. Ecco perché la valutazione attuale, già abbondante, può far presagire a ulteriori traguardi a breve.

Un bel percorso a cui si aggiunge un servizio attento e presente e una carta dei vini contenuta, ma molto interessante, che serba prodotti poco conosciuti ma con un buon rapporto qualità prezzo sapientemente valorizzati da un giovane sommelier che, per ogni abbinamento, dimostra di conoscere molto bene la propria cantina e di saper leggere gusti e necessità di tutti.

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Le nuove osterie partono anche da Bergamo

N.O.I è l’acronimo di Nuova Osteria Italiana nonché il progetto del giovane chef Tommaso Spagnolo.

Una concezione, che Spagnolo porta avanti nel capoluogo orobico, frutto delle esperienze accumulate nella Penisola e nel resto del mondo: dalle tre stelle dei Cerea fino alle corone, altresì stellate, quale private chef delle più nobili famiglie inglesi. Il percorso è quello di un professionista che torna però nella sua Bergamo, dove plasma una cucina fatta di piatti le cui intuizioni gustative e tecniche non eccedono mai nei manierismi ma, piuttosto, in una piacevole concretezza, che ci ha indotto ad arrotondare il punteggio per eccesso, sebbene alcuni elementi siano ovviamente da perfezionare.

Un’offerta snella e golosa, dunque, che tenta il cliente sin dagli stuzzichini, come il pomodoro cotto e crudo con feta e anguria, che nella sua fresca eleganza dischiude le svariate sfumature dell’oro rosso in contrappunti umamici.

Il signature dish delle mezze maniche tiepide al burro nocciola, limone e bottarga non tradisce le aspettative ma cade su una callosità eccessiva della pasta, volutamente ricercata, non congeniale però alla porzione da carta bensì più adatta al modello della degustazione. Il riso con brodo di gallina, aglione della Val di Chiana, trombetta dei morti e coriandolo, è felice sintesi tra i prodotti locali con un twist etnico dato dalla fresca pungenza del coriandolo.

I dolci, nella loro semplice e pulita esecuzione, chiudono il percorso con una menzione speciale per i fichi accompagnati da una suadente crema di formaggio fresco al miele e noci caramellate. Sulla golosità non abbiamo certo lesinato, anche nella piccola degustazione di formaggi, concedendoci alcuni gioielli caseari delle vicine valli.

N.O.I è, insomma, un’insegna concreta la quale, con la sua piacevolezza tecnica, invita al ritorno senza tradire origini e sapori locali, ma con la sana voglia di rischiare. Un rischio che si assume con spensierata curiosità e che ci farà tornare – e appassionare – a questo ristorante, ancora per molto tempo a venire.

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Lead the way

In provincia di Bergamo, pochi km fuori dal rumore della città, sorge l’Osteria degli Assonica. Il ristorante, presente da diversi anni sul territorio, ha recentemente cambiato gestione accogliendo lo chef Alex Manzoni e il fratello Vittorio. Nonostante la giovane età gli chef possono confidare su un curriculum di tutto rispetto e, dopo aver mantenuto la stella Michelin al Casual di Enrico Bartolini, hanno deciso di iniziare una nuova avventura trasferendo la propria cucina dalla città alla provincia. L’idea iniziale era di proporre una cucina accogliente e incominciare a sperimentare solo dopo essersi ambientati. Il corso degli eventi ha sconvolto i loro piani obbligandoli a reinventarsi in un periodo molto difficile ma, al posto di abbattersi, hanno deciso di spingere sull’acceleratore e proporre degustazioni dai sapori netti e decisi, con sprazzi innovativi e ben calibrati.

Due i percorsi degustazione fra cui scegliere. Una degustazione di pesce da 5 portate e il menu “vit.ale”, a discrezione dello chef, dove si familiarizza con le due anime della sua cucina. Da una parte frequenti i giochi di acidità in piatti dai contrasti decisi, ma ben pensati, come nel caso dei gobbetti con liquirizia e frutto della passione, dove il dolce del crostacei ben si lega all’acidità del frutto o dell’agnello, dove la dolcezza della carne viene ottimamente valorizzata dalla nota iodata delle cozze in un abbinamento insolito ma molto ben eseguito. Dall’altra non mancano, però, nemmeno piatti più rotondi, dove gli equilibri dei vari ingredienti sono studiati con attenzione senza mai dimenticare un guizzo di innovazione, capace di elevare ancor di più la portata proposta. È il caso della classica accoppiata seppia e lardo, ottimamente calibrata dal sapore erbaceo della salsa all’abete o, ancora, dei bottoni di sedano rapa, fieno, camomilla e whiskey dove il ripieno si sposa perfettamente con la delicatezza della salsa che viene esaltata dal sentore affumicato del distillato. Un filo troppo grasso invece il risotto all’olio di arrosto, ricci di mare e anice dove quest’ultimo, seppur fermentato, non riesce a smorzare del tutto la grassezza del piatto. Interessanti i dolci/non-dolci, dove un biscotto con capperi, aglio nero e bietoline viene affiancato a un goloso gelato ai porcini, una conclusione atipica, ma perfettamente coerente con lo spirito della degustazione.

Un’esperienza gustosa e stimolante valorizzata da un servizio attento, anche se a tratti un po’ lento, e da una cantina che, seppur non vastissima, propone etichette interessanti e ben abbinate alle proposte dello chef. Una valutazione per ora cauta ma dalle potenzialità di crescita evidenti.

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A shining rising star

Nella costellazione di ristoranti di Enrico Bartolini, al Casual, in città alta, a Bergamo, è comparsa una nuova stella.

Parliamo del poco più che trentenne Marco Galtarossa, un curriculum vitae davvero ricco di esperienze, che denota la sua voglia di imparare e crescere. Cracco, Villa Feltrinelli, Enoteca Pinchiorri, La Feva come capocuoco e chef di Zanze XVI a Venezia. Vari, poi, gli stage: Robuchon a Parigi, Joia, Tickets e Noma.

È una stella che brilla di luce propria e che Bartolini, da bravissimo talent scout, potrà solo valorizzare ulteriormente, lasciandogli intelligentemente lo spazio che merita. Forte di una cucina dall’identità e dalla personalità ben definite, volutamente “espressa” nelle cotture, il cuoco è dotato, tra le altre cose, di un notevole palato. Ci si trova così al cospetto di una proposta culinaria che riesce a stupire per varietà e capacità di giocare in modo insolito con differenti tonalità di gusto e ingredienti, con uso intelligente delle erbe aromatiche. Alcuni piatti, poi, ci sono sembrati davvero entusiasmanti per forza, complessità e stratificazioni di sapori, che arrivano in progressione sinergica al palato.

Il menù Pura Ispirazione

Il menù degustazione più completo – Pura Ispirazione, appunto – permette allo chef di divertirsi creativamente,  in base alla disponibilità della materia prima, uscendo volutamente dai piatti presenti in carta. Ci sentiamo decisamente di suggerire di scegliere proprio questo menù, uscendo dalla logica della carta, proprio per apprezzare appieno il talento puro e cristallino e tutto lo spettro palatale di colori, utilizzati con maestria.

Ci sono piatti che arrivano diretti, di grande impatto immediato, come lo sgombro marinato con ragù di chiocciole e caviale d’aringa affumicato, una bomba a orologeria di gusto perfettamente progettata e calibrata. Il risotto al sedano selvatico, ricci di mare, alici e acqua di armelline esce dalla logica classica della mantecatura e cremosità: si presenta quasi come un riso da minestra, parte delicato e poi cresce, rivelando forchettata dopo forchettata, la sua complessità  ed eleganza verso un climax che persiste nel palato.

La cervella d’agnello lucano con funghi porcini, mais dolce e ginepro ti fa innamorare per la sua dolcezza e per la sua gustosità. Divertente il gioco del sedano rapa, cotto con del succo di tartufo, poi passato alla brace e glassato con un fondo vegetale ridotto e aglio nero. Presentato come la terza portata dell’agnello, ti inganna, riconducendoti come gusto al brasato di carne ma, in realtà, è esclusivamente vegetale.

Il morone, cotto perfettamente in foglia di fico, cipollotto tarassaco e salsa al chinotto fa rimbalzare le diverse note dolci, iodate e  amare nel palato.

Si tratta di un percorso generoso, fin troppo, in termini di quantità, che vuole soddisfare ovviamente anche i gourmand, che però fa arrivare davvero satolli alla fine, tant’è che abbiamo rinunciato, a malincuore, ad assaggiare l’altro piatto di carne, che sarebbe stato il piccione.

Una bella esperienza, decisamente valorizzata dall’alto livello della sala, che conferma l’abilità di Bartolini nel selezionare anche i restaurant manager. Qui abbiamo Marco Locatelli che, coadiuvato da un giovane e valido sommelier, gestisce con eleganza, ritmo e sorriso, pur se nascosto dalla mascherina, il servizio, anche con l’utilizzo del guéridon.

Un bel team giovane sia di cucina che di sala, che lavora decisamente in sintonia e con grande attenzione e professionalità.

A shining rising star in Bergamo Alta!

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Il canone classico italiano

Fare ed essere “classico”, oggi e, soprattutto, in Italia, rappresenta una scelta molto più coraggiosa di quanto possa non essere, invece, l’avanguardia. Non solo perché il classico implica il continuo e indefesso rapporto – e raffronto – coi giganti, ma anche perché le maglie entro le quali si muovono la mano, la mente e la materia del cuoco sono così strette da rendere impossibile, almeno apparentemente, qualunque movimento, qualunque novità. Eppure, non c’è mai stato tanto movimento e, di conseguenza, tanto respiro nella cucina classica italiana come in questo momento storico e il pranzo che stiamo per raccontarvi ne rappresenta, come vedremo, la perfetta epitome.

Da Vittorio risiede sulla sommità di una collina circondato da quello che potremmo definire, piuttosto semplicemente, invero, un giardino all’italiana contemporaneo. La sontuosa villa e il suo altrettanto sontuoso dehors che, vista la stagione, sarà anche la nostra sala, ci accolgono in una dimensione alta e altra del mondo, una dimensione in cui perfino il tempo acquisisce un andamento suo proprio, scandito dalla danza di una sala che è tuttora una delle più rigorose ma, al contempo, più distese e disinvolte del panorama contemporaneo.

L’Olimpo in terra

Una sala cui sono ancora affidati gli impiattamenti e le rifiniture, eseguite al tavolo, la cui cultura del servizio e disinvoltura nell’eloquio fanno apparire tutto fuorché retriva e la cui innata urbanità enfatizza anzi la sensazione di trovarsi in una sorta di Olimpo della ristorazione italiana; e, qui, arriviamo al punto: perché a onta del momento storico dianzi trascorso dai fratelli Cerea albergano ancora e forse ora più che mai una grazia e una felicità sopraffine, una estaticità che si ritrova in ciascuna delle portate, concepite con una precisione e una pulizia nuove e, in una parola, felici. Dal cherubico tourbillon delle entrée, in cui spiccano l’uovo all’uovo, evoluzione di una ricetta di cinquant’anni fa, la meravigliosa oliva bergamasca e l’insalata di tonno e ovoli, passando per il cacciarolo ripieno di polenta e fino al serafico risotto, impeccabile per cottura e mantecatura.

Ma non solo. Perché questo è anche uno dei pochi ristoranti italiani dove ancora saggiare – e godere – della più grande e più nobile materia prima: una materia tra le più selezionate, le più ricercate e, di conseguenza, tra le più onerose dello Stivale. È precisamente questo elemento, crediamo, a identificare il canone del ristorante classico così come noi lo intendiamo da sempre ed è esattamente questo il senso, e il gusto, unico, dello straordinario e raffinatissimo moro antartico con crème brulée di wasabi e avocado.

Medesima, beata ispirazione si ritrova anche nella sezione dei dolci, da sempre una delle più felici e caratterizzate dell’universo olimpico, esclusivo ed elitario che alberga Da Vittorio.

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