Se la Liguria è stata giustamente ribattezzata “il giardino d’Italia” dall’intellighenzia contemporanea, Giorgio Servetto al ristorante Nove dell’amenissimo Relais & Châteaux Villa della Pergola, ad Alassio, fa di questo “giardino nazionale” la più calzante delle trasposizioni culinarie.
E a maggior ragione considerando che la struttura – rilevata nel 2006 dalla famiglia Ricci che, così facendo, ha risposto nient’altro che all’imperativo morale di salvarla dal progetto di speculazione edilizia in serbo per lei – ospita, tra le altre cose, uno dei più bei giardini d’Italia: un parco di oltre 22mila metri quadrati i cui prodromi etici ed estetici sono da ricercarsi nel tardo romanticismo inglese d’ispirazione coloniale. Un ideale che, nel tempo, ha fatto loro inanellare oltre 5000 individui tra piante, fiori, ninfee e cipressi, e pergolati a perdita d’occhio punteggiati delle grandi, sferiche infiorescenze di 500 agapanti e rigogliosi Farfugium japonicum mentre, sopra, in stagione, si assiste allo spettacolo di oltre 34 diversi tipi di glicine.
Merito, oltre che di Alessandra Ricci che si divide tra la carriera accademica e l’ingranaggio di questo paradiso e di Francesca Ricci, Restaurant Manager del ristorante Nove, di Giorgio Servetto, che l’imperativo di questo pollice verde lo raccoglie davvero dando al giardino la funzione più sostanziale di tutte, quella dell’orto o, meglio degli orti che amministra: “l’orto rampante” che già fu di Carlo Levi, amico intimo di Italo Calvino, da cui il nome, e quello di Albisola, a Sassello, dove cresce il frumento e razzolano le bestie da cui arrivano i magnifici salumi.
La sua cucina è, dunque, un carotaggio nella terra ligure, il ché contempla anche una certa dose di Piemonte mutuata dall’infanzia a Sassello e di certo dalle esperienze pregresse – all’Antica osteria del ponte di Silvio Salmoiraghi, dal Devero di Enrico Bartolini, da Arnolfo di Gaetano Trovato e da La Madia di Pino Cuttaia – da cui pure mutua un sostrato forte, classico, di cucina francese. Quel che ne sortisce è una riuscita combinazione di rusticità e cultura, eclettismo e purismo, così com’è, del resto, Villa della Pergola tutta.
Riuscitissimi, oltre che molto liberi e, pertanto, molto autoriali ci sono sembrati proprio quei piatti dove la verdura era, appunto, assoluta protagonista. Come nel caso dei Ripieni (zucchina fiore, cipolla Belendina, peperone e patate novelle), i pansotti (ripieni di noci Pecan, borragine e robiola del Beigua di Giacobbe) o il fungo del Sassello con Vermentino e prezzemolo i quali spiegano, implicitamente, anche la presenza di “Ossessione”, il menù interamente vegetale dove, crediamo, alberghi davvero la quintessenza di questa Riviera Ligure di Ponente.
Senza che manchino, s’intende, tributi ai grandi classici della cucina locale come il Cappon magro, il Brandacujun con la panissa e perfino la Focaccia e cappuccino che, tra i dolci, omaggia l’antica colazione ligure fatta di piccole cose e abbinamenti originali, e popolari, sin dal mattino.
E benché un intero menù rischi di diventare assai impegnativo – bisogna essere avvezzi ai fondi di cottura nonché alla presenza, pressoché capillare, della frutta secca – quello ordito da Giorgio Servetto è un menù manifesto e, come tale, va difeso perché sottende alcuni messaggi essenziali: primo perché raccoglie, nel suo piccolo, molte delle sfide della Liguria contemporanea, come la difesa della biodiversità e la messa in sicurezza dei suoi abitanti; secondo perché, soprattutto, ha il potere di ricordare all’uomo che il primo paradiso pensato per lui fu, manco a dirlo, proprio un giardino.
Una cena da Massimo Viglietti è sempre un momento di stimolo e di riflessione, ma a volte è anche foriera di spiazzanti perplessità.
In un mondo gastronomico progressivamente omologato a stili meccanicamente riproposti, e che sfrutta fino all’osso format che spesso mostrano la corda, varcare la soglia dell’Enoteca al Parlamento rappresenta una salutare sferzata per chiunque voglia provare qualcosa di veramente diverso.
L’entrata del ristorante di per sé rappresenta già una particolarità: sembra di essere in una di quelle piccole cattedrali esclusivamente consacrate al culto del vino, un sancta sanctorum con bottiglie disposte in ogni dove, capaci persino di creare imbarazzo per potenzialità delle scelte possibili, varietà di annate nonché per l’accessibilità dei prezzi.
Nulla di sorprendente in realtà, trovandoci in effetti in una vera e propria enoteca costruitasi nel corso dei decenni, e depositaria di una certa notorietà già prima di entrare nella cerchia dei ristoranti di valore.
In fondo ecco poi la piccola saletta, dove quattro-cinque tavoli rappresentano il palcoscenico dove avviene il vero scarto, la vera e propria virata.
Qui, da poco più di due anni, in contrasto con l’austera solennità dell’ingresso, quasi che esso ne rappresenti l’ingegnoso trompe l’oeil, un inganno dissimulatore, la cucina di Viglietti, non più profeta in patria in quel di Alassio, va in scena a due passi dal Parlamento, per la fortuna degli avventori romani.
Per goderne appieno l’atteggiamento migliore sarebbe quello di liberarsi da tutti i lacci che possono tenere legati a trascorse memorie di rassicuranti traiettorie gustative. Ci si trova di fronte a una personalissima anarchia dettata da autentica ispirazione e permeata di profonda sensibilità e cultura gastronomica, la cui unica bussola è rappresentata dal proprio sentire, senza ostacoli di sorta che siano distinzioni dolce-salato o la progressione cronologica antipasto-dessert.
Considerato tale tumulto ragionato ci appare doveroso abbandonarsi per godere dell’estro creativo dello chef senza preclusioni di sorta verso il mai banale e mai scontato luna park vigliettiano.
In quest’ottica il menù degustazione è sempre apparso come il passepartout ideale per avere un’idea, la più compiuta possibile, del suo concetto di cucina.
I vari percorsi non annoverano fra i loro pregi però quello della costanza, presentando a volte notevoli differenze anche all’interno dello stesso menù, in cui la concezione di alcuni piatti sembra difettare di senso della misura, intesa non come limite, bensì come confine oltre il quale anche una grande idea perde l’attributo dell’eccellenza per qualificarsi piuttosto come occasione non adeguatamente sfruttata. Per questa ragione siamo dovuti tornare sui nostri passi, ponendo più coerentemente l’Enoteca al Parlamento ad un livello più consono allo stato attuale del risultato altalenante espresso da molti passaggi quest’anno.
Tanto per intenderci nella nostra ultima esperienza la dolcezza caratterizza sia l’entrée del gelato alle acciughe che soccombe di fronte a pinoli e peperoni sia l’insalata di spinaci con lingua di vitello e baccalà che sarebbe un piatto di grande livello se la componente ferrosa della verdura, quella grassa della carne e la sapidità del pesce non fossero dapprima accompagnate e poi, appunto, sovrastate dalla dolcezza della composta di lamponi.
Allo stesso modo la trota confit con salsa di nocciole, spinaci e ravanello vede l’equilibrio travalicato dalla nota eccessivamente dolciastra della salsa.
Altri piatti sono invece pura testimonianza della classe cristallina di un grande chef come Massimo Viglietti: il dentice marinato nello yuzu con tapenade di cioccolato bianco, olive e polvere di pesto in altre mani avrebbe potuto essere una bomba a orologeria, e invece resta un mirabile esempio di maestria gastronomica, goloso ma elegante, rustico e raffinato al contempo.
Idem il piatto con spugnole, ingrediente molto amato dallo chef, foie ed emulsione di albicocche.
Tecnica come sempre inappuntabile al servizio di un’autorialità a volte straripante e impulsiva ma sempre fedele alla propria visione di cucina.
A quanti chef verrebbe poi in mente di portare un barattolo vuoto con uno straordinario concentrato di menta piperita da annusare per resettare il naso prima del dolce?
Un dolce in cui le diverse e più svariate note balsamiche, che contemplano perfino una sigaretta elettronica, ne rappresentano coerentemente la chiave di lettura.
Noi che apprezziamo l’istintiva costruzione dei piatti di Massimo Viglietti non possiamo non tenere conto dell’altalenante riuscita degli stessi che catalogano comunque la sua tavola come una delle più interessanti a Roma, dove appassionati, e non, di alta cucina troveranno sempre mille opportunità di riflessione e divertimento.
Mise en place.
Pane.
Gelato di acciughe, pinoli e peperoni confit.
Insalata di spinaci, baccalà, lingua di vitello, lamponi.
Dentice marinato nello yuzu, tapenade di olive e cioccolato bianco, polvere di pesto, carota e frolla.
Cremoso di rognone su vellutata di patate al gin, gambero scottato.
Trota confit salmonata, polvere di patate sbriciolate, salsa alla nocciola e rapanello, spinaci.
Spugnole, foie ed emulsione di albicocche e limone (sapientemente acida), shiso.
Spuma di limone e bottarga e riduzione di Campari, sbriciolata di lamponi, semi di lino, girasole e zucca. Grande classico dello chef.
Un sorbetto per il naso: essenza di menta piperita per pulire il naso.
Gelato alle Fisherman’s friends, frolla acidula di frutti rossi, infusione di diversi tipi di menta e pepe ed erbe balsamiche, caramella sukai alla liquirizia, sigaretta elettronica.
Petit fours.
Posate.
Con noi al tavolo…
Particolare della sala.
Negli ultimi anni la scena gastronomica romana si è dimostrata molto vivace, concentrandosi su due tipologie principali di locali. Molti sono i ristoranti in cui si è data grande importanza alla parte architettonica, replicando in maniera più o meno riuscita modelli di successo nati altrove, abbinandola con un’offerta di cucina tutto sommato in secondo piano anche se imbellettata con formule stereotipate per essere “alla moda” (km0; “naturale”; locale multifunzionale; cucina di strada); più rari, quelli in cui si è riusciti a proporre, in salsa nostrana, la stessa filosofia dei neobistrot d’oltralpe, cioè materie prime povere ma cucina non banale e capace di superare o reinterpretare in maniera non scontata tradizioni e territorio.
Quello che è mancato, con l’eccezione di alcuni grandi hotel meritori, sono tavole dove, davvero, incontrare degli “autori”, dei grandi chef fuori dal coro, capaci di far divertire anche gli avventori più smaliziati.
Per questo motivo, l’arrivo a Roma di Massimo Viglietti va salutato con sincero entusiasmo ed è, a nostro avviso, una delle migliori notizie di quest’anno.
In una cornice di eleganza decisamente retrò, spicca ancora più forte il contrasto con una cucina, viceversa, davvero mai vista, tanta è la personalità di uno chef che non si rifà a nessun altro. Un grado di originalità raro da trovare non solo nella capitale, che giustifica gli alti e bassi che, inevitabilmente, si sperimentano quando il livello di rischio è così alto.
Il menù degustazione, “wish you were here”, è, in ogni piatto, psichedelico, con contrasti, associazioni, nuance mai banali, mai già viste. Talvolta la costruzione si fa talmente complessa che ci si perde; in alcuni casi l’impiattamento (quasi mai bellissimo) richiede attenzione al commensale nella ricerca della combinazione migliore delle varie componenti. Mai, però, si cade nel déjà-vu, nella strizzata d’occhi ruffiana, men che meno nell’errore tecnico, perché la mano di Viglietti è sapiente.
Già folgorante è l’avvio: spinaci crudi, baccalà, foie gras d’anatra ed emulsione di balsamico. Un caleidoscopio che pare improbabile sulla carta e invece resta miracolosamente in equilibrio.
E gli altri piatti rischiano altrettanto, alcuni con grande successo (le cozze e fagioli), altri con meno fortuna (le polpettine di guancia, al cui equilibrio sarebbe indispensabile per ogni boccone il sapido brodetto di cottura servito però a parte, col consiglio di berlo alla fine) sempre però facendo pensare, spiazzando.
Anche sui dolci, personalità da vendere, e la banana con spugnole, meringa e gelato alle giuggiole vola dritto nell’empireo dei dessert dell’anno.
Spiace aver cenato in una sala desolantemente vuota, nella quale, peraltro, è possibile muoversi alla ricerca della bottiglia preferita, in un’offerta amplissima e prezzata in modo da far felici gli appassionati. Spaziando in un’offerta d’oltralpe ampia e non banale, si possono pescare chicche come il Nuit 1er cru 2006 di Prieuré-Roch che ci ha accompagnato (a 88 euro…) e anche le proposte italiane sono tante e non solo tra i nomi più noti, con grande profondità di millesimi.
Il voto è il risultato di una difficile media tra picchi anche superiori e qualche esito meno convincente, ed è soprattutto il riconoscimento di una statura di grande interprete cui si augura un meritato successo.
Gli amuse-bouche
Il pane, ineccepibile
Insalata di spinacio crudo, baccalà e foie gras d’anatra, emulsione di balsamico
Cozze al naturale, taccole, frutta secca e cioccolato a scaglie. Una riuscita fenomenale
Acciughe e agretti in frittura, robiola e marmellata di cedro, pomodorini alla bottarga, olio emulsionato al limone, riduzione di campari
Seppie saltate in padella con guanciale e olive, carciofo alla roma. Strizzata d’occhio al territorio, meno stimolante del resto della cena ma eseguita con perizia
Triglia in frittura, formaggio di capra, fave, piselli e asparagi. L’anarchia nel piatto; trova la sua quadratura, per noi, solo alla fine, quando finalmente mescoliamo tutti gli ingredienti nel piatto e nel contorno (spezie, funghi, peperone ecc.)
Polpettine di guancia di vitello impanate e fritte, peperoni gialli e rossi, sedano rapa e, a parte, brodetto di riduzione di cottura (indispensabile all’equilibrio soprattutto in termini di sapidità)
Dulcamara: cioccolato, olive e ricotta di bufala.
Banana con spugnole, meringa e gelato alle giuggiole: un colpo di genio, per un dolce memorabile.
Alassio, e più in generale le cittadine della Riviera Ligure, nelle giornate soleggiate di fine inverno hanno un fascino tutto particolare: si può godere appieno del panorama senza ostacoli che osteggino lo sguardo, camminare in pace, parcheggiare con facilità e, con un po’ di accortezza, anche godere di un pasto soddisfacente a pochi metri dal bagnasciuga.
Il Gabbiano ad Alassio, se desiderate tutto questo, può fare al caso vostro: un locale con un’impronta chiara e ben articolata, lontano anni luce dai troppi ristorantini acchiappaturisti che affollano i nostri litorali con proposte almeno improbabili.
Il Gabbiano, gestito con passione da Paolo Quartero e da sua moglie, si trova sulla passeggiata a mare della famosa località rivierasca e, nella bella stagione, permette di mangiare sia nella luminosa veranda panoramica sia nei tavolini esterni posizionati praticamente sulla battigia.
Al Gabbiano, però non si viene solo per il panorama, ma soprattutto per provare la cucina di Paolo.
Il mare è il grande protagonista e non potrebbe essere altrimenti, ma anche i carnivori possono trovare alcuni piatti non banali.
La cucina è piuttosto semplice, il grande protagonista è il prodotto che viene trattato con rispetto e cucinato il minimo necessario per esaltarne le peculiarità senza per questo fargli perdere l’identità.
Cotture precise, sapori netti e un buon equilibrio complessivo, anche se con qualche piccolo eccesso di sale qua e là, fanno sì che il tempo passato a tavola sia nel complesso più che positivo.
Ma oltre agli amanti della tavola, anche i seguaci di Bacco possono qui trovare soddisfazione; infatti l’altra grande passione dello chef è il vino e l’importante carta ne è la dimostrazione tangibile; ben compilata, con in grande evidenza la Francia tutta e la Champagne in particolare, riflette, nel suo complesso, la competenza e l’amore per il vino del suo redattore e permette di bere anche molto bene a prezzi tutto sommato ragionevoli.
Focaccia, siamo in Liguria e non può mancare.
Pane bianco e con la polpa di oliva.
Benvenuto della cucina: involtino di melanzana ripieno di palamita.
Scampi cotti a vapore, carciofi di Albenga, salsa al lemongrass: buoni con un pizzico di sale di troppo nei carciofi.
Passatina di ceci, calamaretti spillo e bacon croccante.
Ottima sogliola cotta alla brace con maionese fatta in casa, tortino di patate e dadolata di verdure.
Triglie spinate e fritte con carciofi: il pesce forse complice un’impanatura piuttosto spessa è risultatato troppo secco.
L’ottimo vino in accompagnamento.
Cannoli di pasta fillo ripieni di crema al mascarpone e ananas.
Piccola pasticceria.
Citare Il Palma di Alassio o Massimo Viglietti significa semplicemente affermare la stessa cosa: mai un’identificazione tra un ristorante e il proprio chef è stata in pratica così perfetta. Sospettiamo anzi che sulla carta d’identità del Viglietti sia riportato il nome del ristorante e non il suo appellativo anagrafico.
Questo a testimonianza della sua grande personalità.
Non tragga in inganno l’aspetto austero, vecchio stile, del Palma, classe 1922, ospitato in una delle stradine nel pieno centro di Alassio: lo stile di cucina che si trova all’interno non ha nulla di tradizionale o classico.
Nella prima sala è possibile ambientarsi consultando i due menù degustazione presenti, quello lungo e quello più breve, sorseggiando magari con calma un aperitivo, abitudine che il ristorante ha mutuato, precursore dei tempi, dai ristoranti d’oltralpe; mentre nella seconda sala, in studiata penombra anche in pieno giorno, ci si accomoda contemplando un arredamento dove nulla, e diciamo nulla, è lasciato al caso, e dove tanti piccoli particolari sono segnali del tipo di esperienza che si andrà a vivere.
La storia del ristorante è lunga, certamente gloriosa, ma vive oggi una fase di riflusso: la realtà italiana in generale, e quella di Alassio in particolare, non sembrano essere il terreno di coltura ideale per la ricezione e la diffusione dello stile gastronomico di uno chef simile.
Un vero peccato, perché ci troviamo di fronte a una tavola tutt’altro che anonima, con una cucina mai accomodante, che fa della ricercatezza, della capacità di stimolare, di essere in continua tensione e dell’anticonformismo, le sue chiavi di lettura più interessanti.
Il carattere dello chef, in questo caso, non può essere considerato un semplice elemento accessorio, bensì il vero e proprio protagonista di un’esperienza gastronomica che è filtrata attraverso idee, cultura e sensibilità.
Il territorio, occitano e ponentino com’è definito dallo stesso Viglietti, è solo il punto di partenza che sa anche arricchirsi d’inflessioni piemontesi e provenzali. Tramite allusioni, commistioni e un pizzico di trasgressività, lo chef crea pietanze che trovano nell’assoluta originalità il proprio minimo comun denominatore.
Certo, gli intenti non sempre sono coronati da successo, alcune volte qualche elemento sembra essere in eccesso, altre volte un fallito gioco di consistenze può lasciare perplessi, ma siamo sempre di fronte ad una cucina pulita ed essenziale, misurata nel numero d’ingredienti, capace di spunti di valore assoluto.
Molti gli esempi: le lenticchie, il sugarello, il midollo oppure la riuscitissima mousse di limone, bottarga e gelatina di Campari.
Una cucina a volte spiazzante, perché obbliga a soffermarsi un attimo, a sospendere le proprie certezze, a cercare di capire prima, durante e dopo l’assaggio. Ma proprio per questo avvincente, sia per il gourmet, sia per chiunque voglia approcciare un’esperienza non banale e desideri la ludica complicità di uno chef che profonde nel proprio lavoro infinita passione.
E Dio solo sa quanto siamo sensibili alla passione.
Interno
Singolare, o forse solo coerente, mise en place.
Focaccia bianca, alle olive taggiasche, alle cipolle ed erbette.
Influenze leggere di piemonte e provenza: insalata di nervetti, stracchino, squisita cipolla brasata alla lavanda, saba (aceto balsamico, fichi secchi, olio di oliva). Molto buona, anche se alla fine la freschezza risente dell’eccessiva presenza del formaggio.
Dentice marinato, asparagi crudi, passata di fragole all’acetosella (al naturale, niente limone olio, sale) ovvero: morbidezza e freschezza in un piatto che volutamente non mette il pesce al centro dell’attenzione.
Posate di tendenza (Daniele Ardissone). Per una volta estetica e funzionalità si sposano.
Non è di Paolo Parisi: uovo strapazzato, gambero, infusione di crescione. Passaggio più semplice ed elegantemente goloso.
Crema di mozzarella di bufala, cozze aperte al naturale, terrina di trippa, riduzione di caffè. Piatto vivace con ingredienti che si rincorrono senza trovare mai una stasi. Alla fine, tirando le somme, prevalgono un po’ le note dolci.
Nasello cotto al vapore nel bamboo con parmentier al Laphroaig (molto presente), corn flakes croccanti (sulla falsariga del texture del fish and chips). Tecnica, conoscenza ed esecuzione in un piatto evocativo più in teoria che in pratica. Comunque molto buono.
Lenticchie di Puy croccanti, cotte in acqua, sugarello battuto al coltello (niente succhi o altro) e midollo. Gusto amplificato al massimo. Gran piatto.
Acciughe fritte con robiola, salsa di pan di spezie (fiori d’arancio, miele, anice stellato, cannella, pinoli e uvetta). Molto riuscito. In questo caso il formaggio è calibrato alla perfezione.
Pastina con passata di pomodoro e arancio, pan grattato alle erbe, tagliatella di seppia. Qui l’intento è quello di dare un contrappunto cremoso alla masticabilità della seppia. L’azzardata strada scelta è quella di una pasta, anzi pastina, volutamente scotta, che non ha convinto appieno.
Mousse di limone, bottarga e riduzione di campari. Acido, grasso, umami, amaro, mirabilmente fusi. Gran dessert.
In giardino. Inno alla maggiorana. Crema pasticcera alla maggiorana, biscotto al cioccolato misto a crumble. Qui, forse, paradossalmente, un pizzico di maggiorana in più non avrebbe nuociuto, ma, come dice lo chef, il piatto gourmand trova l’appagamento in sé, quello gourmet tende sempre verso qualcosa.
Un considerevole de Battè selezionato dallo chef.
Altra scelta dello chef, meno significativa della prima, ma ugualmente soddisfacente.
Altro curioso particolare.
Salottino sociale.
Alassio tra una cabina e l’altra…