Valutazione
Pregi
- Una cucina così evocativa da essere universale.
Difetti
- I piatti sono gli stessi da anni.
- I dolci non sono sullo stesso livello della parte salata.
La presentificazione del passato
“Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato” è la chiosa di un celeberrimo romanzo che allude alla sempiterna condizione dell’uomo di opporsi al tempo che passa e, allo stesso tempo, di non arrendersi alla regressione indotta, e ingenerata, dal tempo stesso. Ciascuno ci prova come può. Pino Cuttaia lo fa elaborando precise salienze gusto-olfattive volte a far riaffiorare un’età cristallizzata e sospesa, onirica: quella dell’infanzia, appunto, popolata di sapori e odori che l’infanzia stessa generava, e in cui il piatto stesso si condiva delle fantasticherie e delle paure del bambino.
È per questo motivo che continuiamo a tornare a La Madia: perché andarci significa vivere una rievocazione efficacissima di una memoria domestica, “orale” perché alla fase orale associata e, come tale, più universale di quanto non si creda. Come tale, la sua cucina fa e sa fare leva su un concetto di “buono” appreso con l’alfabeto, che poi è il fondamento su cui si issa il palato della contemporaneità, almeno in Italia. Una cucina che suscita, tuttavia, dei quesiti: come può esser letta e interpretata, questa cucina, da un palato non-italiano che non condivide, dunque, la nostra memoria, il nostro palato storico? E ancora, come può evolvere una cucina che non fa che reiterare le sue esecuzioni? Come può cambiare uno stile che non fa che rievocare il passato al fine di renderlo sempre più vivo, sempre più potente, in una parola, sempre più presente?
Il sapore dei ricordi
Ebbene, al netto di questi interrogativi, si tratta di una cucina esaltante non solo quando rievoca la fettina – qui di tonno Alalunga – col toccante lascito del seme del limone, estensione essa stessa del ricordo della mamma – ma anche di un ricordo più critico, forse più adolescenziale, come nel caso del Cocktail anni ’80 che è la ricostruzione filologica, e dunque didattica, del piatto in questione prima dello sdoganamento popolare, quando ancora era costituito dalla capasanta e del suo prezioso corallo emulsionato.
Una cucina che riproduce sensazionalmente i sapori che vuole e le esperienze che vive. Ne sono un esempio l’eccezionale scala dei turchi, dove il riccio incapsulato nella pellicola di calamaro e ricoperto di una schiuma densa di mare è tale che davvero sembra di averlo bevuto, il mare, durante un tuffo troppo zelante, così come anche la parmigiana del giorno dopo, con l’eccezionale caramellizzazione del pomodoro attorno alla pelle della melanzana, concentratissima, che tanto ricorda quelle estati passate quando sotto l’ombrellone comparivano tutti i manicaretti della domenica italiana.
E poi il monumentale spaghetto al pomodoro, posto che uno spaghetto al pomodoro possa davvero essere monumentale: semplicemente, una vertigine in cui si collocano i migliori pomodori mai assaggiati e quel rincorrersi di dolcezze e acidità, pungenze e morbidezze tali da sciogliere qualunque perplessità, qualunque tensione.
Meno incisivi i dolci, la cui leva può forse costituire una prolifica strada di sviluppo di questo indefesso lavoro di presentificazione e rievocazione dell’infanzia che è, ad oggi, sia il limite che la grandezza di questo sensibilissimo chef licatese.
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