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La Madernassa

La nuova Madernassa dei fratelli D’Errico

Siamo a Guarene, nel Roero, a sinistra idrografica del fiume Tanaro – è bene sottolinearlo – in un resort di lusso, che con il suo ristorante d’élite ha fatto parlare tanto e continua a farlo. Dalla partenza per altri lidi di Michelangelo Mammoliti che, proprio a La Madernassa, si è guadagnato due stelle Michelin, la proprietà si è trovata a dover ripartire daccapo e, dopo molti mesi, la scelta è ricaduta sui due fratelli D’Errico, Giuseppe e Francesco.

Un duo fatto di mente e pratica: Giuseppe, dopo esperienze internazionali e una preparazione all’ALMA, lavora a Roanne da Marco Viganò e quindi da Troisgros, dove a 25 anni è già sous chef. Quindi approda nelle Langhe, dove il trentacinquenne campano accetta una sfida duplice: da un lato con se stesso – dalla formazione alla guida di una brigata per sviluppare un nuovo e personale progetto – dall’altro quello di mettersi al servizio di una  clientela abituata a una cucina più sofisticata, simile a quella del suo predecessore. Ma il cambiamento, molto spesso, è un’opportunità, e Ivan Delpiano, attuale CEO de La Madernassa, lo ha capito bene. Tre i menù proposti, quello a “Mano Libera“, il “100% Natura” e il “Vegetariano“, con l’opzione di scegliere alla carta.

Quanto al luogo, La Madernassa è un ristorante immerso nella natura, al centro di una collina. Tra le strutture più virtuose se guardiamo alle iniziative messe a segno c’è l’energia elettrica prodotta in proprio, la riduzione della plastica, il contenimento della temperatura e il riscaldamento, fino alla gestione di una vigna, un orto, una serra e un bosco autoctono, con l’obiettivo di abbassare la presenza di CO2 nell’atmosfera e aumentare la produzione di O nonché di coltivare essenze utili per la cucina del ristorante. Il tutto per un totale di 5mila mq.

Una cucina golosa, intensa, rafforzativa dei gusti delle materie prime

Nei piatti c’è senza dubbio una grande tecnica, elemento tra i più caratterizzanti di una cucina che mette al centro sempre un ingrediente specifico, rinforzandone il gusto. Fino ad estremizzarlo ma restando (quasi sempre) in equilibrio. Tra le entrée, oltre a un amuse-gueule leggermente salato all’esterno, per contrastare la zucca al suo interno, una Tartelletta alla carbonara in cui, a nostro avviso, la pasta frolla appariva leggermente appesantita; v’è pure un godurioso Tartufo alle castagne ma a meritarsi il bis è senza dubbio il Carpaccio di fassona affumicata con pane croccante e burro all’acciuga, dal morso netto e morbido, nonché tra i pochi gusti che riportano al territorio in cui lo Chef si trova a operare, e dove ci si aspetta un approfondimento in tal senso.

L’idea di Giuseppe di concentrarsi sui sapori con fermezza è più che vincente ma il Piemonte offre molti ingredienti coi quali poter sperimentare maggiormente una cucina identitaria come quella che già appare. Infatti, nel caso del Dripping di Gamberi – i gamberi di Marzara del Vallo sono di Paolo Giacalone – con arancia, cipolla in agrodolce e pralinato di cipolla, il palato resta fermo sulla sensazione sapida, intensa. Piatto pensato per giocare sulla persistenza di un gusto penetrante, realizzato con grande senso estetico, lo stesso che campeggia nel Re dei Funghi, piatto composto da latte cagliato, duxelle di porcini, panna cotta ai funghi, vinaigrette di champignon e olio alla nocciola. Un concentrato di funghi, accompagnato da un olio che, nell’insieme, addolcisce e amplifica una percezione leggermente amara. In accompagnamento c’è anche una chips al fungo che nulla toglie e nulla, invero, aggiunge. Il piatto più riuscito, per concentrazione e bilanciamento, è il Pomod’oro, preparato con foglia di riso farcita con petali di pomodoro confit, pesto di basilico e acqua di pomodoro condita con semi e olio di basilico. Un tripudio di mediterraneità: fresco e al contempo deflagrante per il suo impatto.

Sui primi c’è Torba mente, golosissimi spaghetti cotti in estrazione di foglie di limone, erba ostrica, aringa affumicata, whiskey torbato, polvere di limone. La pasta arriva da un piccolo pastificio campano, buona la filigrana e la consistenza, per un gusto che diventa affumicato e in equilibrio con la mantecatura. Sui secondi, si parte dal Bouquet d’Estate, una rana pescatrice con crema di zucchine, pasta di limone e acqua di mare al profumo di zafferano: qui si raggiunge il climax del percorso grazie a una esplosiva salsa che, oltre a rappresentare uno dei picchi gustativi, rende il piatto equilibrato, in bilico tra profondità e tensione. Si chiude quindi con il Royal Rabbit, sella di coniglio farcita con melanzana alla brace, petali di pomodori semi confit e acciuga del Cantabrico. Piatto meno concentrato di altri ma delicato e di grande avvolgenza. 

Tra i punti di forza di questa nuova brigata c’è il restyling della sala, bellissima, e una squadra sorridente, giovane e scattante, con un abile sommelier ventitreenne di origine filippine che trasuda passione e attaccamento al suo lavoro e ai vini del Roero. L’autunno è iniziato, non si vede l’ora di tornare.

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A Isola d’Asti, un tempio della cucina piemontese

Dai Ferretto sono passati tutti i più grandi cantanti e musicisti. Artisti di ogni tipo. Un albergo un po’ nascosto, sulla statale che porta da Asti ad Alba, passato dall’essere un ritrovo per i giovani a bar e, infine, punto di ristoro, fino a quando Armando e Silvana, con i primi anni Ottanta, lasciano la struttura in mano ai figli, Roberto e Walter Ferretto, nasce così Ilcascinalenuovo.

All’epoca, il mondo in cui viviamo oggi non era minimamente pensabile. L’offerta vitivinicola non era quella di oggi, per non parlare della cucina. Bistrot e stellati non esistevano in questa propaggine delle Langhe. Quelle Langhe Patrimonio Unesco erano nella testa forse di qualche produttore illuminato, che si faceva portavoce di tutte le ricchezze del territorio. Cucina compresa. E allora i due, ereditato un repertorio inderogabilmente basato su ricette tradizionali piemontesi, si guadagnano presto la fiducia dei grandi protagonisti dell’epoca – e ancora di oggi – del vino, da Giacomo Bologna a Gaja. Tra una vendita di bottiglie e strette di mano con le persone che contano, Walter si ritrova a cucinare nelle grandi cucine stellate di Francia. Quando torna, la sua testa è più veloce delle mani. Nascono piatti che tracceranno il suo percorso e la fortuna del ristorante, stellato Michelin dal 1990, che continua a gestire assieme a quel mattatore del fratello, un amante di grandi vini. È il “Diretur” e la sua selezione di etichette è rigorosa, tanto che oggi può sfoggiare vecchie annate al fianco di qualche novità della Franciacorta e di zone “minori” francesi ma à la page – come si usa dire  – come lo Jura, del resto è dall’85 che Walter, dai fornelli, fa tornare uniti Francia e Piemonte

“Ilcascinalenuovo” è un grande classico

La commistione si evince da un piatto, in carta, dal 1989: la millefoglie con lingua e foie gras. Intervalli di pura libido senza soluzione di continuità e gusti scanditi, tanto che il palato diventa un manometro che impone, quasi perentoriamente, di ascoltare i sapori con un’attenzione nuova. Il piatto “insegna”, educa alla comprensione di tutti i piatti a venire, didascalici nel parlare degli ingredienti che lo compongono. Non è forse questo quel senso di un’esperienza culinaria, intesa come bagaglio di conoscenza? Una sensazione simile si prova con il carciofo ripieno su fonduta di Bra e acciughe del Cantabrico, una culla avvolgente e un morso che affonda. 

La ricerca, soprattutto sulle lavorazioni delle materie prime, non si ferma e, anche sulla pasta, Walter riesce a proporre in assaggio un trittico di ravioli ripieni con burrata e ricotta, branzino e baccalà mantecato, quest’ultimo con sfoglia integrale. Consistente, da mordere e rimordere. Qui i ripieni si sfaldano presentando, ancora una volta, il messaggio dell’ingrediente che incapsula, peraltro, anche l’esperienza del laboratorio di tre chef, Walter Ferretto, Fulvio Siccardi e Diego Pattarino. E, a proposito di protagonisti, una precisazione è d’uopo: in cucina sono arrivati ad affiancare Walter due giovani, Gabriele e Chiara, che hanno portato, sui secondi e sui dolci rispettivamente, tecniche nuove e una nuova apertura al rischio, soprattutto nel presentare gli ingredienti nel piatto nei quali, però, ci sentiamo di dire che troviamo qualche spunto migliorativo, come il ridurre la quantità di qualche ingrediente in favore di una maggiore concentrazione.

Tornando a noi, comunque, la cottura impeccabile del riso Carnaroli con zucca gialla e ragù di galletto speziato rende bene l’idea di ciò che accade  nella mente di uno chef abituato a concentrare le proprie energie nei momenti salienti che abitano il piatto. È audace ma convincente anche la scelta di accostare al petto di galletto il foie gras il melograno, il tartufo nero e la cipolla. Siamo, peraltro, dinanzi a un ineludibile richiamo francese. Anche sui dolci si fa breccia con la tartelletta di crème brulée fiammata: il ristorante e, oggi, la coppia, sono una sorta di idoli per le vecchie generazioni e quelle contemporanee. La tartelletta parla di questi idoli e ne fa un punto di riferimento per tutte le crème brulée che andremo ad assaggiare in futuro.

Lato abbinamenti e sala, il carrello dei distillati è fornitissimo – esiste un carrello! –  mentre nella carta dei vini si può tranquillamente ampliare la gamma con altre referenze nostrane. Ultimo piccolo neo è forse la location che se d’estate, col giardino, s’illumina, d’inverno resta invece un po’ nascosta.

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La cucina libera e anarchica di Enrico Croatti

I dintorni della Stazione Centrale di Milano brulicano di insegne dedicate al mondo del cibo e del bere. Tra queste il Moebius si distingue, a cominciare dalla location: una ex-fabbrica, con grandi vetrate in stile industrial, che all’interno racchiude un grande loft su due piani. Il piano terra ospita il Tapa Bistrot con cucina a vista da cui escono, grazie al lavoro sinergico e ordinato di una brigata di giovani cuochi, sia piattini con cui accompagnare a piacere gli originali drink del cocktail bar, che portate (porzione da trattoria), cucinate espresse. Al centro, un social table da circa 30 coperti e, qua e là, angoli con tavoli, divanetti e poltrone, dove ascoltare musica dal vivo il lunedì e il giovedì sera.

Al piano superiore, sospeso a quattro metri dal pavimento, il Moebius Sperimentale, lo spazio raccolto, di sobria eleganza e con pochi tavoli, dedicato ai menù avvincenti di Enrico Croatti che opera nell’adiacente cucina a vista perfettamente sovrapposta a quella del piano inferiore. Niente carta. Solo percorsi tematici ben meditati nella sequenza delle proposte e vieppiù sorprendenti: “Esplorazione” (6 o 9 portate) è l’unico percorso servito per tutto il tavolo; “Subacqueo“; “Terrestre” e “Vegetariano“, questi ultimi percorribili simultaneamente da uno stesso tavolo.

Una (ri)apertura freschissima ma con impianto che sembra già totalmente collaudato, tanto il livello è performante e lo pone già tra le più interessanti tavole milanesi. Tra gli assaggi, tutti coerenti con la cucina personale, intelligente e funambolica di Enrico Croatti, tecnicamente solida eppur giocosa, libera da banali conformismi e consapevolmente ribelle perché sa padroneggiare le regole anche quando le sovverte, spiccano sia la zuppa anarchica di pesci crudi, espressione del mare più vivo che attraversa, non senza rischi ma decisamente indenne, le Colonne d’Ercole della più rassicurante e nota zuppa di ostriche francese, sia il risotto sudamericano di calamari, una samba di sapori agrumati e speziati con tocchi scontrosi che si riappacificano in un pertinentissimo, quanto apparentemente insensato, pane della casa fatto con lievito madre.

Funzionano, nel loro essere comfort e nel creare movimento all’interno dell’esperimento esplorativo, tanto gli agnolotti all’ossobuco di vitello 2008, plin da intingere in un fondo bruno ricchissimo di zafferano, quanto il raviolo di zucca cotta a -40°C, fonduta di Parmigiano e kumquat che strizza l’occhio alla tradizione della Bassa Padana. Il dessert Cioccolato mette in evidenza la leggerezza, la freschezza e la sobrietà di cui è capace l’ingrediente peccaminoso per antonomasia.

Ma se l’esperienza al Moebius Sperimentale è di quelle da non perdere è anche merito della sala e di Filippo Arrighi, che con discrezione e gentilezza è pronto a prendere per mano gli ospiti raccontando loro i piatti nei loro lati salienti e accompagnandoli con il giusto cocktail o il calice più adatto.

Nell’insieme, le molteplici personalità del Moebius convivono senza prevaricare l’una sull’altra. Sta agli ospiti scegliere quale di esse fa più al caso proprio, in quel determinato momento. E se nel nome Moebius omaggia il noto fumettista francese Jean Giraud, a noi pare anche Moebius sia proprio come il nastro di Moebius, appunto: una superficie con una sola faccia. Percorrendola, ci si ritrova “sotto” il punto di partenza senza bisogno praticare incisioni o di sconfinare oltre il bordo e, volendo dipingere una sola faccia del nastro, si dipinge inevitabilmente anche l’altra.

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Paolo Griffa al Petit Royal: tempo, ricerca e studio per un nuovo livello

Il giorno dopo la cena nell’unico étoilé di Courmayeur, ci si può incamminare per i boschi ma c’è condensazione – è contingibile – il clima “tropicale” di questi ultimi anni inizia a farsi sentire anche in alta quota. Ma nel silenzio mattutino, calpestando e toccando con mano la rugiada, si comprende il valore della ricerca dei sapori dello chef trentenne Paolo Griffa al Petit Royal, appena inserito nella classifica Under 30 di Forbes.

Le pause forzate, le cui cause sono note, hanno trasformato il suo rapporto con la Valle d’Aosta e la cucina. Per prepararsi alla riapertura estiva del ristorante, Griffa ha impegnato il tempo ascoltando piccoli artigiani in Val Ferret e Val Veny, confronti per uno “switch” atteso: si trasferiscono e convertono informazioni per portare la cucina a un livello superiore.

I piatti sono ricercati, definiti, puliti. Ma sopratutto alleggeriti, senza aver perso la sostanza, la concentrazione e gli obiettivi, frutto delle commistioni di ingredienti presenti. Determinazione e dialogo lo rendono un esempio, diverso, di destinazione d’uso delle materie prime e, in qualche caso, una sorta di tutor, sicuramente per chi sceglie di fidarsi di lui.

La Valle d’Aosta non vanta, poi, numerose ricette classiche ma inventiva e intelligente uso delle erbe, raccolte da tutto il team di Griffa, riescono a far divertire l’ospite senza fargli dimenticare di essere in montagna. Ci si imbatte in un vero e proprio sviluppo cerebrale dello chef, una consapevolezza sempre maggiore di sé e di quanto gli sta attorno. Griffa respira la montagna, la fa sua e la porta a tavola con grande pathos e preparazione. La tecnica d’altra parte non manca, essendo il suo primo amore l’arte della pasticceria.

Una preparazione altissima, la sua: è un cuoco razionale prima che emotivo, si confida con la creatività difendendo con grazia territorio e idee. Le esperienze all’estero sono oramai lontane. Dalla Francia alla Danimarca e Italia, ha fatto sue le preparazioni dei fondi, per carni e pesci, e le cotture, creandosi, di fatto, un proprio stile in regione. Oggi casa. È uno e soltanto uno il menù: Declinazioni. L’idea è di sviluppare gli ingredienti e per l’appunto declinarli nel “I Love Aosta”, “Jolly” e “Arte”, percorsi in cui scegliere di vivere gusti tipici della Valle d’Aosta, lo spirito dello chef o i piatti ispirati ad opere artistiche.

Il menù di Griffa: una vincente formula Jolly

Già dagli amuse-bouche ecco il feeling tra mani, testa e desideri di Griffa; impeccabile, come sempre, il panino fritto con anguilla affumicata, a cui si affianca per equilibrio e intensità la tartelletta olandese con carota e cardamomo. La raccolta delle erbe, mai uguale, poiché quotidiana, restituisce la giusta e sincera rappresentazione del giorno nella Skyline del Monte Bianco, la cialda di fontina che abbraccia fiori e foglie poggiati in un pesto di erbe, olive nere, capperi di aglio orsino e ginepro. Giochi palatali che si muovono tra pungenze, toni amari e freschezze alpine. Tra le erbe spicca l’artemisia. Non siamo di fronte a un gin o a un vermouth, ma la sensazione non è distale.

Il primo vero piatto è la trota salmonata di Morgex: cotta splendidamente, tal quale riporterebbe al luogo da cui nasce, un fiume circondato da pini. Così personale e delicata la materia che si perde un poco quando la si abbina al carpaccio di funghi con cipolline, tartufo nero e uno zabaione di larice, quest’ultimo nettamente è il più intenso. È un certame di sapori, lo zabaione ha la meglio anche sull’effetto di terrosità delle pigne e tartufo.

Il momento più artistico e cerebrale arriva con l’Arte antica del Mosaico, la tajine di verdure con salsa lassi al cumino e menta, si lascia intrattenere dal cous cous alla cannella e menta. Resta un gusto più dolce della salsa, che pare quasi anteposta alle verdure, cotte a vapore, presentate con un gioco di fiori, il vero leitmotiv del menù. Un piatto ragionato eseguito con un certo nitore per palesare l’attività di “ricerca e sviluppo” prima di raggiungere nuovi, già alti, punti di equilibrio. 

Con la Bouchées à la Reine con ragoût di verdure, funghi, animelle e gamberi di fiume, accompagnate da limone sotto sale e aneto e salsa villejuanne, si raggiunge l’acme gustativa. La bisque, così intensa e centrata, sembra quasi un fondo bruno. Golossimo ed equilibrato, di bel contrasto tra potenza e peso. È la rappresentazione della manualità e della sicurezza – maturate – di interpretare e interpretarsi con le materie prime locali. L’abbinamento del validissimo sommelier Alessandro Mantovani con un pinot noir di Toscana non solo è puntuale, ma da bacheca.

Sul piccolo assaggio di Favó (piatto di cui abbiamo parlato nella nostra precedente visita) capiamo l’importanza non solo per Griffa, ma per l’intero territorio, di avere una ricetta autoctona. Ritrovata, studiata, è proposta in chiave più contemporanea. Cottura perfetta, l’amido raggiunge il brodo, le spezie, la carne, e le verdure. Quanto sapore!

Si prosegue con l’idea della “Lièvre à la Royale” alla wellington, per donare croccantezza, ma al posto della lepre arriva il coniglio, scelto dall’allevamento di Ermes Pavese, produttore di grandi vini Blanc de Morgex et de la Salle. Intenso, la salsa non consuma le proteine. L’Arte primitiva è un filetto di cervo grigliato e laccato alla resina di pino con polvere di porro, cipolla e funghi, accompagnati da un’insalata di diverse e colorate patate di montagna affiancate da cipolle sott’aceto e creme fraiche alla cipollina e salsa bernese. Non si sa come, ogni fetta è un nuovo sapore, sempre più intenso, sempre sfacciatamente goloso. Divertentissimo, poi, l’assaggio delle patate.

Dulcis in fundo – per davvero – come nelle migliori fiabe, le principesse entrano in mondo parallelo: è tutto un fiore, quella fragilità di un petalo, che cade o che si secca, diventa il protagonista in ogni punto di un piatto in cui non si sa dove guardare tanta è la bellezza. Flower Power è destinato a diventare un must. Ogni petalo di sorbetto alla pesca bianca, resta immortalato in uno strato cheesecake alla vaniglia. Altri petali di brunoise di pesca gialla condiscono e alternano una cucchiaiata croccante e cremosa. La crema di namelaka al sambuco rinfresca, prima di una parte più filante; arrivano poi la gelatina di melissa che anticipa la verbena, i fiori di calendula e la nepetella. Fiori stordenti, calmanti, preparatori di un fiabesco dormire. Una pioggia nell’arcobaleno. 

Il servizio in sala è impeccabile. Ci sono insomma tutti i presupposti per pensare al raggiungimento di nuovi, importantissimi traguardi.

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Yannick Alleno in Langa

Prendete uno chef pluri-tristellato francese, Yannick Alleno, noto per il suo lavoro sulle estrazioni, tra i più à la page in questo momento storico in Francia, chiedetegli di fare una consulenza, di firmare la linea e il menù in un resort di lusso a Monforte d’Alba. Voilà, siete arrivati da Fre. La prima stella è arrivata a pochi mesi dall’apertura, e tanti altri traguardi si preannunciano alla sua portata, in questo luogo bucolico immerso nella campagna langarola.

La cucina è affidata a Bruno Melatti, giovane diplomato ad Alma, con importanti trascorsi in Francia, anche proprio da Alleno. E Bruno trasferisce in maniera esemplare i dettami e le idee del grande chef d’Oltralpe contaminando la cucina del territorio con prodotti e tecniche francesi. Il risultato? Semplicemente ottimo, a cominciare dallo splendido rosso di anguria e passando attraverso l’uovo in illusione, due piatti che, oltre ad eleganza e finezza, giocano con il concetto delle estrazioni in maniera mirabile, applicando alla lettera, per appunto, i dettami dell’Alleno-pensiero.

Ottimi e veramente golosi tutti i primi piatti, anche se la reinterpretazione in chiave francese della cucina del territorio si è spinta forse un filo troppo oltre, specie in alcuni passaggi: pensiamo in particolare alla tartare di Fassona, completamente coperta dall’estrazione di funghi e dalla crema di foie gras.

Sorprendente poi la pomponette di trota, con le sue uova e il burro e splendido, purissimo nella sua apparentemente semplice essenza, infine, il piccione affumicato: vessillo della grande tecnica acquisita.

Una cena perfetta, con un servizio attento e molto curato e un percorso che, forse, a parte qualche marginale considerazione, risente solo del prezzo, piuttosto elevato. Del resto siamo pur sempre a Monforte d’Alba, in un relais di gran classe.

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