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Tracina

Lungo il Porto Canale leonardesco, a Cesenatico, Christian Fava ha aperto il suo ristorante nel 2019. E, dopo esperienze importanti in ristoranti di livello, con un significativo culmine come sous chef di Alberto Faccani al ristorante Magnolia di Cesenatico, ha deciso di aprire le porte alla sua casa e alla sua idea di cucina.

Veneto di origine ma ormai romagnolo di adozione, anticipando una tendenza già in atto, Fava ha messo il suo grande bagaglio tecnico e la sua grande conoscenza degli ingredienti al servizio del suo ristorante, creando un luogo in cui l’ingrediente, appunto, è al centro. La tecnica, mai esibita e ostentata, è tanto intensa e pervasiva quanto invisibile. Ecco perché abbiamo eletto il Tracina uno dei nostri punti di riferimento in Riviera.

Perché come il pesce da cui prende il nome, l’aspetto, in questo caso l’apparente essenzialità delle preparazioni, confligge con l’anima e l’essenza del luogo, composta da ciò che il mare dona di più fresco e autentico che corre diritto nel piatto, ma con attenzione a cotture, abbinamenti e lavorazioni. La tracina è un pesce dall’aspetto non invitante ma, invero, molto buono. Un grande ristorante travestito da trattoria, per non spaventare, per avvicinare, per mettere al centro, soprattutto, la convivialità.

Ed ecco quindi un tripudio di crudi, splendidi e freschi (difficilmente troverete questa qualità nel raggio di molti km), ma anche dei cucinati e, in posti similari, non è sempre così, sia adeguatamente tecnici che ben fatti e ben presentati come la spigola, la ricciola o le linguine alla testa di tonno. Una cucina apparentemente elementare, ma che di elementare non ha nulla.

A cominciare dallo chef e patron Christian Fava, in sala a coordinare le comande e accudire i clienti, dal primo all’ultimo.

Chiude il cerchio una cantina sensazionale a prezzi da encomio. Un luogo da segnare sul taccuino gourmet, senza dubbio alcuno, che vale certamente la deviazione e, forse, anche il viaggio.

La galleria fotografica:

Una delle mani più pulite, e più risolte, della Riviera Romagnola

Uno dei grandi meriti di Alberto Faccani è, senz’ombra di dubbio, la costanza. Ma è una costanza dinamica, la sua, capace di mantenersi e anzi di alzare la posta mediante un esercizio all’autocritica che, crediamo, sembra essere tanto fecondo quanto continuo. È questo stesso esercizio che permette lui di perfezionarsi e di affinarsi costantemente, e pacificamente, senza lesinare, peraltro, le numerose e colte citazioni che chi ha memoria storica riuscirà facilmente a cogliere.

Una cucina composta, borghese nel senso migliore del termine, e neoclassica, ovvero elegante, centrata mediante contrasti studiati col bilancino e tanto intelligenti, come già abbiamo avuto modo di constatare in passato, per via della rarissima capacità di accontentare, benché nella piccola costellazione di appena nove tavoli, anche l’appetito romagnolo proverbialmente poco avvezzo a quanto non sia, semplicemente, sostanza.

Ma Faccani raggiunge il primato di essere il meno romagnolo tra i più romagnoli: la sua mano è raffinata e non cede mai né agli eccessi né alle pulsioni, men che meno alle provocazioni o alle tentazioni dell’avanguardia. Il risultato è una cucina apollinea, aulica, fatta di linee pulite ed essenziali che si magnificano già in apertura col fossile di schie e si coronano anche nel piatto più opulento, il calamaro alla carbonara con tartufo nero, che simula nel taglio lo spaghetto e tanto ricorda, nel concetto, la tagliatella di seppia di Corrado Fasolato ai tempi de La Siriola, mentre lo gnocco di capasanta emula del mollusco la forma pingue e carnosa, nel segno di una grande coerenza tanto di forma quanto di sostanza.

Un tributo al Mar Adriatico, poi, il risotto mantecato in tre salse che, come accadeva nelle superstizioni iconografiche del passato, della Romagna sembra aver catturato l’anima e il cuore.

E se in passato avevamo avuto modo di constatare che, purtroppo, il reparto dolci non era allineato allo stile aulico, si direbbe quasi aureo, della cucina dello chef, oggi proprio i dessert e, in particolare, il cocco tropicale, di questo stile sono la dolce, apollinea epitome.

Un plauso, dunque, a questa Romagna in dolce stil novo.

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Brindisi tra le colline dell’Emilia Romagna

Colli di Parma Doc 2018 “Poem”_ Monte delle Vigne

Monte delle Vigne nasce nel 1983 dall’idea imprenditoriale di Andrea Ferrari il quale affonda le radici della sua cantina sulle colline, a 300 metri di altezza, dalla Pianura Padana fino alle vette più alte dell’ Appennino Tosco-Emiliano. Dai 7 ettari di vigneti di proprietà iniziali ai 60 nel 2009, il passo è stato fulmineo e determinante fu la collaborazione tra Andrea Ferrari e Paolo Pizzarotti. Questi 60 ettari complessivi sono suddivisi tra varietà a bacca bianca e rossa: Malvasia, Chardonnay, Sauvignon, Barbera, Merlot, Croatina, Lambrusco e  Cabernet Franc.

Colore giallo paglierino tenue, al naso è intenso e ampio. Note floreali viaggiano parallele a quelle aromatiche richiamando la frutta esotica e sentori balsamici di erbe officinali. Al gusto la struttura è buona e l’assaggio è morbido, fresco e abbastanza equilibrato. Si consiglia in abbinamento ad una tartare di pesce o tarte-tatin  salata alla cipolle e gorgonzola.

Prezzo e-commerce Tannico: 9,50 euro

Ravenna Sangiovese IGT “Vittoria” 2019 _ La Casetta

La Casetta, ubicata sulle colline dell’Appennino Tosco – Romagnolo, nasce come azienda agricola nel 1963 e fin dal principio venne gestita interamente dalla famiglia Errani. I capostipiti, Antonio ed Angelo Errani, unirono la passione per il vigna a quella delle piante da frutto e fecero  della campagna il loro lavoro. Nel 1974, entra in azienda Giuseppe Bartolini – genero di Antonio – il quale seguendo corsi di enologia porta l’Azienda ad occuparsi quasi esclusivamente della produzione e vendita diretta di vino. Dai primi anni 2000 La Casetta è portata avanti da Michela – nipote del fondatore – e Davide, con la consueta dedizione che l’imprinting famigliare ha lasciato loro.

Alla vista si presenta di colore rosso rubino porpora, limpido. Al naso è vinoso, si esprime verticalmente con note di ribes, mora, ciliegie, lampone, rosa, viola e lavanda. Al gusto è meno incisivo ma abbastanza persistente e intenso. Giovane, si consiglia di lasciarlo qualche tempo in bottiglia, una beva semplice ma apprezzabile. Si consiglia in abbinamento con anguilla alla griglia o tagliere di salumi e formaggi.

Prezzo e-commerce Tannico: 7,30 euro

A San Patrignano una nuova vita per Vite

Vite è l’agriturismo gastronomico della comunità di San Patrignano. Una struttura che mira ad essere l’avamposto principale in cui consumare i prodotti di qualità dell’azienda agricola omonima. Un lavoro che coinvolge i ragazzi della comunità, un progetto che sin dall’inizio è costruito con l’obiettivo di reinserire nella società ragazzi che hanno passato momenti indiscutibilmente difficili.

E dobbiamo dire che il servizio ai tavoli, così come le preparazioni in cucina, sono eseguite con una tale perizia, professionalità e precisione che ci siamo fin commossi da tutta questa energia positiva. Il nostro cameriere, Razvan – di origini transilvane – ci ha fatto trascorrere una spledida serata con la sua dolcezza, gentilezza e professionalità.

Merito di questo splendido progetto di recupero ma anche merito del nuovo executive chef Riccardo Agostini, che con entusiasmo affianca il talentuoso resident chef Federico Polito, con tutta la squadra dei ragazzi al seguito.

In questo spledido luogo sulle colline riminesi potrete gustare i salumi e i formaggi prodotti in comunità, potrete attingere ad una cantina di grande profondità proposta a prezzi eccellenti, potrete degustare qualche preparazione di terra e di mare curata e intensa, sempre non perdendo mai di vista il territorio e il circondario.

Le nostre tagliatelle al ragù sono state tra le migliori mai provate, così come gli spaghetti alle canocchie, semplici e gustosi. Un plauso quindi ad un progetto da incoraggiare e supportare.

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Kolibrì: un mondo da raccontare

Ci sono belle storie da scrivere in giro per lo Stivale. Storie di passioni, di fatica, di “testa bassa e pedalare”, di tagli e sorrisi. Storie di uomini alla ricerca di un proprio posto. E il mondo delle cucine non fa differenza, anzi: questo è un mondo dove il sacrificio è pane quotidiano. Ovvio, non si salvano vite dietro a un fornello, ma di sicuro si rinuncia a un grosso pezzo della propria vita personale e questo non può che generare profondo rispetto da parte di chi, come noi, ne gode spesso e volentieri.

Allora, girando per questo mondo del cibo dalle mille sfaccettature, può capitare di imbattersi nella storia di Irvin Zannoni, cuocone nel pieno della maturità con le mani del lavoratore vero, uno di quelli che non ha vissuto da giovanissimo la ribalta mediatica eppure sa dare del “tu” agli ingredienti. Dopo una lunga esperienza alla Capannina di Casal Borsetti si riparte da un altro luogo, apparentemente improbabile, eppure con del potenziale. Basta avere visione.

La sua si è formata sul campo tra le cucine della Riviera Romagnola, dove si impara a stare in trincea e fare numeri, e ferie invernali passate a studiare alla “scuola” di Giancarlo Perbellini. E certamente la lezione dello chef veronese gli è rimasta appiccicata addosso: in alcuni passaggi, al Kolibrì, sembra proprio di tornare ai primi anni 2000, seduti in un tavolo di Isola Rizza. E lo si prenda questo come un grande complimento…

Gusto e sapore

Nello scampo, foie gras, crumble al pepe e salsa alla camomilla c’è tutto quel mondo e quel sapore, quella dolcezza che non stanca ma anzi coccola e avvolge perché supportata da una corretta freschezza. Lo stesso si può dire per il crostino con sgombro e foie gras, boccone lussurioso in cui lo chef riesce a domare il grasso con grande maestria.

Una cucina certamente con un buon carico lipidico, ma non per questo pesante. Magari senza colpi di genio assoluto, ma con una dote impagabile: la pienezza dei sapori. Irvin Zannoni ha palato, ha senso del gusto, e queste sono doti che o ce le hai o non te le inventi. È il senso del gusto a sostenere un fantastico spaghettone dove il guanciale è sostituito dall’anguilla (davvero un grande piatto) o il gambero rosso crudo abbinato alla pesca e alla vaniglia, in cammino spericolato sul crinale tra giusta dolcezza e saturazione del palato.

Di strada da fare ce n’è tanta, in verità più nel contesto del locale, che deve riuscire a trovare una propria identità, smarcando in qualche modo la proposta del menù fine dining da quella dei numeri, di cui il Kolibri ha vissuto e continuerà bene a vivere.

Del resto, si parla già adesso di un ingresso dedicato, di migliorie varie, di revisione della carta dei vini. Insomma, lavori in corso. Nel frattempo, sia che siate seduti nella piccola saletta dedicata al menù gourmet che in quella grande dello storico locale, potrete ordinare indifferentemente le due proposte, quella più tradizionale fatta di grigliate e cappelletti e quella più creativa dello chef Irvin.

Noi teniamo gli occhi ben puntati su questo cuoco dalle indubbie capacità, perché di cucine di impronta classica, ben fatta come questa, non è che ne sia pieno il Bel Paese….

La galleria fotografica: