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Bagno Bandito 211

Un progetto “bandito”, a Cervia, di cui sentiremo ancora parlare

Questa terribile pandemia ha creato anche i presupposti per storie casualmente interessanti. Ivan Milani, cuoco di talento conosciuto prima al Piano 35 a Torino e in seguito al Pont de Ferr a Milano, durante il lockdown si è trasferito con la moglie in Romagna.

Prima a San Marco di Ravenna e poi a Cervia, con un progetto importante pronto a decollare. Ma il periodo è quello che conosciamo, il progetto abortisce prima di nascere e Ivan, grazie all’aiuto di Omar Casali del Marè di Cesenatico conosce Alessandro Fanelli, noto imprenditore della ristorazione della zona. Imprenditore illuminato, che cerca di creare format diversi, a oggi questo Bandito 211 è il quinto, ma tutti sulla base di un unico intento: proporre buoni numeri coniugando la qualità della proposta. Suo è il progetto del gin Bandito e della vodka Bandita, due prodotti nati e pensati con il genio dell’alchimia Baldo Baldinini.

E proprio dall’unione del numero civico del lungomare di Cervia dove si trova il bagno che ospita il ristorante e i prodotti gin e vodka bandita, prende forma Bandito 211, un progetto sperimentale nato quest’estate ma che, dopo i risultati molto incoraggianti, potrebbe avere uno sviluppo non solo stagionale. Perché il connubio tra Alessandro e Ivan pare proprio funzionare a dovere proponendo, per ora, una soluzione duale, diversa tra pranzo e cena. Il pranzo leggero, tutto sommato semplice, la cena più ricercata. In entrambe le occasioni però troverete molte preparazioni realizzate maison, dai formaggi al pane, qui tutto è pensato e proposto all’insegna della qualità, su cui né Ivan né Alessandro transigono.

Bandito, ovvero a mano libera totale

Se a pranzo la scelta alla carta è centrata su poche ma concrete preparazioni, la sera il bagno si mette l’abito da sera, seppur informale proponendo, a fianco di una carta più articolata, due menu degustazione, uno da 8 l’altro da 14 portate, rispettivamente a 48 e 65 euro. Il menù da noi scelto è il più spinto e incisivo e prevede un dialogo con lo chef per sincerarsi di eventuali intolleranze o ingredienti poco graditi: da qui nasce un percorso completamente personalizzato e, soprattutto, a mano libera totale.

Ebbene, dobbiamo ammettere che Ivan Milani ci ha davvero stupiti. Considerando la situazione, comunque provvisoria, e una cucina certamente non attrezzata come quella dei ristoranti veri, lui e la sua squadra ci hanno fatto divertire con preparazioni originali e intriganti in cui si respirano le contaminazioni orientali e lo studio sui fermentati che lo chef ha approfondito nientemeno che col mago delle fermentazioni, Carlo Nesler. Splendido, per dire, il carpaccio di anguria con garum di sarde e bottarga, ottima l’ostrica rosa perla del Delta con scalogno, aceto di riso e tapioca, così come molto interessante la pleonastica pasta condita al miso di pasta con burro e olivello spinoso dai sentori acido-caseari. Ottimo il racconto attorno alle interiora di rana pescatrice, così come molto divertenti e riusciti anche i dolci, poco dolci e contrappuntati di un tocco sapido, acido e umamico.

Va da sé che ancora molto resta da sistemare e benché si tratti, come detto, di un esperimento, ancorché riuscitissimo, ora il duo Milani/Fanelli dovrà ora programmare tutti gli interventi necessari per rendere stabile e concreto un progetto per cui noi, sin d’ora, tifiamo già davvero.

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A casa di Gianluca

Balsamica. Pungente. Polifonica. Cromatica. Basterebbero questi quattro aggettivi per definire la cucina che Gianluca Gorini propone nel suo ristorante daGorini (sì, scritto proprio così, tutto attaccato). Basterebbero, e sarebbero apparentemente sufficienti per passare ad altro: a tracciare, per esempio, un ritratto dei singoli piatti. O a descrivere il calore degli ambienti. O a soffermarsi sull’atmosfera del locale… Eppure, dietro quell’errore di spaziatura che un proto avrebbe corretto con solerzia, si cela una valida chiave per tentare una disamina più complessa di un’esperienza ai tavoli di questo locale che, indubbiamente, spicca per personalità nel panorama di vertice della nostra italica ristorazione.

Perché, quindi, daGorini e non da Gorini? Cosa cela questa effrazione alla consuetudine grammatica? Il «da» segnala, secondo usi secolari che potrebbero essere codificati in un ipotetico vocabolario storico della ristorazione, una ‘sosta’. Una ‘sosta’ presso ‘qualcuno’ – in questo caso «Gorini» – che è il gestore o il proprietario dell’insegna. Un calore di casa, quindi, anima questi luoghi e, all’ospite, non resta che varcare la porta o, metaforicamente, il vuoto ‘spazio tipografico’ fra il «da» e il ‘nome’ di turno per ristorarsi e riposarsi dalle fatiche del viaggio e della vita.

La scelta fatta da Gianluca Gorini è, invece, altra, e non dettata né da iconoclastia futurista verso le regole e i dettami né tantomeno in spregio al viandante. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quei battenti per decenni hanno attraversato persone che giungevano anche da molto lontano per gustare i piatti che lì, proprio lì dove ora c’è daGorini, Giuliana e Moreno Saragoni proponevano in quella che un tempo era la loro Locanda del Gambero rosso, tempio indiscusso di ospitalità e civiltà.

«Questo è il luogo dove ho scelto di vivere e lavorare, con mia moglie e mio figlio», dice con sicurezza Gianluca Gorini. E, difatti, daGorini, calore umano e senso dell’accoglienza traboccano di stanza in stanza, avvolgendo l’ospite, tanto l’abituale quanto il saltuario, in una bella atmosfera di pace e convivialità. Un sentimento ulteriormente rafforzato dalla cortesia del servizio e da tutte quelle altre accortezze (come una bella carta dei vini, qui peraltro assai personale) che concorrono a rendere ‘grande’ una sosta.

Come interpretare, quindi, quello ‘spazio’ mancante che sembra ‘chiudere’ invece di ‘aprire’? La risposta può arrivare considerando la garbata timidezza di Gianluca, riflesso della sua profonda introspezione: nel suo ‘donarsi con ritrosia’ a chi giunge alla sua porta, proponendo il meglio della propria cucina. Quest’ultima è il precipitato del suo carattere: salda ma gentile, complessa ma comprensibile, sensibile ma razionale, emozionante ma rigorosa, impetuosa ma pacata. All’ospite, se davvero vuole goderne, è pertanto richiesto un piccolo sforzo, un po’ superiore rispetto al semplice, facile attraversamento di uno spazio ‘già’ vuoto. La soglia fra «da» e «Gorini» subito si squarcerà se solo ci si metterà ‘in sintonia’ con lo spirito della casa, cogliendone l’animo, rispettandone la sensibilità e aprendo la mente al piacere dell’esperienza.

daGorini: un grande futuro, ora e domani

daGorini non ci sono provocazioni né rivoluzioni, anzi. Il dettato gastronomico rimane, nella sua base classica e d’alta codificazione, intoccabile. Così, per esempio, l’animella di vitello è croustillant comme il faut e la sfoglia del cappelletto (siamo in Romagna: qui i tortellini non esistono) è tirata come azdora (massaia) comanda. Ma ciò che arriva in tavola è ‘altro’ rispetto a un rassicurante e opulento ris de veau in stile vecchio tre stelle francese o agli abituali cappelletti in brodo di cappone.

La nota ‘difforme’, che è poi la cifra stilistica daGorini risiede nella magistrale orchestrazione polifonica (e, si badi bene, non sinfonica) di molteplici sensazioni gusto-olfattive che virano i piatti su accenti fortemente balsamici, amari, acidi e piccanti. Se, quindi, la cornice rimane ‘consueta’, così come lo sono anche i soggetti principali delle composizioni, a scompaginare la notazione è l’ampio uso di erbe, radici, cortecce, spezie, semi, agrumi e fiori. Aromi e profumi presenti nelle pietanze tanto nella loro singola essenzialità quanto rielaborati, come – per esempio – nei casi dei «sassolini» di bitter che si ritrovano nel gambero rosa marinato in salsa ponzu con salsa del suo carapace, dragoncello e carpaccio di cocomero disidratato o dei vermut bianchi e rossi che fanno capolino, rispettivamente, nei cappelletti ripieni di cacciagione con composta di pesca acerba e fiori di gelsomino e nel semifreddo al raviggiolo con amarene sciroppate e croccante alle noci.

Il risultato è duplice: da un lato cornici e soggetti appagano a livello di centralità del gusto e piacevolezza complessiva. Dall’altro le difformità tengono allerta la bocca sfuggendo facili rotondità. D’altronde è lo stesso cuoco, in apertura della sequenza, a dichiararlo senza infingimenti, servendo una ‘rossissima’ minestra di frutta e verdura (cocomero, susina, lampone, ciliegia, cavolfiore, ravanello, scalogno…) in diverse lavorazioni (a freddo, marinate, fermentate, ecc.) e consistenze, con estratto di susine alla verbena e bottarga: «Questo piatto serve a risvegliare le papille gustative».

Da questa scarica percettiva, che apre lo spazio fra il «da» e «Gorini», il percorso è poi tutto ‘in discesa’: fra rosse e verdi – le pietanze si susseguono da un erbaceo risotto al finocchio con estratto di camomilla e pasta di limone (con la nota della clorofilla in primo piano) a quella animella con sedano croccante, insalatina di rucola e acetosella e fiocchi di canapa sino a un complesso e appagante filetto di trota alla brace ripassato in aglio, olio e peperoncino, con insalata di melone e carota, semi e mandarino piccante, e la sua pelle croccante.

Le reiterate pungenze, variamente declinate che, quasi, non forniscono tregua al palato, appaiono smorzate solo in due casi, quasi due tappe ‘defaticanti’. Dal grasso distendersi delle lumache gratinate al verde (con la loro consistenza ‘cremosa’ ma comunque vivificata da un magistrale pesto di cipresso) con pancetta croccante e foglie verdi e dalla succulenza di un agnello di eccelsa qualità proposto in più servizi (costoletta cotta sui carboni con miso d’orzo, salsa all’aglio dolce e timo; spiedino ripieno delle sue interiora con cumino e paprica; pancia brasata; spiedino di lingua; il tutto accompagnato da «contorni all’italiana»: cipolline sottaceto con polvere d’alloro; millefoglie di patate croccanti e fondenti; funghi galletti saltati).

In chiusura si vira di nuovo sul ‘rosso’: Fucsia, ovvero zuppetta di rabarbaro al gin con crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, come a ricordare che il viaggio si conclude costantemente da dove si è partiti, ma sempre con una maggiore consapevolezza e una maggiore conoscenza.

Consapevolezza e conoscenza che Gorini, trentotto anni appena, dimostra di acquisire ogni giorno di più, e che probabilmente porteranno la sua ricerca verso traguardi ancora maggiori. Dire che direzione imboccherà è, forse, al momento un azzardo, ma lo studio che Gianluca sta compiendo sui tanti prodotti di questo territorio incuneato fra Romagna, Marche e Toscana, un abbozzo di percorso pare già lo stia tracciando. Un sentiero che potrebbe dipanarsi sulla falsariga di quello di altri cuochi – ora nell’empireo della ristorazione – che, dopo aver tanto sperimentato e dopo essersi rapportati con mode e modi anche assai lontani, si sono rivolti alla loro terra e alle loro tradizioni (Massimo Bottura, Norbert Niederkofler, Ciccio Sultano et Mauro Uliassi docent), rielaborando la prima e riempiendo di nuova linfa la seconda, alla luce di una gioiosa contemporaneità.

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Passato, presente e futuro di un’azienda che ha cambiato il corso della Romagna vitivinicola

Respiro. Prendo fiato. Rallento. Voglio godermi tutto il tragitto di avvicinamento a Castelluccio, lo voglio respirare. Non voglio fare troppo in fretta, senza “aspettare l’anima”, come dicevano gli Inca. Sarebbe la maniera perfetta per sprecare tutto. La vite esige il suo tempo, la vite esige il suo tempo, la vite esige il suo tempo… continuo a ripetermelo come un mantra. Ma in realtà, forse, è la nostra vita che esige il suo tempo, dopo l’ultimo anno l’abbiamo realizzato un po’ tutti.

Non so perché sia venuto quassù, quello che so è che dovevo farlo. Troppo forte, nella nostra giovinezza di enomaniaci trascorsa tra i Portici di Bologna e l’Appennino tosco-romagnolo, l’attrazione di questa storia, magnetica, quèl màt di un irregolare, un regista, pénsati, che a un certo punto si mette in testa di fare il vino perfetto. Proprio a Modigliana, tra l’altro, che se esiste un posto sperduto, certo romanticamente, ma sperduto, è proprio quello. Leggenda miracolosamente trasmessa da allora, dagli eroici anni ’70, fino ad oggi, quando si stappano bottiglie di quarant’anni dotate di una vita innaturalmente lunga. Cosa può essere successo nessuno se lo spiega. Che poi è il bello del coltivar la vite, se volete, che con le formule matematiche c’entra davvero poco. Un mistero, dunque. Un mistero enologico. E allora non solo il cronista, ma anche il curioso che ho dentro scalpita, perché quando non riesce a capire qualcosa insiste a torturarsi, cercare, chiedere. Indagare. Per comprendere, certo. Che poi che cos’è questa cosa del fare vino se non ricollegarsi ad abitudini vecchie come l’uomo, in un ciclo di vita/morte che rappresenta l’essenza stessa, caduca, dell’esistere. 

Per noi che lo raccontiamo è il motivo scatenante, il catalizzatore stesso del nostro interesse per le storie. È, solo dopo, quando era troppo tardi, che abbiamo capito di essere rimasti definitivamente avvinti. 

La ricerca di un luogo per fare vino

Comincia quando Gian Vittorio Baldi, lughese di nascita, un carismatico figlio acquisito della Città Eterna, intellettuale cosmopolita che ha solcato i mari di mezzo mondo, nel 1969 si sposa con Marie Madeleine Gagarin, alias Macha Méril, attrice francese – figlia di un principe russo, di mestiere agronomo e viticultore – musa di Buñuel e Dario Argento. Partono per un caleidoscopico viaggio di nozze in Francia, dove Baldi, fatalmente, rimane folgorato dallo Château Lafite-Rothschild. Gli sembra incredibile che il vino possa invadere sul territorio, essere concepito come prodotto artistico, anzi, di più, come opera d’arte. Nei mesi successivi, tra un film e l’altro, inizia a muoversi per l’Italia alla ricerca di qualcosa, non sa bene cosa. È inquieto. Un giorno, mentre si trova sul set a Brisighella, per girare quell’affresco apocalittico che è L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, si imbatte per caso in quella che sarebbe diventata Castelluccio (“cercavo un territorio di grande bellezza, che avesse storicamente una presenza della vite e che fosse né troppo vicino al mare, né troppo lontano”, come ebbe a dire) e si innamora. Decide che il posto sarà quello. Perché nel frattempo ha capito cosa sta cercando così affannosamente, un posto per fare vino. Da qui inizia la leggenda, perché Castelluccio per certi aspetti, come poi sono le storie migliori, è la cronistoria di una serie di fortunate coincidenze. Gian Vittorio ha le idee molto chiare, ma ovviamente, non essendo né agronomo né enologo (professioni che, va detto, ai tempi in Italia sì e no esistevano) ha bisogno di supporto per capire se le sue intuizioni sono praticabili. C’è da dire che a metà degli anni ‘70, al di là della triade Toscana-Piemonte-Friuli, forse del Veneto, l’Italia vitivinicola è ancora un cantiere aperto.

L’intuizione e la nascita della zonazione

Svariate intuizioni di successo, ma per lo più buone intenzioni, letture ancora nell’ottica dell’autoconsumo, con poche eccezioni. Figurarsi la Romagna, in regno del vino da tavola, ma assente da tutte le carte dei ristoranti che contano. Baldi decide che è necessario approfondire: ormai gli è chiaro che le potenzialità del suo territorio sono indiscutibili. Grazie ai consigli dell’indimenticabile Luigi Veronelli, convolto nel progetto fin dall’inizio, si convince che la vocazione si esalti attraverso la zonazione, cui dedica molto del lavoro preparatorio di Castelluccio. A parcelle diverse corrisponderanno cloni diversi, come già succede in Francia, dove la concezione del cru risale, beati loro, al 1800. A Castelluccio i cru diventeranno i Ronchi.  L’idea di puntare alla migliore qualità possibile, senza imporsi limiti intellettuali, è il principio stesso della fondazione di Castelluccio.

Baldi, non a caso, sceglierà i sodali tra i giovani più antidogmatici della sua generazione. Per questo nel 1974, con l’intermediazione di una figura chiave come Gianfranco Bolognesi – poi patron della seminale Frasca di Castrocaro – appena eletto miglior sommelier d’Italia, arriva a Castelluccio un altro personaggio destinato alla leggenda come l’agronomo Remigio Bordini, anche lui lughese, direttore dell’azienda Sperimentale che a Tebano, sede staccata della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, sta lavorando al censimento dei cloni di Sangiovese allo scopo di ‘fabbricare’ la DOC. Con lui studia i terreni alla ricerca delle barbatelle più adatte. C’è da dire che Castelluccio, pur collocato in zone impervie, ha la fortuna di sorgere su quella che è chiamata “Vena del Gesso”, una vasta area di calanchi creati dalla precipitazione dei sali di potassio quando, all’incirca sei milioni di anni or sono, nelle stesse zone c’era il mare, il paleoadriatico. I sottosuoli, soprattutto, sono ricchissimi, alternano marna e calcare, appena coperti da un sottile strato di terreno argilloso. Intorno, solo boschi, le aree in mezzo alle quali Baldi decide di piantare le vigne. 

I cloni (laboratorio) di Castelluccio

Quando con Remigio si selezionano i cloni, si decide di puntare su quelli scartati dalla DOC. Da una parte si progettavano vini per l’autoconsumo, quindi grande produttività e poca opulenza, dall’altra la poesia del vino d’autore, quindi rese basse ma, potenzialmente, enorme qualità. La strada quindi è tracciata. Si faranno impianti fitti e, dato il clima, ventoso e  soggetto a forti escursioni, verranno tenuti volutamente bassi, in modo da trasferire alle viti, per irraggiamento, il calore della giornata. Ma Baldi non si accontenta, perfezionista come è, Castelluccio dovrà diventare un laboratorio, una finestra sul futuro vitivinicolo, tanto che fin dall’inizio (fa impressione pensare che siamo appena alla metà degli anni ’70) decide di dedicarsi ad un’agricoltura sostenibile. Inerbimento, vigneti lavorati a mano, concimazioni esclusivamente organiche. I pochi trattamenti effettuati sono a base di rame, zolfo, cake. Attenzioni che si traducono in rese minimali, che lette oggi fanno rabbrividire: 20/25 quintali per i rossi, a seconda delle annate, addirittura 12 quintali per il bianco. Del resto Gian Vittorio era convinto che la vite, per produrre meglio, dovesse essere strumentalmente stressata.

Nel 2002, in una lettera a Lugi Veronelli scriveva: “Come è nato il Ronco del Re? Prendendo un vitigno acclimatato in una zona calda e tranquilla spaesandolo in una collina fredda e ventosa e facendolo ammalare… O moriva o diventava più forte e con maggiore identità”. Fa impressione pensare a quanto fossero profetiche quelle intuizioni, a quanto fosse si fosse spinto nel futuro quel pensare e discettare di vite. Anche perché poi fin dalle prime vendemmie (la prima è per l’appunto quella del 1975) ci si accorse che la produzione che usciva dalla campagna era incredibile. Svariati operatori che lavorarono a Castelluccio ricordano ancora oggi la materia prima migliore con cui abbiano mai avuto a che fare. Densità, maturazione fenolica, caratteristiche del frutto. Vendemmie tardive, certo, svolte tra ottobre e addirittura metà novembre (ma niente ice wine o botriti!), in condizioni decisamente estreme per esposizioni delle parcelle e pendenze, rendimenti come abbiamo visto minimi, ma qualità assoluta. 

Dalle vinificazioni sartoriali alle prime etichette

In cantina, dove le conoscenze tecniche della metà degli anni ’70, se vogliamo, erano ancora più empiriche, vigevano gli stessi principi della campagna. Nessuna approssimazione, solo grande, enorme rispetto per la materia prima. Si svolgono micro-vinificazioni separate per i singoli Ronchi, fermentazioni in acciaio o in grandi tini di rovere a temperature controllate, con cura maniacale prestata ai rischi ossidativi, grandi nemici dei vini del tempo. Per l’affinamento si usano barrique di rovere, scelte dopo molte riflessioni tra quelli dalla tostatura meno invasiva, prodotti nel Massif Central. Anche questa in controtendenza rispetto alle mode dei vini “caramellosi e vanigliosi” dei tempi. Dalla barrique si passa nuovamente alla bottiglia per un affinamento ulteriore di qualche mese, per garantire stabilità al prodotto finito oltre che una certa longevità. 

Il 1979 per Castelluccio è un anno fondamentale, che segna l’arrivo di un altro attore essenziale nella sua storia come Vittorio Fiore, enologo, che si affianca al giovanissimo Gian Matteo Baldi, secondogenito di Gian Vittorio, cui il padre, visto il precoce talento, ha affidato la cantina fin dalla prima vendemmia. Quando si parla di cantina in questo caso è improprio, perché Castelluccio in quell’anno non ha ancora locali di proprietà destinati alla vinificazione, tanto che utilizzerà gli spazi dell’Istituto di Tebano nel 1979 e quelli dell’azienda agricola dei fratelli Vallunga di Marzeno del 1980.

Escono le prime etichette: il Ronco del Casone e il Ronco della Ginestra nel 1979 e Ronco dei Ciliegi nel 1980, insieme a due altri blend mai più prodotti, ovverosia il Solano Bianco e il Solano Rosso, infine la prima ‘batteria completa’ nel 1981, che è anche la data della prima vendemmia svolta nei nuovi locali, che si devono integralmente agli sforzi di Gian Matteo Baldi. Ronco del Casone, Ronco della Ginestra e Ronco dei Ciliegi, più il primo Ronco del Re, le cui botti, dimenticate accidentalmente nelle cantine di Tebano, contengono una versione di Sauvignon Blanc che farà storia. Una volta completati i primi assaggi si realizza che quelli di Gian Vittorio e dei suoi collaboratori erano visioni profetiche, tanto le etichette sono stupefacenti, ai livelli non delle migliori bottiglie italiane ma addirittura di quelle internazionali. 

La storia di una terra “troppo avanti” per i suoi tempi

Che poi è questa la storia che ci portiamo dietro e dentro. La storia di una terra aspra, per molti aspetti ingrata ma capace di generare frutti incommensurabili. Ecco perché sono qui per cercare di riannodarla, per l’illusione che i fasti del passato siano ripetibili, perché la vite non dimentica, il suo mestiere è soprattutto questo, quello di ricordare. Un mestiere spietato, a volte implacabile, ma a suo modo coerente. 

Se vogliamo l’unico problema di Castelluccio fu di essere troppo avanti per i suoi tempi: la scarsa sostenibilità economica che ne derivò, evenienza che al giorno d’oggi pare inverosimile, fu alla base dell’altalenanza di eventi degli anni successivi. Diciamo intanto che lo storytelling montato da Gian Vittorio, ai tempi, fu di valore assoluto, da vero professionista della “percezione d’immagine” quale si considerava; i vini di Castelluccio finirono sulle tavole dei capi di stato, Francesco Cossiga e Michail Gorbaciov tra gli altri, fungendo da volano comunicativo anche per il mondo vitivinicolo romagnolo, che improvvisamente si vide catapultato sotto i riflettori. Eppure nemmeno la fama consacrata garantì serenità imprenditoriale. Paradossalmente, anche sotto la gestione di un giovane Attilio Pagli, arrivato al posto di Vittorio Fiore nel 1989 – e successivamente trasformatosi in uno dei più importanti enologi italiani – la rinomanza di Castelluccio rimase conclamata, con la release, nel 1990, del Ronco della Simia, vino misterico e dall’estratto mozzafiato che si trasforma in un altro successo. 

Tuttavia, dopo un ventennio in sella, nel 1996 Gian Matteo Baldi se ne va alla ricerca di una sua collocazione professionale lontana da Castelluccio, iniziando una carriera di enologo e poi direttore di cantine di grande successo. Anche Attilio Pagli abbandona nel 1998. Sembra l’inizio della fine. Nel 1999, invece, a sorpresa, 10 anni dopo la sua fuoriuscita, l’azienda diventa di proprietà della famiglia Fiore, di Claudio, il figlio di Vittorio, anche lui enologo, della moglie Veruska e, ovviamente, anche di Vittorio.

E arriviamo ai nostri giorni, al 2020, quando dopo una decade di appannamento e un lavoro preparatorio durato un anno, Aldo e Paolo Rametta, insieme al socio Cristiano Vitali, rilevano Castelluccio. Alla guida agronomica-enologica vogliono proprio Francesco Bordini, figlio di Remigio e sorta di prodigioso guru del Sangiovese e del territorio di Modigliana. Una storia che sta per essere ripresa per mano e, forse, anche accresciuta di altre memorabili pagine. Le prime release della nuova gestione sono alle porte, usciranno a giugno il Lunaria 2020 (un Sauvignon dal Ronco del Vento), il Bianco di Castelluccio (un Modigliana Bianco DOC Trebbiano/Albana/Sauvignon che farà scalpore) e poi, via via, le More 2020 e i primi Ronchi (il primo sarà il Sangiovese di Ronco dei Ciliegi, a novembre 2021), con diverse sorprese ma soprattutto un rispetto religioso della tradizione di Castelluccio.

A questo punto, ovviamente, scalpitanti per la curiosità mi chiederete delle prove di botte, al cui immenso privilegio sono stato ammesso, ma qui purtroppo il cronista deve farsi evasivo, ché la barricaia deve tacere affinché il vino parli. Quello che posso dire è che la conferma è tutta in quella prima intuizione, quella che guidò Gian Vittorio lungo le strade di Modigliana, a sfidare lo scibile per scrivere la storia. E poi che la vite non dimentica. È il suo mestiere, e anche, in parte, il nostro.

Quindi confidate, Castelluccio tornerà a ruggire. 

Fidatevi di me. Ruggirà, ancora e più di prima.

La cucina personalissima di Raffaele Liuzzi

Di Raffaele Liuzzi e della sua cucina si dice da sempre che è in bilico costante tra creatività estrema e fallimento. La sua storia e il suo percorso sono caratterizzati da innumerevoli piatti e creazioni che hanno sicuramente un tratto distintivo: la personalità. Può non piacere, può non trovare estimatori, ma il percorso di questo cuoco pugliese ormai naturalizzato romagnolo è chiaro e limpido. Vuol fare di testa sua. E per far questo si prende spesso rischi azzardati, che generano a tratti fuori giri inaspettati.

Tutto vero sino a questa visita, in un inizio d’estate che ci ha fatto ricredere su molti aspetti. Anche perché, in questo periodo così difficile di ripartenza, la cucina della Locanda Liuzzi è per ora abitata dallo chef e da due giovani apprendisti. Un one man show di fatto che ha imposto al cuoco pugliese di ripercorrere i sui cavalli di battaglia, con l’aggiunta di qualche novità, provando a formulare una nuova versione dei piatti, più pensata e strutturata.

Il risultato? Semplicemente ottimo! Alcuni colpi ben assestati tra cui Come una insalata di mare 2.0 e ostrica poché, rape rosse, tzatziki e crumble di passatelli, decisamente avanguardistici e moderni fanno da contraltare a Tagliolini agli spinaci, al carpaccio di tonno e ai tortelli “giocando e pescando a Cattolica”, solo apparentemente più rassicuranti ma in realtà profondamente spiazzanti. Quest’ultimo è un viaggio, che abbandona la geometria variabile, tratto distintivo dello chef, a favore di una forma a geometria fissa, il raviolo, ma che contiene in sé una serie variabile ed evoluta di sapori, profumi e consistenze. Ogni raviolo è ripieno di un pesce diverso e di un condimento diverso che fa correre la mente e il cuore ad una passeggiata sulla battigia di Cattolica. Senza contare il pavé di branzino, abilmente accostato al carciofo e alla liquirizia, che riprende vigore anche grazie a una materia prima eccelsa.

Esortiamo quindi ad una visita in questo locale davvero di personalità accesa che non vi lascerà affatto indifferenti. Provatelo!

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Le Baleari a Cervia

Quimérico: ispirato al lavoro decennale del Bocasalina di Formentera, si propone di evocare le esperienze gustative vissute sull’isola.

Questa è la presentazione sul sito di Quimérico, nuova iniziativa imprenditoriale sul lungomare di Cervia da parte di Giampaolo ed Elena Turci. Un luogo polifunzionale, aperto dalle 12.00 alle 23.00 (e oltre al termine del coprifuoco) che è un blend tra un locale per colazioni, un cocktail bar per un aperitivo e un ristorante. Tutto quanto con l’anima personale e caratteristica dei locali delle Isole Baleari, con contaminazioni (ci sono le tostadas per colazione) e un timbro spagnolo ben in evidenza.

Noi, in una sera di fine maggio, abbiamo provato il format “ristorante” e abbiamo trovato il locale pieno e affollato di clienti che accorrono qui per un tapas-aperitivo rinforzato o per una cena al lume di candela, anzi di lampada. Le proposte si suddividono tra antipasti, qui chiamate “al centro del tavolo”, costruiti con lo spirito di condivisione e con contaminazioni intriganti. Potrete scegliere del buon Pata Negra abbinato a pan y tomate da affiancare a una fritturina di calamaretti spillo, ostriche e crudi di mare strutturati (nel nostro caso tonnetto bianco con carciofo). Poi i classici primi e secondi, in un tripudio di fritture di paranza, pesce del giorno, l’immancabile arroz e i tagliolini romagnoli.

La carta dei vini, a prezzi tutto sommato onesti, contempla grandi firme che devono esserci in questa tipologia di ristoranti, affiancati a qualche chicca interessante: abbiamo optato per la Ribolla di Podversic, ma potrete pasteggiare benissimo anche con cocktail o cerveza.

Il ristorante di Quimérico

La nostra cena ha avuto qualche alto e qualche basso, Quimérico è, infatti, ancora in fase di rodaggio ma promette bene e, per questo, abbiamo deciso per una valutazione arrotondata per eccesso. Il giovanissimo cuoco Matteo Vezzoli, appena ventiduenne, ha grandi carte da giocarsi e ampi margini di miglioramento: sul tagliolino, in particolare, che è risultato slegato e non mantecato alla perfezione, così come la piadina – che richiamava un tacos – che era troppo poco “piadina” e troppo poco tacos, poiché difettava in croccantezza e soffriva anche di un lieve eccesso di sapidità. La frittura, ottima e ben asciutta, conteneva interessanti spicchi di arancio fritti che donavano freschezza e aromaticità al piatto. Menzione di merito, invece, per la cheese cake Basca, accompagnata da composta di arancia ed erbe amare. Un piatto tra i più interessanti, certamente, le mazzancolle con fragole e piselli, di pariniana memoria.

Un luogo interessante e per cui vale la pena approfondire le altre proposte, variegate, e da tenere d’occhio nel suo sviluppo.

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