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Sicilia en Primeur 2023 & il Frappato I

L’Anteprima ideata da Assovini Sicilia mette in luce il territorio

Sicilia en Primeur è la vetrina che ogni anno presenta alla stampa nazionale e internazionale una panoramica a trecentosessanta gradi sullo stato della viticoltura in quell’angolo di paradiso che è la Sicilia. L’anteprima ideata da Assovini Sicilia, giunta ormai alla diciannovesima edizione, dal 9 al 13 maggio ha infatti riunito oltre 60 aziende vitivinicole e portato in degustazione 800 etichette per presentare alla stampa l’ultima annata immessa sul mercato.

Un evento prezioso, dunque, per farsi un’idea dell’andamento della viticoltura in Sicilia, reso ancora più interessante dalle numerose attività collaterali organizzate per l’occasione, come le masterclass che quest’anno hanno visto la partecipazione, fra gli altri, della Master of Wine Elizabeth Gabay, o ancora i nove enotour che hanno permesso di approfondire la conoscenza dei diversi areali di questa vasta regione.

Il Frappato, vitigno da (ri)scoprire

Proprio uno di questi viaggi sul campo, letteralmente, ci ha permesso di conoscere meglio un vitigno che oggi è forse ancora poco conosciuto, ma ha tutte le carte in regola per diventare un ‘must’ del territorio: il Frappato.

Lontanissimo da quelle marmellatone impenetrabili che per anni hanno dipinto l’immaginario collettivo ogni qual volta si parlava di vino rosso siciliano, scenario che negli ultimi anni ha subito un netto processo d’inversione e si è rinobilitato, grazie anche al fenomeno del Nerello Mascalese e dei vini dell’Etna, il Frappato è un vitigno che dà vita a vini dai tratti sottili, piuttosto scarichi di colore e dal piglio austero, dove l’indiscussa predominanza di un croccante frutto rosso – che tradizionalmente gli è valso il nome di “rrappatu”, ossia ‘fruttato’ in dialetto siciliano – si mescola alle note salmastre e della macchia mediterranea.

Il Ragusano: l’areale storico

Sebbene sia molto coltivato nel Trapanese e compaia nelle DOC di Eloro, Erice e Alcamo, la sua area di elezione è il Ragusano, in particolare l’areale di Vittoria, dove assieme al Nero d’Avola dà vita all’unica DOCG della Sicilia, quella del Cerasuolo di Vittoria. In questo storico areale, spesso sotto mentite spoglie dal momento che non sempre era venduto come Frappato, il vitigno in questione ha fatto la fortuna dei viticoltori del XIX Sec., che hanno iniziato a esportarlo verso una Francia ormai preda della fillossera. Un vero e proprio periodo d’oro che portò all’apertura di oltre 400 cantine, oggi, purtroppo, per lo più in stato di abbandono.

Un territorio che è stato abbandonato anche per via del suo clima particolarmente ostile. Il Ragusano, infatti, è una delle zone più calde della regione, dove d’estate si sfiorano i 50°C e le precipitazioni si attestano attorno ai 200-300 mm annuali. Il sottosuolo è estremamente variegato, si va dal calcare che imprime in questo nettare la massima finezza, fino alla sabbia, l’argilla e le ferrose terre rosse che donano una maggiore prontezza e godibilità di beva.

Le caratteristiche del vitigno

Il Frappato è un vitigno dalle rese piuttosto basse, tanto che in passato venne anche espiantato in favore di varietà più remunerative. A maturazione tardiva, è un vitigno i cui grappoli si presentano piramidali e compatti, dalla buccia piuttosto spessa, tendente al colore blu-violaceo. Sempre più spesso vinificato con il solo uso dell’acciaio, il Frappato si esprime con finezza ed eleganza, rivelando tannini molto delicati, una buona freschezza e una sapidità che in certi casi può divenire netta. Girando per le cantine, appare evidente che a fare la differenza per i produttori sia il sottosuolo, elemento sul quale sempre più si punta l’attenzione.

Nella II Parte dell’articolo vi racconteremo di tutte le degustazioni di Frappato e Cerasuolo di Vittoria che abbiamo fatto e delle aziende che ci hanno più colpito. Fra queste Arianna Occhipinti, Cos, Valle dell’Acate, Caruso & Minini, Gorghi Tondi, Planeta… e altre ancora.

Stay tuned!

Giovani talenti modicani crescono

Di Peppe Barone e dell’importanza del suo ruolo rivestito nella riscoperta e valorizzazione della cucina siciliana ne abbiamo parlato diffusamente nella scorsa recensione. Con l’estate 2021 il grande Chef modicano lascia il testimone di Fattoria delle Torri alle figlie Francesca, in cucina, e Carla in sala. Neppure 50 anni in due, le giovani eredi hanno già lasciato il segno, l’impronta distintiva, portando aria nuova in cucina ma anche una ventata di rinnovata energia nel servizio.

Francesca, laurea a Pollenzo con esperienze importanti alla corte di Massimiliano Alajmo e Davide Scabin  approda per un lungo periodo al Signum di Salina, dove si forgia e imprime consistenza al suo talento già ben delineato. Anche Carla, dopo aver affiancato il padre al ristorante di famiglia, si trasferisce per una esperienza importante al Signum.

Il risultato, oggi? Un ambiente giovane, dinamico e una cucina che poggia le basi sulla storia e la tradizione di un grande ristorante ma ne evolve i contenuti con tanta energia positiva. L’esperienza presso la chef Martina Caruso si vede, si percepisce e si sente in ogni angolo. Francesca ha una mano felice, leggera e ben marcata. Svettano le linguine al burro di erbe e chiocciole, davvero un portento di gusto e persistenza, ma anche sgombro, porro e fichi d’India ha molto da dire. Piatti connotanti, eleganti, con sapori decisi ma mai carichi di grassi o di note ridondanti. Un plauso al comparto dolci, in cui ci ha stupito l’equilibrio, difficile, del gelato di origano e la golosa eleganza del tortino di carrubo. Il servizio, attento e preciso, ci ha confermato le già ottime opinioni sulla cucina.

Peccato solo per lo squilibrio tra il prezzo dei piatti alla carta, comunque serviti in porzione da degustazione e non calibrati adeguatamente nelle dimensioni e nei potenziali accessori, e il costo dei due – economici – menù degustazione, uno orientato sui classici e l’altro, divertente, che mette al centro la condivisione tra i commensali. Avanti così, due giovani e brave ragazze che avranno il ruolo importante di raccontare il futuro del ristorante e della cucina modicana.

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Alla corte di re Iblone

Si rilassi, le mandiamo tutto via email“, sussurra sorridendo, dietro la mascherina, Riccardo Andreoli, direttore di sala del ristorante Duomo di Ragusa Ibla. Si riferisce al menù della serata, il luculliano Basileus Hyblon, riportante l’ordine esatto delle portate, più alcuni fuori menù di quello che, a vederlo adesso, appare l’ingranaggio complicato, e raffinatissimo, di un orologio concepito apposta per far perdere il senso del tempo: un banchetto in cui tutto si tiene, quasi simultaneamente, senza soluzione di continuità.

L’effetto è narcotico”, confesseremo alcune ore dopo a Ciccio Sultano che, invero, ci scruta con complicità. Lui, nomen omen, è uomo istrionico, eccentrico, coerentissimo anche nella fisiognomica, teatrale, scolpita di bassorilievi e chiaroscuro – gli stessi che abitano anche la Grande Madre, signora tanto della primavera quanto degli inferi per l’antico popolo dei Siculi – del menù dove questi stessi contrasti prendono forma tanto coscientemente quanto, anche, scientemente, e che fanno di Sultano l’interprete più ispirato e, di certo, più raffinato del momento in Sicilia.

Non stupirà dunque apprendere che Basileus sta per sovrano, ovvero per il re dei re di quell’isola nell’isola che è, per appunto, la Sicilia Iblea le cui tracce si trovano, oltre che a Ragusa, anche a Melilli, a Paternò, a Piazza Armerina, ad Avola e a Pantalica, solo per dirne alcune. 

Il paradiso terrestre del mondo civilizzato

Cominciamo dunque con le piccole entrée – piccole solo nelle proporzioni – che innescano al palato una deflagrazione dopo l’altra, una carrellata rapinosa, ipnotica, ittica nel cannolino con ricotta vaccina, caviale e gambero rosso di Mazara del Vallo, marittima nel bigné farcito di Ragusano con alici di Testa, agreste nel cracker di bottarga con pelle di pollo croccante e, infine, bucolica nell’oliva nocellara del Belice farcita con marzapane di pistacchio e cosaruciaru croccante.

E poi l’imponente, imperiosa ostrica a beccafico e il tortello ripieno di pesto trapanese, doppia panna, uova di aringa, sgombro e fasolari sono bocconi manieristi e ghiottissimi, miniature pirotecniche nonché presagi di quella che sarà la prima, vera portata, anzi due: la triglia “a pisci d’uovo”, lisca come un biscotto e salsa alla ghiotta rifinita con una generosa grattugiata di scorza di arancia nera carbonizzata a suggellare una stratificazione di aromi agrumati, bizantini e orientali e il rinfrescante, corroborante spaghetto coi ricci di mare, anguria e limone. Piatti discinti eppure concatenantisi, la cui compresenza va a ricordare un servizio alla francese – pasta da una parte, pesce dall’altra – che trasfigura in uno alla mediorientale – dove i piatti sono serviti separatamente, ma tutti nello stesso momento – per diventare insindacabilmente, potentemente siculo nella sua irretente e misteriosa sintesi tra cultura greca, araba e borbonica.

Ed è esattamente su questi riferimenti enciclopedici – ma senza dimenticare l’asse mesopotamica su cui veleggia il dessert dedicato alla “Mezzaluna fertile”, ovvero la nostra civiltà agli albori fatta di grano, sale e olio – che continua il viaggio, la cui acme è rappresentata dalla ventresca di tonno rosso, salsa di manzo, estratto di cipolla caramellata e polvere di sommacco, che della devozione e finanche dell’ossessione di Ciccio Sultano per la materia è il coronamento considerando anche l’annientamento della dicotomia tra mare e terra che un piatto simile sottende e magnifica.

Un piatto che, da solo, indurrebbe anche la più illuminista delle menti a inginocchiarsi e ringraziare gli Dei o, più semplicemente, questa nostra grande Madre Terra per il paradiso terrestre che essa ci offre e di cui la Sicilia rappresenta, o rappresenterebbe, tra i suoi cammei, quello più bello.

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Modica non è solo cioccolato, ma anche un’ottima cucina in un locale incantevole

Precisione tecnica, rigore e gusto. La cucina di Accursio Craparo racchiude in sé tutti questi ingredienti. È evocativa e romantica; i nomi dei piatti, spesso concisi, alle volte più romanzati, fanno presagire che dietro a questo ristorante c’è tanto studio e tanta applicazione.

Se poi aggiungiamo, a questo, un locale davvero caratteristico riportato allo stato attuale con una sapiente e filologica cura rispetto alla tradizione del luogo, il gioco è fatto. Accursio è un luogo maturo, piacevole, e anche molto curato sul versante del servizio: giovane, dinamico ma già di livello molto elevato.

La cucina accompagna i commensali in un viaggio attraverso i sapori e i profumi della Sicilia più profonda, spesso con un tocco di fioretto; caratteristica del cuoco è la lieve marcatura dei gusti e dei sapori, mai troppo spinti, a volte quasi fin troppo evanescenti. I piatti sono esteticamente molto invitanti, sia dal punto di vista cromatico che costruttivo, e fanno da contraltare a sapori non sempre così nitidi.

Avercene di tavole come quella di Accursio, in un luogo incantevole come la città di Modica.

I sapori siciliani esaltati nell’alta cucina

L’arancino si chiude a riccio è un piatto che ci ha estasiato con i sapori e profumi del mare, a richiamare la battigia, e che ci ha colpito per l’intensità, lievemente maggiore rispetto all’interessante variazione di Carciofo. Ottimi, golosi e moderatamente raffinati entrambi i primi, mentre dei secondi, molto intriganti, abbiamo apprezzato in particolar modo la Stigghiola, decisamente di livello superiore rispetto al pur corretto Baco da seta. Molto buona La Brioche, una versione gourmet del celebre dolce, con tocchi di classe – vedi la zucca – in accompagnamento al misto di gelato, mentre è risultato discreto il passaggio sulle castagne.

Vi invitiamo, nella vostra prossima visita di questo meraviglioso tempio del barocco siciliano, a prenotare da Accursio, certamente una delle migliori tavole della zona.

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La storia della cucina siciliana racchiusa tra le mura di Ragusa d’Ibla

La ricerca della perfezione è un viaggio estenuante: è fatica, è esasperazione, è maniacalità. Sono notti insonni pensando a un minuscolo dettaglio, sono bocconi amari da mandare giù, sono acidità di stomaco da sedare a colpi di pane e maalox.
Perché più si alza l’asticella, più tutto diventa complicato: bisogna concentrarsi sulle sfumature, sui miglioramenti minimi e, per questo, meno visibili ai più.
Alla soglia dei 50 anni, Ciccio Sultano ha deciso di cambiare marcia, di non accontentarsi più del “tanto” che aveva. ALL IN. In che modo? Lavorando, appunto, sui dettagli.

Il nuovo Duomo di Ciccio Sultano

Non parliamo solo del grande progetto strutturale in cantiere che vedrà, da febbraio, un raddoppio degli spazi del Duomo e che permetterà una gestione molto più agevole del lavoro sia in cucina che in sala: spazi vitali per chi vive il Duomo da cliente e anche per chi lo vive quotidianamente da componente dell’ingranaggio.
Parliamo anche del presente, del lavoro attuato sul “piatto”.
Rispetto alle precedenti esperienze trascorse al Duomo, il lavoro di crescita sulla pulizia, sulla definizione, sull’eleganza, è visibile sin da una prima occhiata alle foto dei piatti.
Ma, cosa più importante, questa non è una “svolta” solo estetica, di facciata, è tutta la cucina di Sultano ad essersi evoluta, mantenendo quella impronta identitaria che lo rende da tempo uno dei cuochi più importanti italiani, ma aggiungendo una finezza che porta la sua proposta a un livello superiore.
Questa cucina è da sempre un libro aperto sulla storia siciliana: c’è cultura e storia, ogni piatto è un viaggio nelle tradizioni isolane riviste dall’esplosiva creatività di questo grande interprete.
Creatività incontenibile e prolifica: la quasi totalità dei piatti provati in questa occasione sono novità.

Nel nuovo menu, ogni portata si scompone in tre o quattro piatti, un Gagnaire in salsa sicula che cerca e trova complessità intriganti.
Sbalordisce la capacità di unire numerosi ingredienti apparentemente inconciliabili, salvo poi trovare sempre e comunque la quadra gustativa. Come nel caso dello gnocco di patate al ragusano con polpettine di seppia e maiale, sugo di vongole e cozze in salsa alla carbonara: la lunghezza che regala la cozza è stupefacente, così come l’equilibrio trovato in una preparazione in cui si contano almeno sette ingredienti principali. Un piatto che parte da una tipicità (la salsiccia di seppia e maiale della città natale di Sultano, Gela) per evolversi in un viaggio onirico tra la Sicilia, Roma per poi assumere una nuova dimensione.
O come nell’ostrica a beccafico, geniale rivisitazione della classica ricetta, in cui è l’ostrica a farsi contenitore e a sostenere un nuovo gusto meraviglioso.
Così come ci ha stupito il piccione con la salsa al marsala e carote caramellate: un piatto dove viene fuori quella finezza di cui parlavamo prima, con una salsa che urla “Sicilia” ma che allo stesso tempo accarezza il palato con la grazia di un foulard di seta.

Quella di Sultano è una cucina moderna, che trova spunto dalle storiche ricette siciliane, ma solo per evolversi in una nuova verità, in un nuovo gusto che non ha più una collocazione precisa se non il viaggio (mai finito) verso la perfezione.

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