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Cracco

Carlo Cracco e Luca Sacchi: l’indissolubile legame tra passato e presente

Nel 2007, Bob Noto e Alessandra Meldolesi davano alle stampe un meraviglioso libro dal titolo “Autoritratto della cucina italiana d’avanguardia” – introvabile, qualcuno si prenda la briga di dedicargli una ristampa (!) -, un movimento in cui venivano ricomprese le figure di sei cuochi: Lopriore e Crippa – allora indicati come giovani promesse – nonché  Bottura, Cedroni, Scabin e Cracco, già riconosciuti a livello internazionale (affascinante pensare alla diversità dei successivi percorsi). Il cuciniere di Creazzo era stato peraltro il primo italiano a venire invitato a Madrid Fusión – il capostipite dei congressi gastronomici internazionali – nella seconda edizione, quella del 2004 (insieme a talenti rampanti come Blumenthal e Aduriz oltreché mostri sacri quali Marchesi, Senderens e Arzak).

Questa premessa – che non vuole essere una agiografia – è indispensabile per comprendere il Cracco di oggi ed anche per rammentare il ruolo focale che lo stesso ha svolto nella cucina italiana degli ultimi vent’anni, percezione spesso compromessa e falsata dalla memoria a breve termine. L’abbandono della storica sede di via Victor Hugo in favore della galleria Vittorio Emanuele aveva fatto presagire – anche a chi scrive – una transizione verso una cucina meno autoriale, più incline a soddisfare una clientela internazionale, magari autoreferenziale (i piatti iconici a disposizione sarebbero stati sufficienti per poter vivere di rendita). Il pranzo qui descritto ha invece dimostrato il contrario e messo in mostra un cuoco che ha uno stile consolidato (ancora, l’avanguardia che si trasforma in stile) – rinvigorito dall’apporto di un giovane talentuoso come Luca Sacchi, a cui viene lasciato ampio spazio per brillare – e un’offerta gastronomica che si risolve in una celebrazione sobria e sottile dell’italianità, scevra da scorciatoie, una cucina dotta che richiama alla mente le radici marchesiane e le affinità elettive con colleghi che hanno condiviso la stessa scuola (Riccardo Camanini e il Lido 84, su tutti). Sacchi esprime un’italianità declinata a tutto tondo, dalla calda accoglienza – capace di consentire un approccio disinvolto e privo di soggezione ad un luogo di rara bellezza e importanza -, alla densa ricorrenza di ingredienti del territorio (valorizzati in concreto anziché trasformati in appigli per facili narrazioni) e di riferimenti alle nostre radici gastronomiche.

L’abbattimento dei confini del gusto in corsi e ricorsi storici

Il filo conduttore del menù, di Cracco e Sacchi, che abbiamo degustato può essere rintracciato in un originale ed affascinante utilizzo delle note dolci, distribuite su tutto il percorso, una cucina androgina in cui il confine tra le diverse aree del gusto si dissolve. Una voce nuova, il naturale compimento di un percorso in cui i migliori cuochi nostrani avevano posto la loro attenzione sulle acidità, prima, e, più di recente, sui diversi gradienti dell’amaro. In questo senso, è esemplare Mari e montigambero d’acqua dolce (qualità sublime), bisque e fungo cardoncello -, in cui la dolcezza del crostaceo si combina con una trama sapido-agrumata e le note di terra del fungo, per culminare in un sussurro amaro, elegantissimo. In Sogliola al gratin, cavolo nero, ceci e vongole veraci, il pesce – quasi neutro – fa da supporto (anche in termini di morso) alla sapidità iodata delle vongole ed ai sentori, anche qui di terra, del cavolo nero e dei ceci, mentre la nota di dolcezza è conferita dal soffritto (la carota).

Un passaggio di infinita classe è, poi, Coniglio al mascarpone, spinacino e mele, perfettamente descritto da Leila Salimbeni (che l’aveva indicato quale piatto dell’anno) come “manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica”. Ad un tratto ci viene però ricordato che la centralità del gusto nella sua interezza, senza “frazionamenti”, appartiene alla nostra cultura, rievocata dal Timballo – uno scrigno di pasta ripieno di rognone, maccheroncini, prosciutto affumicato, uovo di quaglia, crema pasticcera allo zafferano e cannella -, piatto che simboleggia altresì le innumerevoli influenze che hanno inciso sulla nostra memoria gustativa. La parte finale è coerente con il resto del percorso, come dimostra Gorgonzola dolce, pera e mostarda, un omaggio alle tradizioni lombarde e, nel contempo, un piatto difficilmente collocabile nei rigidi schemi in cui il gusto viene spesso imbrigliato. Una volta terminato il pranzo, viene naturale porre l’attenzione sull’esordio, l’iconica Insalata russa caramellata e ci si rende conto di come sia meravigliosamente coerente l’intero menù, quasi a dimostrarci come l’oggi non sia altro che l’ultima manifestazione di intuizioni risalenti a più di quindici anni fa.

IL PIATTO MIGLIORE: Mari e monti – gambero d’acqua dolce, bisque e fungo cardoncello.

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Dalla colazione alla cena

A Milano, in zona Porta Venezia, in una traversa di Viale Piave, troviamo un simpatico locale polifunzionale: Crosta. Avviato nel 2018, vanta due forni “a vista” all’ingresso e esprime la sua pluralità di sfaccettature offrendo la possibilità di poter acquistare dell’ottimo pane a cura di Giovanni Mineo, gourmandises e dolci, fare colazione, mangiare fino a tardi senza essere, alleluia, assillati dal tempo (sono sempre aperti per pranzo sino alle 18.00), e cenare con delle Pizze alla Pala o Tonde classiche preparate da Simone Lombardi e approntate con varie tipologie di farina a seconda dell’impasto desiderato.

Pane, pizza e cucina

La nostra visita da Crosta si apre per pranzo con un delicato, etereo, “extra large” e vegano Hummus di ceci, pinoli tostati e salsa al peperoncino e limone accostato a delle fragranti fette di pane tiepido home made con un nonnulla di olio “on top” e proseguiamo con due tipi di Pizza alla Pala composte da farina di grano tenero marchigiano tipo “0 e tipo “2” e lievito madre. Sfortunatamente a pranzo non è concesso degustare quella tonda che, in veste serale, viene elaborata aggiungendo alle due farine sopracitate, farina di grano duro antico siciliano integrale, sostituendo il lievito madre con il lievito di birra.

In alternativa qualche proposta gluten-free quale l’Uovo morbido, crema di topinambur, cavolo viola marinato o qualche proposta vegetariana come la Minestra di cavolfiore e curry e l’Insalata di fagiolini e finocchi con crema di patate al prezzemolo e menta. Scegliamo la Pizza Diavola che viene presentata con una base “margherita” con l’aggiunta di ‘nduja della Macelleria Ioppolo e un tocco di origano e la Stracciatella e Crudo che viene allestita con l’interessante prodotto caseario succitato, scioglievole Prosciutto Crudo 18 mesi dell’azienda agricola Zavoli, olio evo. Purtroppo, sebbene l’impasto fosse egregio, alveolato, digeribile e mantenesse la giusta croccantezza sia in superficie che alla alla base, il risultato è stato un filo deludente poiché entrambe risultavano un po’ bruciacchiate e annerite sul fondo.

Per cena la proposta si amplia, con le pizze tonde cucinate “espresse”, arricchite da una grande varietà di prodotti di selezionate aziende agricole. La cura per le selezione delle materie prime e il rispetto della loro stagionalità si evince nelle pizze tradizionali come la Marinara, la Bufala e la Cosacca fino alle “contemporanee” Patate schiacciate, pesto Rossi di Genova e crescenza o nella profumata e fragrante Verdure di stagione. Sulla pizza “signature”: Ventricina, coriandolo, cipollotto, ananas si è già scritto molto. Noi ci limitiamo a ribadire che vale la visita in quanto a prova di scettico (circa l’utilizzo dell’ananas sulla pizza). Concludiamo la sosta con un delizioso Tiramisù, che ben rappresenta le golose proposte di dessert e le definite “torte da credenza” come la Caprese al cioccolato, la Torta Paradiso, il Banana Bread, la Torta al limone e mandorle, la Torta carote e cannella e via preferendo. La carta dei vini, piuttosto scarna, comprende qualche etichetta di vini rifermentati in bottiglia, oltre a qualche proposta di birra e qualche cocktail.

IL PIATTO MIGLIORE: Ventricina, coriandolo, cipollotto, ananas.

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Milano a doppia velocità

Nella nostra ultima visita lo avevamo inserito tra i capisaldi della Milano da “mangiare e bere” e, difatti, all’offerta già celebre per la parte mixology del Dry da sempre si affianca il talentuoso side della pizza, condotto magistralmente da Lorenzo Sirabella. Due lati, come le vite che il locale nella sua integrità sembra avere, con la sua ottima proposta di mixology abbinata alle pizze che, tuttavia, sembra oggi relegare a più piccola appendice. Lo si evince dal fatto che, anche in un momento di non così pieno affollamento, la sala fatica a girare a regime: seppur premurosa, infatti, l’organizzazione non convince sia per efficacia comunicativa che per gestione della comanda. Lo scarto, peraltro, tra la proposta del pranzo e quella della cena accentua ulteriormente la diversificazione dei due ambienti, dove anche l’illuminazione proposta alla sera sembra andare in controtendenza rispetto alle due anime del locale stesso.

Ciononostante, è encomiabile la solidità della proposta di Sirabella in termini di ricerca e tecnica sulla pizza. Il classicismo trova ampia espressione con pizze come la Piennolo rosso o la Quattro pomodori, che sembrano irradiare di sole campano tutto il tavolo con la loro bellezza innata, fatta di prodotti semplici ma solo superficialmente conosciuti come, ad esempio, il pomodoro, qui esplorato nelle sue molteplici varietà. Tra le proposte più tradizionali, menzione speciale anche per il Calzone con provola affumicata, ricotta e Grana Padano, dall’affondo caseario efficace sia per vigore che per piacevole consistenza.

Per i più curiosi, invece, la strada è quella della sperimentazione, che Sirabella approfondisce per esempio nella Cassoeula. Gagliardetto lombardo per antonomasia, qui diventa vibrante tra la dolcezza della verza, l’allineamento col fiordilatte e la sapidità della luganega. Didascalica, forse, la riduzione di vino rosso. Un classico del Dry, ma comunque di rilievo, la Ventricina, friarielli e crema di zucca, ma da provare è anche la Focaccia con pastrami, caciocavallo silano e senape dalla golosa farcia, seppur in difetto rispetto alla proporzione dell’impasto che la accoglie. Quanto al dolce, la carta dei dessert langue nonostante l’eccesso zuccherino che alberga, di fatto, nel poco convincente Castagna, pop corn, caramello e caco.

Auspicando, dunque, che le due strade – pizza e mixology – possano finalmente ricongiungersi, magari anche grazie all’ideazione di un percorso di degustazione a entrambe dedicato, speriamo che Dry possa ritrovare presto lo slancio di un tempo.

IL PIATTO MIGLIORE: Ventricina, friarielli, crema di zucca e provola affumicata.

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La generosità mediterranea di Pantaleo Mauro Daddato

Si respirano energie positive già entrando in questo locale, accolti dal sorriso del personale e dalla simpatica e misurata vivacità del patron di Altriménti, Damien Janczara, per anni “braccio destro” dello Chef italo-olandese Eugenio Boer. Nella sala principale, sita al piano rialzato di una palazzina d’epoca nella Milano del quartiere City Life che, nei primissimi anni ’80, ospitava il ristorante Furio, dell’ex attaccante del Milan Hector Puricelli, spiccano trendy arredi anni ’70 e tanto rosso sulle pareti abbellite con ben 76 stampe di celebri illustratori. Dalla cucina giunge direttamente nel piatto l’accuratezza e la generosità mediterranea dello Chef Pantaleo Mauro Daddato, originario di Bisceglie. Tre i menù articolati in tre portate ciascuno (antipasto, primo e secondo): “Vegetale“, di “Carne” e di “Pesce” con la possibilità di mixare le varie proposte a seconda delle preferenze.

Si debutta con una strepitosa torretta, “accomodata” in orizzontale, di Baccalà mantecato e crostigliante pane carasau – ottimo gioco di saporite consistenze – accostato a cavolo viola. A seguire una Tartare di carne (Macelleria Martini) con gocce di crema di arachidi e insalatina di Sedano di Verona, mela verde e arachidi. Si prosegue con due primi piatti: Gnocchi di patate di montagna e castagne con ragoût di cinghiale e fonduta di pecorino, in perfetto clima autunnale, e Risotto alla zucca con gorgonzola ben saporito e in equilibrio grazie all’impiego del prodotto caseario che mitiga con le note sapide del Blu la dolcezza del vegetale. Tra i secondi si staglia una golosa Coda di vitello con il suo fondo servita su ricca purée di patate, mentre si svela la sapida mitezza delle carni della Pecora sambucana servita in tre consistenze.

Concludiamo il pasto con un opportuno e rinfrescante Sorbetto al sedano, limone e olio EVO di Foligno irrorato al momento del servizio. Carta dei vini ampia e intrigante nelle proposte “naturali”. Previa prenotazione esiste la possibilità di godere di un esclusivo privé di circa 20 coperti o della Cave, in un cui sono allestiti in tutto sei posti a sedere. Un plus durante la bella stagione è quello di desinare nel piccolo dehors approntato in cortile.

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Il talento, la passione e la visione coraggiosa

Il Borgia (cognome del giovane Patron, Edoardo) si annuncia già dall’ingresso tutto una sorpresa. Si accede attraverso un classico Cocktail Bar alla Sala Ristorante principale illuminata da morbide luci (un plus) con un unico lungo divano che, nella sua struttura serpeggiante, crea intime anse con tavoli tondi ove desinare rimirando il delizioso giardino Zen allestito in cortile. Dalla cucina si effonde il talento, la passione e la visione coraggiosa del giovane Chef Giacomo Lovato che opera con l’ausilio di un altrettanto giovane squadra.

Possibilità di scegliere tra tre menù: “Psyche” (previa una breve intervista da parte del Sommelier Tiziano Sotgia circa le nostre preferenze gustative attuali) e “À rébours”, uno prettamente vegetale e uno à la carte.
Abbiamo optato per “Psyche”, declinato in 10 proposte.

“Psiche”

Indovinato effetto trompe-l’œil evocativo, infatti, più di una tartelletta che di un antipasto, della Crema di zucca al barbecue vestita di un carpaccio di petali del vegetale marinato alla senape, semi di zucca e gocce di limone, che sorprende anche da un punto di vista gustativo con la sua misurata lievità. Stupisce un ben sodo Fungo cardoncello piastrato, la cui consistenza e il metodo di cottura rievoca alle nari e al palato un filetto di carne su un fondo robusto di porro, aglio nero, prezzemolo e cime di rapa. Un opportuno tocco pulente ed esotico guizza nel Sashimi di ricciola, ceviche di crescione d’acqua, sesamo, ravanelli cotti nell’aceto di lampone e nasturzio.
Gradevole il Branzino con cavolo viola sott’aceto, cagliata di mandorla e caviale, cotto dolcemente e leggermente affumicato. Sdilinquisce le fauci la Scaloppa di lingua di manzo al barbecue, fondo di vitello con bottoncini di bagnetto rosso di peperone, salsa verde e cipollotto arrosto dalla tenera texture.

Inizia il percorso dei primi piatti con un finemente iodato Tagliolino di pasta fresca (40 tuorli), brodo di trota affumicata e uova di trota avvolgenti e croccanti. Seguono gli Agnolotti del Plin con farcia di ceci al sugo d’arrosto sempre di estrazione vegetale: un esercizio stilistico privo, tuttavia, di grande slancio. Scoppiettanti, aromatici e “al chiodo” i chicchi di Quasi un riso in cagnone, ovvero un risotto con brunoise di sedano rapa, pino mugo, rosmarino e fondo ristretto di fungo. Irrompe sulla scena il sapore dolce-amaro ben domato del Carciofo al rosmarino, Lapsang e dragoncello. Tutto umami spinto il Baccalà al vapore, limone e fondo di manzo al Madeira. Didattico il Piccione in tre declinazioni, di cui la più riuscita è quella con profumate more, ginepro e ibisco. Come pre-dessert, Cheesecake affumicata e fiori di sambuco al miele mentre termina il pasto il goloso gioco di consistenze del Mascarpone, crumble alle mandorle, pinoli, cialde di topinambur e gelato ai funghi porcini.

Carta dei vini interessante per la proposta di alcune raffinatezze ma prezzi decisamente elevati.

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