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Uliassi

L’insostenibile attesa di una certezza

Ci risiamo. Come ogni anno, la parola “Lab”, nell’immaginario collettivo del gastro-fanatico (quantomeno) italico, è associato solo e soltanto a una città e a un cognome: Senigallia e Uliassi. Ogni anno, infatti, l’attesa è sempre alle stelle per il nuovo lavoro sfornato dal collettivo – perché di questo si tratta – Uliassi. Come i migliori gruppi di lavoro, affiatati e ambiziosi, anche dalla fucina della Banchina di Levante, l’asticella si innalza sempre di qualche centimetro con l’intento di proporre un lavoro migliore dell’anno precedente. E ogni anno si verifica la solita storia: il nuovo Lab è migliore di quello dell’anno precedente. Quella insostenibile attesa dell’appassionato, pertanto, viene ampiamente ripagata. Invero, non è importante definire se, a livello oggettivo – che è ciò che più conta – i nuovi piatti siano migliori dei precedenti, quanto avere la certezza che l’obiettivo di questa tavola sia sempre quello di tentare perennemente di superarsi; intento che possiamo racchiudere in due semplici parole: costanza e perseveranza. Due caratteristiche, queste, che riscontriamo, puntualmente, ogni anno seduti in questo amabile e raffinato stabilimento balneare sulla spiaggia adriatica.

La degustazione, l’accoglienza, eccetera

Il Lab ’23 si presenta con persistenze aromatiche e una piacevolezza complessiva raggiunta senza scendere a compromessi di confortevole rotondità. Freschezza finale presente in ogni portata. Perfino l’amaro gioca un ruolo chiave. Il tutto a dimostrazione che Uliassi, che continua a mettersi in gioco come una giovane rockstar della cucina italiana con sessantacinque primavere alle spalle, è riuscito anche a scrollarsi di dosso l’aura di “people pleaser” grazie all’ennesima intelligente idea di imbastire un percorso degustativo sempre più sofisticato, sebbene meno prolifico del precedente – tre piatti sono stati ripresi dal Lab ’22 perchè sono un perfetto filo conduttore tra la prima e la seconda parte del nuovo menù e rendono lo stesso, di fatto, migliore del precedente – rivolto a tutti ma che possa essere meglio letto ed apprezzato da chi sia in grado di avere i mezzi e l’esperienza per cogliere tutte le sfaccettature, rimanendo, pertanto, nella sua essenza, ecumenico. Certo, i mezzi per fare tutto ciò ci devono essere e qui dietro alla capacità di elaborare e compartire le differenti sfumature di gusto c’è un grande palato.

Quindi creazioni complesse come il folgorante prologo di Ricci ghiacciati e semi di fichi racconta l’evoluzione/progressione di questa tavola che va alla ricerca delle consistenze e delle temperature ottimali per allungare il sentore salmastro del frutto di mare la cui sapidità è, più che contenuta, esaltata dall’aromaticità della menta e dalla dolcezza del fico dalle sembianze tanto simili all’echino; la successiva Seppia scottata, olio di guanciale, bietola, miele e colatura di alici è una summa di questa cucina, dove il vegetale assume sembianze carnivore e diventa finanche più interessante del mollusco: in una parola, un capolavoro, come la strepitosa combinazione di cardoncelli, luppolo, more, mirtilli e pinoli a ricreare la “Macchia adriatica” tra sentori boschivi amaricanti con il luppolo che è la chiave di volta e invoglia al boccone successivo. Poi, appunto, arrivano i tre piatti superstiti dello scorso anno, l’Insalata di ostrica, pesto di rucola, limone, borragine, le Lumache, peperone friggitello, origano ed erbe soffiate e la meravigliosa Anguilla affumicata, albicocca, rafano e alloro, perfetto anello di congiunzione tra mare e terra. Anche i Fusilloni “bruciati” e sugo di arrabbiata (rivisitazione della pasta all’assassina barese) è una ripresa filologica di quella Pasta al pomodoro a la Hilde finita ormai tra i classici del locale e dei Lab, qui evoluta nella consistenza della pasta, cotta alla perfezione e con una componente croccante, a simulare la bruciatura della ricetta pugliese, e nel gioco di ricreare il sugo di pomodoro utilizzando il peperone, un olio all’aglio, la ‘nduja e qualche altra spezia esotica. La chiusura salata è audace, con un Agnello – con grassezza accentuata – in equilibrio tra il dirompente sentore di carbonella e l’aromaticità della vaniglia; ma a prevalere nell’ensemble è la goduriosa piacevolezza del contorno che funge da “puliscipalato” del trittico ciliegia – nocciola – cipolla. Come spesso accade a questa tavola, mare e terra si presentano nei piatti in un connubio paradigmatico di libidinosa complessità. Chiude il percorso creativo di quest’anno una iper-tecnica e alleggerita interpretazione della Saint Honoré che viene “ri-arrangiata” su note più acide (lampone e arancia) dal giovane Mattia Casabianca.

Sull’accoglienza di Catia, il calore del giovane e dinamico servizio di sala  al femminile, capitanato da Filippo Uliassi e dalla storica e genuina presenza del sommelier Ivano Coppari si è già detto e scritto tanto, almeno quanto si è scritto degli elogi della cucina. E non possiamo far altro che riconfermare che la piacevolezza complessiva che si vive seduti a questa tavola è anche, per metà, merito di tutti coloro che stanno fuori dalla cucina. 

IL PIATTO MIGLIORE: ex aequo Macchia Adriatica (cardoncelli, luppolo, more, mirtilli e pinoli) e Seppie scottate, olio di guanciale, bietola, miele e colatura di alici.

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Il “miracolo” Uliassi

Una volta seduti ad uno dei tavoli del ristorante Uliassi si ha la netta sensazione che da quel 1990, anno in cui Mauro e Catia Uliassi aprirono il loro locale in riva al mare, poco sia cambiato. I due fratelli – ai quali si è aggiunto Filippo, diventato oramai uno straordinario interprete di sala – continuano a inseguire il sorriso degli ospiti, nel desiderio di far vivere loro un’esperienza in cui l’interazione umana conservi un significativo rilievo (qui non v’è rischio di incorrere in derive spersonalizzanti).

Le finezze che il rango del luogo richiede non degradano mai in formalismo, non comunicano distanza o, peggio, soggezione, ma, al contrario, calorosa cura e autentica ospitalità, tant’è che, se ci si guarda intorno, capiterà di vedere due ventenni in trepidazione per il nuovo Lab, una famiglia con nonna al seguito, una giovane ragazza che festeggia il compleanno con le amiche, così come l’appassionato in pellegrinaggio. D’altro canto, non è forse questa – a qualsiasi livello – la vera essenza, se non l’autentica funzione, di un ristorante?

Occorre sottolineare che ciò è possibile anche grazie alla coerenza dell’offerta gastronomica, composta, da un lato, da una folta carta e un menù degustazione “Classico” – piatti che oramai appartengono alla storia, destinati ad appagare i visitatori più “spensierati”, la stragrande maggioranza – e, dall’altro lato, dai menù “Lab” – l’avanguardia della cucina uliassiana – e  “Caccia”, ambito in cui il Cuoco di Senigallia è un maestro indiscusso (entrambi disponibili su prenotazione). Questa presa di posizione a favore della “libertà di scelta” richiede un evidente sforzo aggiuntivo, tanto alla cucina quanto alla sala, ma consente di mettere a proprio agio qualsiasi avventore nonché di evitare soluzioni di compromesso: il matrimonio tra inclusione e avanguardia non è quindi solo possibile, ma vincente. 

Il Lab: tra sollecitazioni sensoriali e presenze rassicuranti

Il Lab conferma di essere il menù con cui la gang di Uliassi mira a sollecitare – seppure con chirurgica precisione – i sensi dell’ospite, in un percorso che, sempre più, è caratterizzato da una grande armonia interna, sicché ogni passaggio beneficia della vicinanza di quelli che lo precedono e seguono, in una sorta di risonanza.  Per altro verso, anche i menù che si succedono di anno in anno sono tra loro in comunicazione.

In primo luogo, alcuni piatti sopravvivono all’annata, tant’è che il menù attuale ha ereditato da quello passato Gambero rosso, buccia di arancia, zenzero, cervella di gambero e cannella e Pasta e pomodoro alla Hilde in infuso di foglie di fico, quest’ultimo capace ancor più, rispetto all’esordio dello scorso anno, di veicolare le note olfattive – cifra stilistica tipicamente uliassiana – del raspo di pomodoro, sempre grazie all’infusione di foglie di fico nel burro. 

In secondo luogo, la cucina di Mauro Uliassi è caratterizzata dalla presenza di ingredienti ricorrenti – la seppia, il colombaccio, il riccio di mare, la lumaca – i quali rappresentano il profondo legame tra il cuoco e la propria memoria identitaria e fungono, nel contempo, per chi frequenta con regolarità la sua cucina, da presenze rassicuranti, icone di uno stile, come quelle “frasi” che rendono immediatamente riconoscibili i grandi chitarristi. 

Il Lab 2022: un utilizzo “silenzioso” del vegetale

Tuttavia, sarebbe superficiale e profondamente errato pensare che queste presenze ricorrenti siano sinonimo di stanca ripetizione o autoreferenzialità, poiché ciascun Lab è un viaggio completamente inedito in cui a fare la differenza sono gli ingredienti – apparentemente – comprimari che, a ben vedere, sono vegetali. 

Un esempio lampante in tal senso è rappresentato da Seppie crude, pomodoro verde, polline, olive nere essiccate, un giro in ottovolante tra acidità, note amarotiche, sapidità e dolcezza, in cui ogni boccone è un storia a sé: straordinarie la lunghezza e la nitidezza con cui i sapori si susseguono al palato. Nella stessa direzione, Lumache, peperone friggitello, origano, erbe soffiate, in cui al palleggio tra la callosità della lumaca e la croccantezza delle erbe soffiate si affiancano una leggera piccantezza, dolcezza, amaro e le note aromatiche dell’origano. Un autentico capolavoro è, poi, Anguilla affumicata, albicocca, alloro, rafano, un altro passaggio di grande intensità olfattiva – l’affumicatura del grasso presente nell’anguilla ricorda il profumo di bacon –, in cui si intersecano la dolcezza e leggera acidità dell’albicocca, la pungente piccantezza e aromaticità del rafano nonché l’amarotico e la naturale sapidità dell’alloro.  

Ebbene sì, Mauro Uliassi, cuoco del mare e della selva, dimostra di essere altresì un maestro nell’utilizzo del vegetale che, tuttavia nella cucina del cuoco di Senigallia, non si risolve mai in fine ultimo – e, quindi limite – né in ostentazione, bensì in uno strumento indispensabile per indagare i confini del gusto, spingendosi ogni anno sempre un po’ più in là. 

L’eleganza della pasta al tonno

Quest’anno è altresì comparso un nuovo capitolo del lavoro sulle paste “classiche” italiane (dopo la pasta al burro del Lab 2020 e quella al pomodoro del 2021), rappresentato da Pasta al tonno. La tradizionale difficoltà nel trovare una amalgama tra spaghetto e tonno in scatola viene superata grazie ad alcuni intelligenti espedienti tecnici: la pasta viene mantecata in padella con un brodo di tonno e katsuobushi sui cui viene grattugiato, a mo’ di Parmigiano, un cubetto ghiacciato fatto del sugo classico (tonno, aglio, olio, peperoncino, capperi e prezzemolo), oltre all’aggiunta di uvetta sultanina, olive verdi, cucunci e capperi (questi ultimi tre essiccati). 

L’ultimo passaggio è Colombaccio scottato, tabacco, cardamomo nero e pompelmo asciugato, un omaggio alle note torbate, controbilanciate dall’acidità del pompelmo che – grazie all’essicazione – contribuisce altresì in termini di consistenza. La parte dolce del percorso – notevole il pre-dessert Sorbetto di mucillagine di cabossa, mango e meringhe – è da tre anni affidata al giovane e talentuoso Mattia Casabianca, dal quale è lecito attendersi future sorprese e una pasticceria sempre più ardita (tra i numerosi maestri figura un certo Jordi Roca), ancora più in linea con l’avanguardia del Lab.

Citiamo il pastry chef ma lo sviluppo incredibile avuto dal ristorante Uliassi negli ultimi anni è in realtà merito di tutto il team creativo, esteso ed articolato, composto da Mauro Paolini, Luciano Seritelli, Yuri Ragini, Mattia Colacicco, Peppe Merlino, Andrea Merloni e Michele Rocchi, ovviamente coordinati e governati dal palato e dal pensiero del Grande Mauro Uliassi.

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Inkiostro: nel regno di Terry Giacomello

Il ristorante Inkiostro si trova poco dopo l’uscita del casello di Parma. Ed è proprio il caso di chiamarlo “regno” dato che sin dalla sala, dove l’arte moderna e contemporanea la fa da padrona, si respira quanto poi sarà evidente, poco dopo, sulla tavola. In questo viaggio tra ingredienti infinitamente lontani e infinitamente vicini, quasi tradizionali, lo chef si svela all’avventore nella pulsione che più lo contraddistingue: l’elemento ludico, innescato attraverso effetti speciali concepiti più per fare chiarezza, e pulizia nelle sensazioni esperite, che per confondere l’avventore.

Il menù “Vibrazioni”, ancora in fase di rodaggio al momento della nostra visita, è difatti già leggermente cambiato in alcune sfumature e proprio questo, forse, è uno degli elementi più importanti della cucina di Terry Giacomello, che è performance pura: evoluzione, manifestazione sempre diversa di una cucina mobile e prolifica, vessillo di uno stile personalissimo e del tutto ineguagliato nel panorama gastronomico italiano.

L’arte in cucina

Gli appetizers sono divisi tra caldi e freddi e, sin dall’inizio, non si ha paura di sperimentare con l’amaro, nella fattispecie della carota bruciata, la cui sensazione ricorda la liquirizia, né con sensazioni più avvolgenti, si direbbe quasi conturbanti nela treccia di Parmigiano Reggiano servita nel suo siero caldo. Il menù inizia e s’imprime nella memoria con Parma 2020, l’omaggio dello chef alla via Emilia, che lo ospita, e a Parma, Capitale italiana della Cultura 2020 con un sablé di parmigiano 24 mesi contenente all’interno una mousse all’aceto balsamico di Modena invecchiato 25 anni e, nel “porta uovo”, una maionese di noci. Un piatto encomiastico, come del resto è solito fare ogni artista degno di questo nome.

E che le velleità di Giacomello siano esattamente queste è dimostrato dall’omaggio a Cattelan e, in particolare, all’opera “Comedian”, che s’ispira esplicitamente all’idea che tutto possa essere arte a seconda di dove sia collocato. Così lo chef combina qui ingredienti “non consoni” come la buccia di banana, estratta e frullata e la polpa, in aceto e gel, fissati dallo “scotch” della cialda di torrone.

Una mìmesis che inganna

Con pasta “scotta” – riproduzione di un fusillo scotto realizzata col tendine del vitello stracotto, servito con emulsione olio extravergine d’oliva, peperoncino e dischi di aglio laba (aglio asiatico macerato una decina di giorni in aceto e olio, dal caratteristico colore ceruleo) – si entra nel vivo della performance mimetica, volta sì a ingannare il palato quanto, anche, a stimolare l’intelligenza dell’avventore, irretito da cotanto esercizio di tecnica.

Sulla stessa linea i falsi ceci di pasta di sesamo bianco e burro di cacao, un piatto rifinito col brodo di ceci che, nel complesso, ricorda note di gommasio e burro di arachidi, così come Mangiare Ossa, dove l’osso più piccolo è una liofilizzazione di brodo di ossa di pollo mentre, a destra, si trova un cuore di palma CBT, che richiama l’osso buco e che, non a caso, è rifinito con una salsa di osso buco: un bellissimo gioco da alchimista che, come tale, ha richiesto molti tentativi da parte dello chef prima di raggiungere la giusta consistenza. Blave – termine friulano che vuol dire “pannocchia” – omaggio il paese natale dello chef, riproduce una piccola pannocchia grazie a una purea di mais accompagnata da crema di Huitlacoche (anche detto “tartufo di mais”: si tratta di un fungo che intacca la pannocchia, ossidandola). 

Infine, un piatto che ci ha particolarmente colpito per l’accondiscendenza che dimostra nei confronti delle papille gustative, finalmente lusingate se non, addirittura, coccolate: Ackee & Ricci, ovvero il frutto giamaicano e ricci di mare, conditi con una bisque e impreziositi dalle gocce alla radice di priprioca (pianta tipica dell’Amazzonia, legnosa e leggermente aromatica).

La sala sopperisce alla mancanza dei sorrisi, dovuta alle mascherine, con il luccichio e l’entusiasmo che si coglie dagli sguardi e dal trasporto con il quale la narrazione “giacomettiana” viene illustrata. Un percorso leggero, seppur di tante portate, concepite come delle montagne russe che divertono l’avventore in uno scambio continuo; in contumacia prima, con forte e ingombrante impronta nei piatti, e in presenza poi, con lo chef sempre curioso del riscontro dei suoi ospiti. È proprio questo arricchimento il valore aggiunto dell’esperienza da Giacomello, tappa immancabile per chi vuole immergersi nei meandri della vera cucina d’avanguardia italiana.

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Chi vuol esser Terry Giacomello 

La più eccezionale, genuina e profonda assenza di piaggeria caratterizza, da tutte le angolazioni la si guardi, la cucina dell’allievo di Ferran Adrià Terry Giacomello. Lui che, mai come in questo momento storico, sembra star interpretando Terry Giacomello in “Terry Giacomello”, un film di Terry Giacomello sulla vita di Terry Giacomello… un quadro espressivo di grande coerenza, quello in cui opera e in cui si esprime, di cui solo il set costituisce, a un occhio attento, l’elemento difforme.

Un’individualità espressiva tale, la sua, da farlo diventare meta di pellegrinaggio dei più importanti chef della nazione attirati forse da una cucina che, unanimemente, s’è guadagnata il titolo di avanguardia e come l’avanguardia è libera dall’imperativo di piacere e, men che meno, dal tacito assunto che vorrebbe la cucina dover essere sempre buona o, comunque, almeno appetitosa, se non al palato di certo alla vista. Nossignori, lui se ne infischia e, quando non si fa applaudire, riesce a far sospendere il giudizio nei suoi confronti portando l’ospite a pensare che solo un ottuso potrebbe criticarlo perché una persona assennata e, soprattutto, una persona sensibile non apprezzando uno dei suoi piatti concluderebbe semmai di doverci riflettere sopra… 

Il nuovo menu 19 Vibrazioni colpisce per la quasi totale assenza di colore, spesso utilizzato, da altri, in maniera iperbolica, strumentale o, peggio, ruffiana. La sua tavolozza è quasi sempre neutra come se lui, del colore, non ne avesse alcun bisogno. E ciò è propedeutico a un’altra grande assenza, forse la più grande, l’assenza più presente di tutte: quella delle stagioni, ovvero del tempo, e del territorio, ovvero lo spazio. È una cucina che toglie tutti i riferimenti e che, nella successione di 21 portate – abitate peraltro da ingredienti e combinazioni più che fantastiche, fantascientifiche – pur articolando un livello di complessità altissimo è percepita dall’organismo come leggerissima. Ci si alza dal tavolo affatto appesantiti e né confusi, ma vivaci, tanto nel corpo quanto nello spirito.

Una sintassi senza gerarchia

Ciò detto, lo chef dimostra di sottostare almeno a una regola: benché nella pressoché totale assenza di piatti canonicamente inquadrabili nella categoria di antipasto, primo e secondo (quelli che vedete in galleria – risotto e torta di mele, per dirne due – non erano parte del menu degustazione ma sono stati aggiunti dalla carta), c’è una gerarchia, una sintassi tra le portate che, appunto, ne disegna la cornice interpretativa tratteggiando il significato dell’esperienza con un’efficacia infallibile. 

L’incipit è sulle corde del croccantisismo con l’esofago e le zampette di gallina; del soffice e del deflagrante – in una nuvola di voluttà, per essere precisi – col krapfen di patata soffiata, la sua spuma affumicata e il cotone di faraona. Interlocutorio il Kombu-Parma che, secondo noi, pure troppo concede alle tentazioni del rancido, soprattutto se associato a un supporto gelatinoso come quello del grasso culatello, mentre ritorna sulla traccia dell’irresistibile col Canapè di coniglio, cervelletto fritto e paté di fegatini. Intermezzo vegetale con l’Insalata Folle, un crescendo di amaro, acquoso, balsamico e tonico giustapposti cui seguono degli eccellenti – ed eruditissimi – Ravioli di bottarga, miele di olmo, crema di topinambur, olio di levistico e lulo. 

Medesime tentazioni del Kombu-Parma in altre due portate ma molto più definite e più fragranti: la Patata millenaria, una patata cotta a 70°C per 12 ore che occhieggia all’idea stessa della putrefazione, esasperata nell’eccezionale Limone dimenticato, ammuffito con l’ausilio del penicillium roqueforti e farcito di una meringa all’italiana con infusione di scorza di limone bruciato. Esilarante, infine, il Terryedibile, un momento di sincera ironia, e auto-ironia, come ci si aspetta dalla migliore avanguardia artistica. 

A un passo dalla cima

Per il livello di consapevolezza, la tecnica e la ricerca condotta sulla materia, Terry Giacomello si colloca  a un passo dal lambire la cima di una vetta che lui stesso ha creato. Come spesso accade in questi casi, però, il sabotaggio è dietro l’angolo, ed è quasi sempre autoinflitto: con la speranza che questo gigante della cucina italiana contemporanea trovi presto una sua pacificazione, interiore oltre che abitativa, il consiglio al lettore è quello di precipitarsi da Inkiostro e accogliere con fiducia l’eversività della sua inimitabile cucina.  

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Questa recensione aggiorna la precedente  valutazione che trovate qui

La mancanza di immediatezza non può essere considerata un difetto per uno chef, semmai è una caratteristica, un sigillo. Potrebbe essere un difetto per un ristoratore ma non per un artista o artigiano che dir si voglia.
Se la complessità e la difficoltà di “farsi leggere” sono diventati un difetto, allora abbiamo un problema. La voglia di uniformare tutto sta facendo molti danni.
Il mondo moderno è certamente più orientato alla sensazione istantanea, alla prima impressione. E’ sempre più difficile attendere, scoprire, non vivere di pregiudizi.
La cucina di Paolo Lopriore richiede di fare preventivamente tabula rasa e richiede pazienza, attesa, fiducia. Attributi difficilissimi per l’utente medio che siede al ristorante, che semmai ha desiderio di conferme, di sicurezze, di svago.
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