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La capra

di Giancarlo Saran

Una dietrologia

Chissà se, conoscendone meglio la storia e le mille curiosità (e virtù) che la circondano, Vittorio Sgarbi avrebbe ancora l’ardire di usare, come grido di battaglia contro l’umanità di incerto talento, l’epiteto “Capra!”.

Capra che ha accompagnato la storia dell’uomo sin dai primordi. Fedele compagna di transumanza prima che questi diventasse sapiens e stanziale, grazie alla sua elevata capacità di adattarsi, anche nelle situazioni più difficili, andando a brucare erbe e germogli in zone spesso inaccessibili ai più. Prime tracce della sua domesticazione si hanno verso l’8000 a.C nei pressi della città di Zagos, a scavalco tra gli attuali Iraq e Iran. L’arrivo in Europa tre millenni a seguire, con una successiva diffusione nei vari continenti. Nella mitologia greca si dice che Zeus venne allattato da Amaltea, una capretta cui poi venne dedicata una stella: dalle sue corna prese corpo il mito della cornucopia, o corno dell’abbondanza, tanto che leggenda recita come sognare capre sia indice di futura ricchezza. Ben nota nella civiltà romana, già Columella aveva osservato la sua capacità di ambientarsi bene nei pascoli di montagna inaccessibili ai più placidi ovini.

Per alcuni il suo nome deriva da “carpere”, ovvero brucare l’erba. Una leggenda africana racconta come, nel 300 d.C., il caffè venne scoperto casualmente da un pastore di capre che si insospettì vedendo come alcuni capi, dopo aver fatto scorpacciata di bacche rosse e verdi di alcuni arbusti, divennero più eccitate e vivaci del solito. Nei secoli bui del Medioevo furono demonizzate, forse per la loro dotazione di corna e zoccoli, ma anche per il fatto che, in determinati contesti, erano perigliose per il buon equilibrio forestale tanto che, nel 1762, un editto serenissimo proibiva in certi contesti di tenere capre, pena il loro abbattimento. Eppure, nella civiltà rurale di montagna, erano considerate una sorta di vacca dei poveri, con pregi tutti da scoprire.

Il latte

Innanzitutto, in rapporto al latte prodotto, la loro alimentazione era meno dispendiosa delle cugine muggenti. Si diceva che la capra era una “falce che andava a mietere da sola” e di lei non si buttava via niente. Una specie di maiale con le corna. La sua risorsa principale il latte, e quindi i formaggi, oltre che la carne, ma pure la lana (di cui i prodotti più ricercati sono il cashmere o l’angora) e anche la pelle, utile ad esempio per confezionare zampogne o tamburelli, oltre che per qualche capo di vestiario di frontiera. A partire dagli anni Settanta vi è stato un ritorno di attenzione sul suo allevamento. Se ben governata è un ottimo guardiano dell’equilibrio di aree altrimenti destinate all’abbandono. Integra bene le altre forme di allevamento, ovino e bovino. La sua presenza è soprattutto legata alle alpi occidentali e alla fascia appenninica meridionale, oltre che alle isole. Senza scomodare lo svezzamento di Zeus, il latte di capra è sempre stato una sorta di balia di soccorso, al pari del latte di asina, per le puerpere non in grado di allettare i loro neonati, con delle caratteristiche biochimiche molto simili al latte umano. Ricco di minerali e vitamine, povero di sodio, altamente digeribile. Formaggi piccolo ma indispensabile volano economico per molte realtà, con prodotti giunti sino a noi con un pedigree storico di tutto rispetto come, ad esempio, la piemontese Robiola di Roccaverano, nota sin dai romani che la chiamavano “rubeola” per il suo aspetto rosato, valorizzata al meglio quale intrigante mantecatura del risotto.

In Lombardia ecco il blu di capra, versione alternativa del gorgonzola vaccino. In Val Camonica la capra bionda dell’Adamello ci regala il fatulì, fatto solo in alpeggio, affumicato con bacche di ginepro. Caprini e caciotte, puri o misti a latte ovino e bovino, si trovano lungo tutta la dorsale appenninica, per arrivare al mursulupu della Calabria grecanica, dono della capra dell’Aspromonte, letteralmente “boccone del lupo” e confezionato all’interno di stampi di legno di gelso con incisioni antropomorfe, compagno di golose frittate. E che dire dei padduni, dal nome che rinvia alla forma sferica, fatti con il latte della capra girgentana, in Sicilia, arricchiti con pepe nero e peperoncino vengono utilizzati anche in pasticceria. Non manca la versione caprina dello yogurt, alias su gioddu, una specificità legata alla particolare presenza di fermenti autoctoni che si trovano solo in Sardegna.

La carne

Come detto di questa abile e generosa scalatrice di monti e valli, non si è buttato mai via nulla, con una differenza. Se la produzione latteo-casearia è sempre stata il fulcro del suo utilizzo alimentare, per quella relativa alla carne il discorso è diverso. Nascere capro (tecnicamente detto anche “becco”) non assicura sempre una tranquilla pace terrena: se alcuni esemplari vengono selezionati per la prosecuzione della specie, per altri invece il destino è diverso: le carni del maschio castrato non sono gradevoli come quelle capresche e, quindi, i capretti giovani sono tradizionalmente protagonisti delle tavole pasquali, in una sorta di sacrificio che ne celebri al meglio proprietà che li rendono più apprezzati dei giovani agnelli. Nella tradizione la capra immolava le sue carni alla fine della carriera, quando oramai non produceva più latte e quindi formaggio. Valida sia come insaccato che in altre preparazioni. Sola, o in buona compagnia, in jam session di preparazioni miste a carne ovina e suina.

In Sardegna i pastori celebravano il Natale con sa trattalia, interiora lavorate con pane, lardo suino e avvolte nel suo intestino, poi passate allo spiedo. A Novara di Sicilia, nel messinese, troviamo la crapa o funnu: un autentico rito in cui le carni vengono lavorate pazientemente entro un forno rivestito di gesso. Sbarcati nel continente ecco la capra sotterrata, una versione calabra del porceddu sardo, come la capra alla vutana, uno stracotto con verdure, così pure i maccheroni (rigorosamente arricciati a mano lungo piccoli legni) al sugo di capra di Bova, altra golosità della Calabria grecanica. Nel salernitano troviamo la braciola di capra, involtimi farciti di aromi e pecorino, spadellati con pomodoro. Tra Gargano e Abruzzo uno street food ante litteram, la muscisca o micischia, a seconda del luogo di origine: strisce di carne essiccata, insaporita di aromi vari, golosa compagna di viaggio dei pastori in transumanza.

Sugli Appennini centrali si può incrociare la testina gratinata con olio e mollica di pane, cotta al forno mentre, poi, con vista sulle Alpi lombarde, si aprono scenari diversi. Ad esempio le slinzeghe, una concia di tagli magri messi a stagionare con cui si può farcire, affettati sottilmente, il tomino del boscaiolo: una sorta di panino di cacio passato al forno. Lungo tutta la fascia pedemontana le varianti del capretto, al forno o in padella, sono svariate, ma la star del luogo è il violino di capra, definizione nata da una felice intuizione del poeta dialettale Giovanni Bertacchi: una storia di lunga tradizione che, negli ultimi anni, è uscita dall’ambito locale per diventare ricercata golosità. Nata in Valle di Spluga è il simbolo della Valchiavenna, anche se preparazioni simili si trovano in altre valli vicine, piemontesi e svizzere. In pratica si selezionano spalle e cosce che vengono sottoposte ad attenta marinatura e lavorazione con successiva stagionatura entro i crotti, sorta di grotte naturali di cui sono ricche le valli. Ne derivano pezzature dai due ai tre chili che, poi, generalmente durante il periodo natalizio fanno la festa dei commensali. Si imbracciano a mò di violino e si affettano pazientemente con una lama affilata che ricorda l’archetto dello strumento. Tradizione prevede che sia tutta “l’orchestra conviviale” a darne degna celebrazione. Infinite le varianti, molte di stretta osservanza familiare, compresa una leggera affumicatura con pino e alloro. 

*In copertina, Solitude, di Marc Chagall 1933

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