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Erbaluce e Carema

Due denominazioni piemontesi su cui puntare

Non lontano da Torino troviamo due delle denominazioni più affascinanti e peculiari del Piemonte: Caluso (DOCG) e Carema (DOC). Caluso mette al centro un vitigno a bacca bianca poliedrico: l’Erbaluce, la cui area si estende su 37 comuni in tre province: Torino, Vercelli e Biella.

La produzione avviene tra due serre, Ivrea e Caluso, che lo racchiudono nel bacino morenico del Canavese. Uno dei fattori distintivi di questo vitigno è la tecnica di allevamento a pergola, formata da un sesto filare di oltre 5 metri con circa 1.000 ceppi per ettaro. La potatura è a tralci lunghi in quanto l’uva non è produttiva sulle prime tre o quattro gemme basali. Successivamente, le uve destinate al passito dopo essere state raccolte vengono adagiate su graticci in appositi locali per l’appassimento naturale. Uva che ben si adatta ai terreni sabbiosi e sassosi, tipici delle colline moreniche, l’acidità è forse l’elemento che meglio caratterizza l’uva restituendo un incredibile potenziale di invecchiamento in tutte le versioni prodotte. Antichi documenti ci dicono che l’Erbaluce è un vitigno autoctono introdotto localmente dai Romani, probabilmente parente del Greco di Fiano. È un vitigno versatile e unico nel panorama dei vini bianchi perché può essere vinificato in tre diverse tipologie: bianco secco, spumante e passito. Per il Metodo Classico la permanenza sui lieviti deve essere minimo di 15 mesi mentre per il passito l’appassimento delle uve deve essere protratto fino a raggiungere un grado zuccherino non inferiore al 29%; il periodo minimo di invecchiamento è di 36 mesi, dodici in più per il Caluso Passito Riserva.

La seconda denominazione che affrontiamo vede invece come protagonista l’uva più chiacchierata del Piemonte: il Nebbiolo. Cultivar principale per la produzione di Carema DOC, prodotto su pochissimi ettari terrazzati (13) attorno all’omonimo comune al confine con la Valle d’Aosta. Qui, si parla di una “viticoltura eroica” portata avanti con grande entusiasmo da un gruppo di giovani vignaioli che, proprio per il loro dinamismo, sono riusciti negli ultimi anni a recuperare gran parte della superficie vitata perduta e a riaccendere una zona prestigiosa che dà vita a vini rossi corposi, freschi e di lungo invecchiamento. I terreni, anch’essi di origine morenica, ospitano vigneti coltivati su pendii rocciosi, molto soleggiati ad un’altitudine non inferiore a 300 metri s.l.m. e non superiore a 600 metri s.l.m. Siamo alle pendici del Monte Maletto, qui i terrazzamenti asciutti sono sicuramente un elemento paesaggistico che rende unica la zona oltre a sfidare la coltivazione di quelli che localmente vengono chiamati Picutener e Prugnet. Sono richiesti 24 mesi di affinamento per il Carema, 36 per il Carema Riserva, di cui 12 mesi in legno per entrambe le tipologie.

I nostri migliori assaggi delle ultime annate prodotte:

Erbaluce di Caluso Eolga Docg 2019 di Ilaria Salvetti

Giallo dorato brillante, sentori di evoluzione, crosta di pane, zafferano; buon gusto, polposo, mela golden; buon impatto e densità, buona carnosità e bel ritorno fruttato. 93/100

Erbaluce di Caluso DOCG Spumante San Giorgio 2019 di Ciek

Giallo paglierino, al naso cedro di buona maturazione con zafferano, limone candito; sorso ampio, geloso, di buon equilibrio e rotondità. 93/100

Cuvée Tradizione Caluso Spumante DOCG di Orsolani

100% Erbaluce. 36 mesi sui lieviti. Colore giallo paglierino con riflessi dorati. Al naso intriganti note di crosta di pane ed erbe aromatiche; palato ampio, aromi di arancia candita e sensazione minerale. Buona bocca e freschezza. 92/100

Caluso Fior di Ghiaccio Docg 2022 di Cantina Erbaluce di Caluso

Dorato, bei profumi di pera matura, appetitoso, ampio, carnoso, buona freschezza e ritorni fruttati. Simpatico archetipo della denominazione. 93/100

Erbaluce di Caluso Docg 2022 di Bruno Giacometto

Giallo paglierino, sentori di pera, naso tipico del moto; appetitoso sorso lungo, rotondo e molto piacevole nonostante una punta di alcol sul finale. 92/100

Erbaluce di Caluso Docg Ghiaccio Secco 2022 di Silvia

Colore giallo paglierino. Naso sfaccettato, tra fiori, pomelo e pera; sorso ampio di grande rotondità. 91/100

Erbaluce di Caluso Docg Autoctono 2021 di Bruno Giacometto

Colore dorato; al palato si avvertono anche ricche note di agrumi rossi e scorza d’arancia; il retrogusto chiude su note di frutta secca. 92/100

Erbaluce di Caluso Docg Antonia 2021 di Le Masche

Giallo paglierino, luminoso. Al naso sentori di pomelo e sapidità; al palato grande tensione, punte succose e minerali. Uva archetipica. 93/100

Erbaluce di Caluso Docg Primavigna 2021 di Crosio

Giallo paglierino, luminoso. Sentori di frutta gialla matura, sorso appetitoso, ricco di frutta, bella armonia e rotondità. Delicata rotondità. 92/100

Erbaluce di Caluso Docg Anima d’annata 2019 di La Masera

Giallo paglierino, luminoso. Naso impressionante con note alpine e fresche. Palato armonico accompagnato da una piacevole freschezza. Chiude su note di biancospino. 93/100

Erbaluce di Caluso Docg Macaria 2019 di La Masera

Giallo dorato, al naso note di zafferano e magnolia. Sorso di grande volume, intensità e freschezza in armonia, lieve ma efficace vena tannica. 91/100

Canavese Nebbiolo Doc Roccia 2022 di Le Masche

Rosso rubino brillante, nato molto nitido, struttura fresca, frizzante, dotato di una piacevole acidità, piacevole al sorso con tannini aperti e integrati. 92/100

Canavese Nebbiolo Doc Gaiarda 2019 di Le Masche

Colore rubino chiaro. Note di melograno ed eucalipto; sorso dinamico, teso e piacevolmente fresco con tannini fini e piacevoli. 93/100

Carema Doc 2018 di Cantina dei produttori Nebbiolo di Carema

Colore trasparente, appetitoso, trama tannica unita a sensazioni eteree e di agrumi rossi. Bocca vivace, persistente, di buon volume. 93/100

Caluso Passito Doc Talin 2018 di Ilaria Salvetti

Affinato per 60 mesi in botti di rovere. Colore giallo dorato, al naso sensazioni di miele e albicocca. Al palato sensazioni di dolcezza e caldo agrumato. Armonia ed eleganza. 94/100

Caluso Passito Doc Alladium 2017 di Ciek

Invecchiato per 5 anni in botti. Colore ambrato, al naso intense note di miele, frutta candita all’arancia, mela cotta e fichi. Al palato grande dolcezza e complessità su aromi di resina e lime. Grande potenziale di invecchiamento. 94/100

Un fenomeno in costante crescita

La costante crescita globale dei numeri legati ai vini rosati fa pensare che siano finalmente stati superati gli odiosi cliché del passato. Quei vini “da donne”, ottenuti “mescolando gli avanzi di cantina”, che si acquistano “perché hanno un bel colore” che richiama il tramonto – ché “il momento adatto al consumo è l’aperitivo a bordo piscina” – non esistono più. O, meglio, il machismo e la disinformazione che intridevano l’immaginario collettivo intorno ai vini rosa sono stati via via sostituiti da una campagna di informazione di qualità, tanto che oggi si può affermare senza timore di essere smentiti che chi produce vino rosato secondo i crismi necessari per questo tipo di vinificazione sta vivendo un momento d’oro o, per restare in tema, roseo.

Sì, perché in ogni angolo del globo si registrano dati crescenti ormai da anni. Una tendenza che non accenna a frenare secondo quanto riportato dal Report 2021 – Rosé Wines World Tracking, con un consumo totale che nel 2019 si è attestato a 23.5 milioni di ettolitri: una crescita del 23% rispetto al dato globale registrato a inizio 2000. I maggiori consumatori si trovano in Francia, Stati Uniti e Germania, ma è interessante notare che i maggiori produttori sono Francia, Stati Uniti, Spagna e… Italia.

Le molte tonalità di rosa dello Stivale

L’Italia vanta infatti un’importante tradizione nel campo della vinificazione in rosa e numerose denominazioni sul territorio pronte a testimoniarlo. Se il pioniere fu Leone de Castris nel 1943, con il suo Five Roses – e ancora oggi la Puglia risulta tra i maggiori produttori di vini rosati – le sfumature di rosa sono rintracciabili lungo l’intero Stivale, con una palette che – generalizzando – va via via accentuandosi nel colore da Nord a Sud.

Impegnato da qualche tempo a vigilare sul tema è l’istituto Rosautoctono, raggruppamento consortile fra le principali denominazioni storiche: Chiaretto di Bardolino, Valtenesi, Cerasuolo d’Abruzzo, Salice Salentino, Castel del Monte e Cirò. L’obiettivo dell’Istituto del Vino Rosa Autoctono Italiano è, infatti, quello di diffondere, in Italia e all’estero, la cultura e la conoscenza del vino rosa italiano, inteso quale insieme delle singole specificità territoriali.

L’immenso patrimonio di vitigni autoctoni italiani trova dunque, nel colore rosa, una forma di espressione capace di dare risalto a caratteristiche diverse da quelle evidenziate dalla vinificazione in rosso o in bianco, dunque pienamente autonoma e compiuta, ma soprattutto considerevole di eguale dignità. È sempre bene ricordare in effetti, che nel nostro – e nella maggior parte – dei Paesi è vietata la pratica di mescolare vino bianco e rosso per ottenere il rosato. La sola eccezione è rinvenibile nello Spumante, ma anche qui poco diffusa. Al contrario, la vinificazione in rosa richiede un’attenzione anche maggiore rispetto alle altre e un’idea chiara fin dal principio. Per dare vita ai vini rosati, infatti, fondamentale è la via che si decide di perseguire in cantina, che a seconda della tecnica scelta darà luogo a vini dallo stile molto diverso.

La vinificazione in rosa

Il punto di partenza è lo stesso per tutti, la pigiatura delle uve a bacca nera, dalle quali si ottiene il mosto. Dopodiché si utilizzano le tecniche della pressatura diretta, della macerazione breve e del salasso. Tecniche che incidono sulla quantità di sostanze estratte dalla buccia e quindi, semplificando, sul colore e sugli aromi del vino.

Nel caso della pressatura diretta l’uva di partenza rilascia un succo che estrae appena un po’ di colore dalla buccia – dalla quale viene subito separato -, quindi si procede alla vinificazione in bianco del mosto che apparirà di colore rosato tenue. In alternativa è possibile optare per la macerazione e quindi lasciare il mosto a contatto con le bucce per poche ore o per giornate intere: i ‘vini di una notte’ macerano per un tempo che va dalle 6 alle 12 ore, quando la durata è invece di circa 24 ore si parla di ‘vini di un giorno’.

O ancora si può optare per la tecnica del salasso, utilizzata in Francia per la produzione dei cosiddetti ‘vini saignée’, che prevede il prelievo di una parte del mosto di uve rosse dalla vasca di macerazione – che presenta una concentrazione maggiore di colore e aromi, simile a quella del vino rosso, ma il cui colore risulta più chiaro a causa dell’interruzione del procedimento -, quindi la prosecuzione della vinificazione in bianco.

Due strepitosi autoctoni vestiti di rosa

Oggi in Italia si contano sempre più vini rosati dal forte carattere identitario, frutto di vigne di altamente vocate e meticolose pratiche di cantina. Un esempio a nord e uno a sud è sicuramente individuabile nelle aziende Ronchi di Cialla (Friuli-Venezia Giulia) e Palmento Costanzo (Sicilia), cantine votate al sacro vincolo della qualità.

Venezia Giulia IGT Rosato ‘Rosedicialla’ 2021 – Ronchi di Cialla

100% Refosco dal Peduncolo Rosso
Per la vinificazione di questo vino si comincia con una macerazione sulle bucce di 18 ore, a cui segue una pressatura molto soffice. Il mosto fiore così ottenuto fermenta in vasca d’acciaio a temperatura controllata, quindi affina sulla feccia fine per quattro mesi (con batonnage tre volte alla settimana). Il risultato è un vino dall’intenso color rosa cipria, che al naso sprigiona note di ribes rosso e pompelmo e in bocca spicca per l’evidente freschezza. Di grande persistenza, la bella sapidità di fondo ne accentua ulteriormente la piacevolezza.

Etna Doc Rosato ‘Mofete’ 2022 – Palmento Costanzo

100% Nerello Mascalese.
In questo caso le ore di macerazione sulle bucce sono soltanto 8, dopodiché si prosegue con la fermentazione in acciaio, sosta sulle fecce fini per quattro mesi e altri due mesi di riposo in bottiglia. Si ottiene così un vino dagli intensi riflessi ramati, che al naso richiama la violetta, la fragolina di bosco e le erbe di campo. Piacevolmente sapido, al palato si scopre una bella freschezza e una lunga persistenza.

*Entrambe le etichette sono distribuite da Sagna Spa.

Il padre putativo dell’Amarone

Viene quasi naturale raccontare di questi vini che lasciano sempre il segno per il profondo legame con queste terre, ma soprattutto per il loro essere estremamente complessi, con facilità. E benché sia pur vero che non è stato codificato tutto nella fermentazione alcolica, o sulle trasformazioni che si sviluppano nell’affinamento, accarezzando le vecchie botti Garbellotto viene da pensare che, al di là, di quelle doghe, accada qualcosa di inspiegabile, una magia, e, anno dopo anno, un inanellarsi di vini splendidi per luminosità, complessità, finezza, e per l’energia che esprimono.

Varcare quel cancello, percorrendo il viale di ulivi che porta alla cantina, mette sempre un timore reverenziale accompagnato da un brivido alla schiena. L’accoglienza di Francesco e Lorenzo, nipoti di Giuseppe, ti mette subito a tuo agio e colpisce la professionalità e la pacatezza che esprimono. Sono loro ad aver il compito di far rivivere in bottiglia i valori e la visione di colui che è stato definito il padre putativo della denominazione. E se si chiede loro se hanno effettuato qualche modifica sulla metodologia di produzione, rispondono che hanno rivisto alcuni piccoli accorgimenti atti a migliorare qualche aspetto legato alla precisione, rendendoli più contemporanei, lavorando sull’espressione del frutto, sulla precisione.

Un po’ di storia

L’azienda nasce nei primi anni dello scorso secolo con Silvio Quintarelli, che, insieme ai suoi fratelli, coltiva a mezzadria i vigneti di località Figàri, nel comune di Marano di Valpolicella. Dopo la prima guerra mondiale, dal 1924, l’azienda si sposta nella vallata di Negrar, in località Cerè, dove Silvio prosegue la propria attività con il prezioso aiuto dei figli e in particolare di Giuseppe, il più giovane, che nei primi anni ’50 subentra in maniera importante in azienda per continuare la tradizione, apportando migliorie in cantina e in vigneto.

Giuseppe opera nel pieno rispetto della natura con amore e dedizione costanti; i vini ottenuti già allora seguono una paziente e scrupolosa selezione delle uve e hanno un fortissimo legame con la tradizione. Nei primi anni `80 procede con l’acquisto di nuovi vigneti, ottimizza la produzione e sperimenta altri vitigni, come il nebbiolo, la croatina, il cabernet franc e il cabernet sauvignon, che verranno poi usati regolarmente nei blend, e nasce un vino mito come l’Alzero, frutto dell’esperienza e della consapevolezza nella tecnica dell’appassimento delle uve.

Vini al massimo livello

Fra le caratteristiche che contraddistinguono da sempre i vini di Quintarelli ricordiamo una naturale predisposizione al lunghissimo affinamento, che va ben oltre i vent’anni, e li rende complessi, sfaccettati, ricchi di svariate sfumature olfattive speziate e balsamiche, ideali da godere davanti a un caminetto nelle fredde giornate invernali. Le prime etichette Quintarelli furono scritte a mano da Giorgio Gioco, celebre Chef e proprietario dello stellato I 12 Apostoli, ristorante nel cuore di Verona che ha fatto la storia della ristorazione della città scaligera.

Nella nuova cantina si accede in religioso silenzio, le luci soffuse consentono di ammirare un mix tra passato e presente, dove si ergono le storiche prime 10 botti le botti intarsiate con motivi allegorici, come il melograno e la cicogna, simboli di fertilità. 11, circa, sono gli ettari vitati, per lo più coltivati a pergola veronese, su terreni calcareo basaltici per vitigni tradizionali come corvina, corvinone o rondinella, mentre il resto – cabernet franc e cabernet sauvignon – la maggior parte a Marano ma anche a Valgatara e a San Giorgio è allevato a Guyot.

Giuseppe Quintarelli, icona assoluta nel mondo del vino italiano e non solo, ha trovato nei due nipoti i traghettatori per portare l’azienda familiare nel futuro, tramandando la mission del fondatore che in anni difficili e contro il parere di tutti ha comunque scelto di portato avanti la qualità estrema, le rese bassissime e i lunghi affinamenti.

(n.b.: Nessuno dei vini ha un punteggio; non mi permetto di farlo.)

La degustazione

Recioto della Valpolicella 2011 Giuseppe Quintarelli

Il capostipite, il vino che si beve per ultimo, è anche il primo della classe per il suo straordinario equilibrio e per l’eleganza. Prodotto con le medesime uve che compongono l’Amarone, il suolo che accoglie questi vecchi vigneti è di origine vulcanica con sedimenti calcarei; la vendemmia, rigorosamente manuale, avviene nella seconda metà di settembre con uve ben selezionate, i grappoli migliori sono messi in piccole cassette ad appassire per oltre 100 giorni; fermentazione alcolica lenta, di circa 45 giorni, atta a mantenere un buon residuo zuccherino. Quindi l’affinamento, per almeno 4 anni, in botti di rovere.

Il comparto olfattivo, generoso e potente, è intriso di profumi caldi, suadenti, ricchi, opulenti, che fanno viaggiare con la mente e portano lontano. Molte sono le sfumature: marasca in sciroppo, prugna, marmellata di more e lamponi, spezie dolci come paprika, pepe nero, liquirizia, radice di china, incenso, legno di cedro, moka. Al palato è velluto: morbido, avvolgente, materico, spesso; lo zucchero residuo è bilanciato in maniera perfetta dal tannino e la vena fresco-sapida è da manuale. La persistenza è senza fine, con rimandi continui alle note olfattive… una per una… estasi pura.

Alzero Cabernet IGT Veneto 2014 Giuseppe Quintarelli

Il secondo vino, il celebre Alzero, nasce per volere del grande Giuseppe. Nessuno aveva mai pensato prima di allora di poter realizzare un cabernet con la tecnica dell’appassimento; nessuno aveva mai pensato di porre una vigna su quel terreno scosceso e ripido chiamato, in dialetto, “alzero”, a 350 metri di altezza sul livello del mare dove il suolo è di tipo calcareo-basaltico. Dopo la  vendemmia è prevista un’attenta selezione dell’uva che viene poi trasferita nel fruttaio e posta a riposo in piccole casse di legno e sui graticci. Dura in genere meno delle uve atte a dare Amarone, intorno ai 50 giorni. L’affinamento, che in una prima fase ha una durata di 30 mesi e avviene in diverse botti di rovere francese (Limousin, Allier, Tronçais) prosegue poi per ulteriori 30 mesi in un’unica botte di rovere di Slavonia di medie dimensioni.

Naso profondo e finissimo, tutto giocato sulla leggerezza, rispetto all’Amarone presenta meno impeto fruttato anche se si avvertono sottili note di frutti neri maturi. Escono poi sottili eco di grafite, pietra focaia, accenni balsamici di liquirizia, china, spezie dolci, ginepro e pepe nero, con un soffio di sottobosco, catrame, pellame pregiato. Sul palato è caldo, ricco, si apre a ventaglio rivelando una fenomenale ampiezza e un equilibrio perfetto; i tannini sono impeccabili, finissimi, seguiti da un guizzo sapido-salino che dà movimento. La persistenza è lunghissima e accompagna un incedere di note balsamiche-mentolate uniche.

Amarone della Valpolicella 2015 Giuseppe Quintarelli

Vino icona dell’azienda, l’Amarone di Quintarelli è un vero e proprio pezzo di storia della Valpolicella, amplificato da un’annata ritenuta la migliore degli ultimi 30 anni. Nel 2015 le condizioni climatiche in Valpolicella hanno toccato la perfezione: grappoli spargoli, asciutti, con un grande accumulo di sostanze fenoliche e coloranti. Quanto occorre per conferire all’Amarone grande longevità e profondità. I vigneti poggiano su terreni collinari di natura vulcanica e calcarea. Le uve, portate in fruttaio e messe a riposo in casse di legno e sui graticci, vengono fatte appassire in modo completamente naturale per oltre 100 giorni. Sette anni di affinamento in legno fanno da preludio a un Amarone senza eguali, emozionante e nobile.

Bouquet completo e complesso che dispensa note calde, scure, profonde, di amarene e prugna in confettura. Piccoli frutti neri sotto spirito, floreale di violette e rose essiccate, erbe aromatiche, timo, maggiorana, speziato di ginepro, pepe, cardamomo, resine pregiate come incenso e mirra, radice di liquirizia, soffio minerale e finale di moka e fava di cioccolato. Corposo, pervaso di calore, materia avvolgente e succosa, vigoroso ma vellutato, tannino profondo ma finissimo, sapientemente cesellato, con vitale acidità a ristabilire l’equilibrio generale. Vino dalla lunghezza infinita con note finali di legni pregiati e spezie orientali, grande profondità. Difficile fare di più e soprattutto chiedere di più. Immenso.

Rosso del Bepi Veneto IGT 2014 Giuseppe Quintarelli

Il Rosso del Bepi è il vino che Giuseppe ha dedicato a se stesso. Ha deciso di dare questo nome all’Amarone quando notava che la qualità dell’uva e quindi dell’annata non era all’altezza di fare un grande prodotto. Quindi viene declassato a Veneto IGT ma a tutti gli effetti si tratta di Amarone, proveniente dalle stesse vigne, con i soliti 4 mesi di appassimento e 8 anni di invecchiamento in botte, ma con una persistenza e struttura del vino leggermente inferiore, più immediato rispetto al suo fratello maggiore.

Excursus aromatico di grande estensione delineato da note dolci e succose di frutto maturo pieno, ciliegia, more di rovo, mirtilli, prugna che cedono il passo a calde note di legno di cedro e sandalo, alloro, timo, tabacco dolce e finale piccante di spezie, pepe nero e ginepro. Sorso di portentosa espressione, caldo, ricco di estratto, si muove sul palato come velluto, tannino di classe infinita e profondità superlativa. Nonostante tanta abbondanza riesce nel guizzo fresco-sapido finale a strizzare l’occhio al territorio a cui è intimamente legato e indurre salivazione, per cui non vedi l’ora di riprenderlo in mano.

Valpolicella Classico Superiore 2014 Giuseppe Quintarelli

Altro vino iconico, il Valpolicella Classico di Quintarelli nasce dalla classiche uve autoctone corvina e rondinella. Le uve sono raccolte manualmente in piccole cassette, la fermentazione avviene grazie alla presenza dei lieviti indigeni e si prolunga per 7-8 giorni. L’affinamento avviene in botti di rovere di Slavonia di diverse dimensioni per 60 mesi.

Composizione olfattiva ampia e invitante, intrisa di frutti maturi, ciliegia nera, mora di gelso, prugna in confettura, grafite, roccia, anice, spezie orientali e soffio di viola mammola. Affascina per la finezza e l’equilibrio sul palato, la materia densa fa da apripista a un tannino magistrale, di immensa classe, con il ritorno speziato che fa da cornice ad una beva eccelsa. Altro vino di puro piacere.

Cà del Merlo Veneto IGT 2015 Giuseppe Quintarelli

Il Rosso ‘Ca’ del Merlo’ di Quintarelli è un vino voluto fortemente da Giuseppe nei primi anni ’80, prodotto con la tecnica del Ripasso a partire da un uvaggio dove un 15% di cabernet sauvignon, cabernet franc, nebbiolo, croatina e sangiovese si unisce agli autoctoni corvina, corvinone e rondinella. Quindi l’affinamento di 7 anni in grandi botti di rovere.

Olfatto di ottima estensione, marcato da note speziate di ginepro, pepe nero, cannella, cardamomo. Intervengono poi un fruttato di confettura di prugna e mora e per finire china, liquirizia, tè nero, tabacco dolce, cuoio. Energico il sorso, avvolgente e generoso, tannino compatto perfettamente integrato e tocco sapido finale.

Bianco Secco Veneto IGT 2021 Giuseppe Quintarelli

Ottenuto da un sapiente blend di garganega, chardonnay, sauvignon e trebbiano. Dopo la raccolta le uve sono pigiate e lasciate macerare sulle bucce per circa 12 ore a bassa temperatura: la fermentazione spontanea ha luogo in vasca d’acciaio a cui segue un affinamento sulle fecce fini di alcuni mesi in inox, con periodici batônnage manuali.

Sfaccettato il naso con ricordi di frutta gialla matura, susina, pesca, mela golden, soffio di fiori di campo e pietra focaia. Gusto pulito e pieno, con elegante freschezza e piacevole sapidità, dotato di un finale con rimandi minerali di pietra focaia.

Io cerco la strada, svolto in una via, ma, soltanto nel mio cuore.

Marcel Proust

I fatti della vita

Sono convinto del fatto che solo tra i grandi artisti ci siano i pochi eletti in grado di addentrarsi nelle viscere del mondo, penetrare i misteri della vita e della natura come Orfeo nell’oltretomba.

Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo.” 

Odore e sapore sono verità del tutto personali, entità indistinte e impalpabili, sono le segnature dell’anima che contraddistinguono le predilezioni che ognuno di noi rivolge verso cibi, vini, persone, ambienti, situazioni.

C’è un’altra pagina memorabile da la Recherche che testimonia l’ironia, l’empatia verso i più umili e l’incredibile sensibilità dello scrittore francese per i piaceri della tavola, cioè “il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita”. Proust qui non si limita a stilare un elenco sterile di bontà gastronomiche, ma descrive con viva partecipazione Françoise, la cuoca di zia Léonie a Combray e il suo amore per il cibo, vero e proprio nutrimento dell’anima. D’altra parte è un pezzettino di biscotto intinto in una tazza di tè o tisana al tiglio ad aver suscitato nella mente del protagonista le memorie vivissime del suo passato, generando nella sua coscienza come dal nulla, tutto un mondo perduto che è il mondo della sua infanzia. Dalla cenere del passato il vino dei ricordi.

Alla base consueta di uova, costolette, patate, marmellate, biscotti, che ormai nemmeno ci annunciava, Françoise aggiungeva infatti – seguendo i cicli dei campi e degli orti, gli effetti della marea, le vicende del commercio, le cortesie dei vicini e il suo proprio genio, in modo che il nostro menu, simile a certi quadrilobi scolpiti nel XIII secolo sul portale delle cattedrali, rifletteva un poco il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita: un rombo perché la pescivendola gliene aveva garantito la freschezza, una tacchina perché l’aveva vista bella al mercato di Roussainville-le-Pin, dei cardi al midollo perché in quel modo non ce li aveva ancora fatti, un cosciotto arrosto perché stare all’aria aperta stimola l’appetito e fino alle sette c’era tutto il tempo per digerirlo, degli spinaci tanto per cambiare, delle albicocche perché erano ancora una primizia, del ribes perché entro quindici giorni sarebbe finito, dei lamponi che il signor Swann aveva portato di persona, delle ciliegie, le prime cresciute sul ciliegio del giardino dopo due anni che non dava più frutti, del formaggio alla crema che una volta mi piaceva tanto, un dolce alle mandorle perché l’aveva ordinato il giorno prima, una brioche perché toccava a noi offrirla. Quando tutto questo era finito, creata appositamente per noi, ma dedicata più specialmente a quell’intenditore che era mio padre, una crema al cioccolato, ispirazione, attenzione personale di Françoise, ci veniva offerta, fuggitiva e lieve come un’opera di circostanza nella quale lei aveva profuso tutto il suo talento. Chi avesse rifiutato di assaggiarla dicendo: «Basta, non ho più fame», sarebbe immediatamente retrocesso al rango di quegli zotici che persino di fronte a un’opera donata loro da un artista badano al peso e alla materia, mentre il valore risiede tutto nell’intenzione e nella firma. Lasciarne anche una sola goccia nel piatto avrebbe testimoniato di una villania simile a quella di chi s’alza in piedi prima della fine dell’esecuzione sotto gli occhi del compositore.

Il vino perduto di Alberto

I cicli dei campi e degli orti, le vicende del commercio e tutte le altre variabili temporali definiscono una continuità piuttosto organica nella storia dell’uomo occidentale. Una continuità organica che si è dissipata con l’avvento dell’industrializzazione e la scomparsa dell’universo contadino. Non è mia intenzione attaccare con la trita lagna de il passato è meglio del presente, il futuro farà ancora più schifo. Tantomeno ritengo che i vini rustici del passato non necessitassero di un perfezionamento tecnico-enologico, sì, ma tecnica ed enologia usate con coscienza senza gli abusi e le mistificazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Gli odori e i sapori a cui possiamo fare riferimento oggi nei casi più fortunati sono imitazioni contadine ben realizzate da parte dell’industria, quando non sono delle contraffazioni belle e buone. La produzione del vino ha subìto e sta subendo in maniera esponenziale questo sconvolgimento di “riproducibilità tecnica” che snatura necessariamente la matrice degli odori e dei sapori all’origine, sacrificando l’aura artigianale sull’altare del rifatto in serie o della falsa copia.

Nella bassa modenese c’era uno dei più straordinari contadini filosofi di mia conoscenza, Alberto che ricostruiva e utilizzava nel suo orto attrezzi della millenaria civiltà contadina. Alberto che citava a memoria passi nell’originale greco da Esiodo, Omero, Senofonte e i Presocratici. Alberto che incarnava col suo esempio vivente la verità rurale di un’agricoltura davvero sostenibile così come delineata dagli insegnamenti di Plinio, Catone, Columella fino al grandissimo ma ahimè dimenticato professor Draghetti, agronomo anticonformista inviso agli accademici filistei, che nel suo fondamentale Principi di fisiologia dell’azienda agraria (Bologna, 1948) intendeva la fattoria agricola come un organismo vivente radicato sulla naturale fertilità dei suoli.

I due primi maialetti che ho avuto da ragazzo li avevo chiamati Craxi & Spadolini. Mi ha dato un gusto quando ho dovuto scannarli.” 

Alberto, ho scoperto qualche giorno fa che non c’è più, fulminato dal Male dei nostri tempi. Una schicchera al cervello se l’è portato via in poche settimane. Il ricordo del pranzo passato con lui, la memoria del vino bevuto assieme fatto da lui nella sua vignetta resteranno sempre dentro di me. Un rosso aspro e vivo, beverino e campagnolo, un vino umile, senza pretese e senza etichetta, fuori dal commercio forse qualche bottiglia venduta sotto banco nei mercati di paese frequentati da Alberto dove portava principalmente le sue verdure. Un vino popolano ma senza trucchi né inganni. Un vino perduto come i cibi magici di Françoise. Un vino sanguigno che ancora oggi si può ritrovare qua e là, andando alla ricerca degli ultimi contadini filosofi appartati, sparsi sui monti, i mari e i campi della nostra straziante civiltà mediterranea.

Marcel Proust. “Alla ricerca del tempo perduto 1. Dalla parte di Swann”, (traduzione di Giovanni Raboni)

Realtà monopolista a Menfi: dallo studio dei suoli all’enoturismo

A poco più di un’ora di strada dall’aeroporto di Palermo, il grande lavoro di cooperazione portato avanti da Mandrarossa, marchio di punta della cantina Settesoli, nata nel 1958, rappresenta un esempio di grande capacità di gestione e valorizzazione del fattore umano d’avanguardia ma sopratutto è una materiale trasfigurazione delle potenzialità della terra in cui nascono le viti, che raggiungono fino ai 400 metri s.l.m. 

Il percorso di Mandrarossa, iniziato nel 1999, da subito ha puntato ad investire le proprie risorse nella ricerca, con l’obiettivo di comprendere quali fossero le migliori uve – sotto il sole per 300 giorni l’anno – da coltivare in questo angolo al nord – ovest della Sicilia. Si piantano varietà indigene e non, dal Nero d’Avola, Gracanico, Grillo, Fiano allo Chardonnay, Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon, Vermentino (abbiamo recentemente assaggiato il loro bel Larcéra) e Petit Verdot e molte altre, quando a cavallo degli anni sessanta e settanta c’erano principalmente uve bianche. Dopo il primo osso all’estero, si decide di mappare ogni parcella a disposizione, ne seguono analisi e prime prove di vinificazione, che rispondono con efficacia nel bicchiere; l’impostazione del lavoro è improntato sulla precisione, si sviluppa al passo con una natura che cambia e sembra così perfetto da paragonarlo a un piano urbanistico a scacchiera romana.

La parola d’ordine per l’agronomo storico di Mandrarossa, Filippo Buttafuoco, è “rigore”: quello richiesto ai conferitori in campagna, seguiti in ogni fase del ciclo vegetativo. Quest’aria d’innovazione, che nel tempo ha conquistato oltre 2000 padri di famiglia, registrati in base alle loro superfici vitate e i suoli in cui crescono le loro viti, hanno permesso di catalogare 5 diverse tipologie di suoli, “costole” fatte di habitat spesso circondati da palme nane, simbolo scelto per il logo Mandrarossa.

Questo studio ventennale, portato avanti da Mimmo De Gregorio e Filippo Buttafuoco, Enologo e Tecnico viticolo di Mandrarossa, supportato da Alberto Antonini e Pedro Parra, specialista nello studio di micro-terroirs, e dei geologi dell’Università di Palermo, ha messo in evidenza soprattutto la roccia madre calcarea di origine marina, presente ai confini del Bosco Magaggiaro, oasi naturalistica e paesaggistica di quasi mille ettari colma di pini, ulivi, eucalipto, querce, pini, ulivi e palme nane.

Da qui ne deriva un baricentro produttivo da “Mar d’Africa” in cui nascono linee produttive incentrate sulle bacche tipiche siciliane e una linea più “innovativa” per quelle internazionali, a lato non mancano le contrade e spumanti. E per completare la propria offerta, Mandrarossa ha recentemente ultimato e inaugurato la nuova cantina che, sviluppata su tre piani, offre un lungo percorso di visita il cui finale prevede il calice di vino con vista sulla vecchia strada della ferrovia che portava al mare, oggi pista ciclabile.

Vini consigliati

Bianco Terre Siciliane Igt Fiano 2021

Uno dei vini più sfidanti per Mandrarossa, certificato biologico, nasce in suoli argillosi e sabbiosi, vigneti esposti a sud e sud-est, a 150 – 350 metri s.l.m. si presenta in un amalgama di note tropicali ed erbacee; un sorso affusolato, in questa sua fase, tra fiori di campo e aloni citrini, da aspettare in vetro; buono il potenziale di invecchiamento visibile in un substrato iodato e dovizioso per potenza.

Bianco Sicilia Doc Chardonnay 2021

Nessuna opulenza, il vino si intensifica nel bicchiere su note citrine, la sottile ma efficace acidità sostiene la materia, fragrante e fresca. Nasce su suoli calcarei e a medio impasto, esposti a sud e sud-est, a 150 – 350 metri s.l.m. 

Bianco Sicilia DOC Grillo 2021

Su suoli sabbiosi e calcarei, esposti a sud e sud-est, a 80 – 250 metri s.l.m. un grillo che trova una sua sorte di pace interiore, i limiti diventano caratteristiche; nel bicchiere, note di erbe officinali e mediterranee, il sorso appare tonico e muscoloso nel suo epicentro, fresco e agrumeto nel fin di bocca. 

Sicilia Doc Nero d’Avola 2021

Tra i 100 e i 400 metri s.l.m, un Nero d’Avola esplosivo, vivace e di grande succo. Brillante, già al colore, con un frutto croccante e una polpa dinamica. Persistente quanto base per apprezzare prima che richiamare un secondo sorso.