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Uliassi

L’insostenibile attesa di una certezza

Ci risiamo. Come ogni anno, la parola “Lab”, nell’immaginario collettivo del gastro-fanatico (quantomeno) italico, è associato solo e soltanto a una città e a un cognome: Senigallia e Uliassi. Ogni anno, infatti, l’attesa è sempre alle stelle per il nuovo lavoro sfornato dal collettivo – perché di questo si tratta – Uliassi. Come i migliori gruppi di lavoro, affiatati e ambiziosi, anche dalla fucina della Banchina di Levante, l’asticella si innalza sempre di qualche centimetro con l’intento di proporre un lavoro migliore dell’anno precedente. E ogni anno si verifica la solita storia: il nuovo Lab è migliore di quello dell’anno precedente. Quella insostenibile attesa dell’appassionato, pertanto, viene ampiamente ripagata. Invero, non è importante definire se, a livello oggettivo – che è ciò che più conta – i nuovi piatti siano migliori dei precedenti, quanto avere la certezza che l’obiettivo di questa tavola sia sempre quello di tentare perennemente di superarsi; intento che possiamo racchiudere in due semplici parole: costanza e perseveranza. Due caratteristiche, queste, che riscontriamo, puntualmente, ogni anno seduti in questo amabile e raffinato stabilimento balneare sulla spiaggia adriatica.

La degustazione, l’accoglienza, eccetera

Il Lab ’23 si presenta con persistenze aromatiche e una piacevolezza complessiva raggiunta senza scendere a compromessi di confortevole rotondità. Freschezza finale presente in ogni portata. Perfino l’amaro gioca un ruolo chiave. Il tutto a dimostrazione che Uliassi, che continua a mettersi in gioco come una giovane rockstar della cucina italiana con sessantacinque primavere alle spalle, è riuscito anche a scrollarsi di dosso l’aura di “people pleaser” grazie all’ennesima intelligente idea di imbastire un percorso degustativo sempre più sofisticato, sebbene meno prolifico del precedente – tre piatti sono stati ripresi dal Lab ’22 perchè sono un perfetto filo conduttore tra la prima e la seconda parte del nuovo menù e rendono lo stesso, di fatto, migliore del precedente – rivolto a tutti ma che possa essere meglio letto ed apprezzato da chi sia in grado di avere i mezzi e l’esperienza per cogliere tutte le sfaccettature, rimanendo, pertanto, nella sua essenza, ecumenico. Certo, i mezzi per fare tutto ciò ci devono essere e qui dietro alla capacità di elaborare e compartire le differenti sfumature di gusto c’è un grande palato.

Quindi creazioni complesse come il folgorante prologo di Ricci ghiacciati e semi di fichi racconta l’evoluzione/progressione di questa tavola che va alla ricerca delle consistenze e delle temperature ottimali per allungare il sentore salmastro del frutto di mare la cui sapidità è, più che contenuta, esaltata dall’aromaticità della menta e dalla dolcezza del fico dalle sembianze tanto simili all’echino; la successiva Seppia scottata, olio di guanciale, bietola, miele e colatura di alici è una summa di questa cucina, dove il vegetale assume sembianze carnivore e diventa finanche più interessante del mollusco: in una parola, un capolavoro, come la strepitosa combinazione di cardoncelli, luppolo, more, mirtilli e pinoli a ricreare la “Macchia adriatica” tra sentori boschivi amaricanti con il luppolo che è la chiave di volta e invoglia al boccone successivo. Poi, appunto, arrivano i tre piatti superstiti dello scorso anno, l’Insalata di ostrica, pesto di rucola, limone, borragine, le Lumache, peperone friggitello, origano ed erbe soffiate e la meravigliosa Anguilla affumicata, albicocca, rafano e alloro, perfetto anello di congiunzione tra mare e terra. Anche i Fusilloni “bruciati” e sugo di arrabbiata (rivisitazione della pasta all’assassina barese) è una ripresa filologica di quella Pasta al pomodoro a la Hilde finita ormai tra i classici del locale e dei Lab, qui evoluta nella consistenza della pasta, cotta alla perfezione e con una componente croccante, a simulare la bruciatura della ricetta pugliese, e nel gioco di ricreare il sugo di pomodoro utilizzando il peperone, un olio all’aglio, la ‘nduja e qualche altra spezia esotica. La chiusura salata è audace, con un Agnello – con grassezza accentuata – in equilibrio tra il dirompente sentore di carbonella e l’aromaticità della vaniglia; ma a prevalere nell’ensemble è la goduriosa piacevolezza del contorno che funge da “puliscipalato” del trittico ciliegia – nocciola – cipolla. Come spesso accade a questa tavola, mare e terra si presentano nei piatti in un connubio paradigmatico di libidinosa complessità. Chiude il percorso creativo di quest’anno una iper-tecnica e alleggerita interpretazione della Saint Honoré che viene “ri-arrangiata” su note più acide (lampone e arancia) dal giovane Mattia Casabianca.

Sull’accoglienza di Catia, il calore del giovane e dinamico servizio di sala  al femminile, capitanato da Filippo Uliassi e dalla storica e genuina presenza del sommelier Ivano Coppari si è già detto e scritto tanto, almeno quanto si è scritto degli elogi della cucina. E non possiamo far altro che riconfermare che la piacevolezza complessiva che si vive seduti a questa tavola è anche, per metà, merito di tutti coloro che stanno fuori dalla cucina. 

IL PIATTO MIGLIORE: ex aequo Macchia Adriatica (cardoncelli, luppolo, more, mirtilli e pinoli) e Seppie scottate, olio di guanciale, bietola, miele e colatura di alici.

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Senigallia caput mundi

Senigallia è una cittadina di meno di cinquantamila abitanti sita nelle Marche, sulla costa adriatica, la quale, nonostante le modeste dimensioni, ospita due dei migliori ristoranti italiani: quello di Moreno Cedroni e quello di Mauro Uliassi. Tutto ciò non è tuttavia frutto solo del caso, Senigallia si trova in una posizione strategica al centro della Penisola, vicina a ben cinque differenti regioni e su una delle principali vie di collegamento tra nord e sud.

La presenza nel medesimo luogo di due Chef di tale calibro ha instaurato una proficua rivalità e un continuo stimolo al miglioramento, mantenendo tuttavia una forte identità e peculiarità che distingue e contraddistingue i due ristoranti. Tanto la cucina di Uliassi è rock’n’roll, caratterizzata da sapori netti e decisi quanto quella di Cedroni alla Madonnina del Pescatore è lisergica e psichedelica, sempre ludica ma non per questo priva di profondità. Si tratta infatti di una cucina che sotto i divertenti e scanzonati riferimenti pop (Peanuts, Banksy…) rivela un alto grado di sperimentazione e una abilità nel trattare il pesce nella sua interezza veramente fuori dal comune.

No Pesce? Cedroni scherza, o quasi…

Il menù scelto (“Luca e Moreno…NO Pesce“) non prevede al suo interno alcun piatto di pesce fresco, ma fanno capolino molluschi e crostacei così come numerose interiora ittiche, che rivelano tutta la maestria di Moreno Cedroni e del sous chef Luca Abbadir.

Si parte con una serie di snack iniziali tra cui spiccano la Zampa di gallina con caviale citrico, maionese di moscioli, percebes e polvere di cavolo viola fermentato accompagnato da un perfetto margarita; il “Pane, burro e marmellata di mandarini” in cui il burro è sostituito con il fegato della rana pescatrice e la crema cotta ai ricci di mare, cervello di vitello, pane croccante, olio di prezzemolo e un cucchiaio di aceto di Jerez, è caratterizzato da grande complessità e stratificazione gustative: ricchezza e freschezza/acidità vanno di pari passo.

A seguire uno dei pochi piatti già in carta negli anni precedenti di Cedroni, nonché uno dei migliori dell’intero menù, “Ricordo di un viaggio in Vietnam”, ovvero ostrica alla brace, cavolo viola, mela e peperoncino basato su giochi di temperature, acidità, note leggermente piccanti e salinità per una pulizia al palato davvero incredibile; nonché due fantastici primi piatti, golosi ed equilibrati: Fusilloni al burro di erbe, trippe di coda di rospo e salsa al parmigiano e Mandorle e Penne al burro di ricci di mare, capesante essicate, erbe e seppie ai carboni (aggiunta à la carte) con i suoi sentori bruciati e le note amaricanti e marine.

Non mancano, poi, centrate espressioni della cucina mari-monti, tipica della Regione, come nel caso del Polpo (con cottura a 97 gradi), mascarpone, mostarda, cetriolo in agrodolce e cuore di vitello, presente in due declinazioni, tagliato sottile come un carpaccio e grattugiato come un katsuobushi, che evidenzia un sapiente uso delle diverse consistenze, e in quello della Royale di mazzancolle, gamberi rossi, salsa di lepre e lampone, brillante e irriverente reinterpretazione del classico francese.

Un capitolo a parte, infine, lo merita lo studio sulle frollature del pesce realizzato dal duo Cedroni-Abbadir con precisione scientifica all’interno del “Tunnel”, attrezzatissimo laboratorio di ricerca gastronomica, dotato di una apposita cella a umidità controllata e ozono, in cui vengono realizzati veri e propri “salumi ittici” (salsiccia di orata, pata negra di tonno, ventresca di ricciola in porchetta, solo per citarne alcuni), che se da un lato richiamano le loro controparti di terra, dall’altro realizzano esiti veramente strabilianti di concentrazione e salinità che da soli valgono il viaggio.

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Il cuoco talassologo

Senigallia è meta nota ai gourmet. Qui sventolano gli stendardi di due fra i più rinomati ristoranti italiani: la Madonnina del Pescatore e Uliassi. Ma, oltre loro, un terzo locale – certo, più piccolo e più informale (stile bistrot) ma decisamente valido – si trova in questa sorridente e pigra cittadina di mare, adagiata sulla costa adriatica. In alcuni spazi del Palazzo del Duca (qui regnavano i della Rovere), giusto in faccia alla quattrocentesca rocca progettata da Luciano Laurana con tratti sì marziali ma comunque ispirati a classica eleganza, si incontra il ristorante Sepia by Niko.

Proprio così, «sepia», con una “p” sola, perché – come sanno gli scienziati naturalisti – il vero nome della seppia, secondo la classificazione di Linneo, è sepia. NikoPizzimenti il family name – lo sa bene, e non potrebbe essere altrimenti, perché fra pesci, molluschi, crostacei e quant’altro viva nelle equoree profondità ci è nato e cresciuto. Il padre del nostro, infatti, è pescatore di lungo corso: proprietario di un motopeschereccio ormeggiato giusto a poche centinaia di metri dal locale del figlio. Il particolare non è di poco conto perché al Sepia si mangia pesce di giornata, che arriva perlopiù dall’imbarcazione di famiglia. E a ben scrutare la non vasta carta delle vivande ce ne si accorge immediatamente, anche perché la proposta cambia ogni primo giorno del mese. Il mare non regala i suoi “frutti”, indistintamente, tutto l’anno: le cozze si trovano in estate, quando invece è assai più raro imbattersi in calamari, polpi e seppie. Le triglie prediligono i mesi autunnali. I meravigliosi scampi quelli invernali. Mentre per i grandi pesci pelagici è meglio attendere il periodo caldo. Niko tutto questo lo sa e, come fine talassologo, studia e interpreta la materia prima con passione, mediando una sua idea di cucina marinara fra Marche e Sicilia. Già, perché dalla Trinacria arriva la famiglia Pizzimenti: e di un’isola lontano dall’isola, più vicina al Monte Conero e alla “spiaggia di velluto” che alla Scala dei Turchi e alle saline, raccontano i piatti del Sepia. Piatti intrisi di ricordi sedimentati attraverso le generazioni, di usi arcaici che, nel lampo creativo, si svelano contemporanei, di tradizioni tradìte e tràdite. In un magma di impeto e di sentimento che mai è però nostalgia.

Piatti mediterranei

Assodato che la materia prima, preziosa o povera che sia, che giunge dal mare qui è davvero top e a km zero, parliamo delle capacità del cuoco. Niko ha una ottima conoscenza delle basi della cucina classica: muove i primi passi nel mondo dei fornelli frequentando l’istituto alberghiero di Senigallia (dove, fra gli altri, ha avuto come insegnante un giovanotto di nome Mauro Uliassi…) e quindi si sposta per lavoro prima in Francia (e la terrina al forno di polpo, caciocavallo e nduja è indizio di questo passaggio…) e poi, per dieci anni, nella lontana Australia.

Questo cosmopolitismo del cuoco – che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un annichilente (e, per chi è seduto a tavola, noioso) stile fusion – in realtà è percepibile più nel suo atto del fare che nel suo fatto. Cioè più nella conoscenza delle tecniche utile a costruire un buon piatto piuttosto che nel piatto stesso (giusto come esempio si potrebbe citare l’estrazione a freddo di senape selvatica che accompagna la pasta mista di Gragnano allo scorfano). E più negli azzeccati e tutti italici abbinamenti – tranquilli, per fortuna nulla di astruso! – che in una “spruzzata” di inutile esotismo. Il risultato prende forma in pietanze solari, d’impianto “mediterraneo”, saggiamente costruite e accattivanti già sotto il profilo aromatico. E, benché complesse gustativamente – come i capelli d’angelo con lepre “alla pantesca” e anguilla glassata – ben bilanciate negli elementi, nei contrappunti sapidi e iodati, e nelle sensazioni (anche tattili, come – per esempio – per il crudo di gamberi rosa, che non è ‘tartarizzato’ ma semplicemente battuto, per salvaguardare le fibre della dolce carne e la sua consistenza).

Uno dei tratti distintivi dei piatti del Sepia è poi la piacevole, e non stucchevole, nota di rotondità, indotta dalla succulenza, che accompagna la deglutizione del boccone, data – per esempio, nei due crudi iniziali – da una bisque di riduzione di soli carapaci di gamberi rosa (quindi senza l’utilizzo della parte della testa) che accompagna il già citato battuto di gamberi, e dal burro acido nel quale viene appena ripassato il crudo di calamaro (con pomodoro arrosto, senape, mollica e olio alla carbonella) per togliergli la possibile sensazione di pelagico.

Capitolo a parte meritano i dolci. Ai tavoli del Sepia gli epigoni di Ciacco possono divertirsi: decisamente goloso, ma ancora una volta non stucchevole, è per esempio il Brownie al cioccolato con uva di Lacrima di Morro d’Alba e crema di arachidi. Ma soprattutto da non mancare sono i cannoli di ricotta alla siciliana. Le cialde sono preparate giornalmente e sono farcite solo pochi secondi prima di essere portate a tavola. Una delizia! Il servizio, diretto da Giulia, la moglie di Niko, è assai efficiente e cortese. E la carta dei vini – che ha ovviamente un occhio di riguardo per le etichette siciliane (ma non mancano le altre regioni d’Italia e una bella selezione estera) – permette di bere bene a prezzi corretti.

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Il “miracolo” Uliassi

Una volta seduti ad uno dei tavoli del ristorante Uliassi si ha la netta sensazione che da quel 1990, anno in cui Mauro e Catia Uliassi aprirono il loro locale in riva al mare, poco sia cambiato. I due fratelli – ai quali si è aggiunto Filippo, diventato oramai uno straordinario interprete di sala – continuano a inseguire il sorriso degli ospiti, nel desiderio di far vivere loro un’esperienza in cui l’interazione umana conservi un significativo rilievo (qui non v’è rischio di incorrere in derive spersonalizzanti).

Le finezze che il rango del luogo richiede non degradano mai in formalismo, non comunicano distanza o, peggio, soggezione, ma, al contrario, calorosa cura e autentica ospitalità, tant’è che, se ci si guarda intorno, capiterà di vedere due ventenni in trepidazione per il nuovo Lab, una famiglia con nonna al seguito, una giovane ragazza che festeggia il compleanno con le amiche, così come l’appassionato in pellegrinaggio. D’altro canto, non è forse questa – a qualsiasi livello – la vera essenza, se non l’autentica funzione, di un ristorante?

Occorre sottolineare che ciò è possibile anche grazie alla coerenza dell’offerta gastronomica, composta, da un lato, da una folta carta e un menù degustazione “Classico” – piatti che oramai appartengono alla storia, destinati ad appagare i visitatori più “spensierati”, la stragrande maggioranza – e, dall’altro lato, dai menù “Lab” – l’avanguardia della cucina uliassiana – e  “Caccia”, ambito in cui il Cuoco di Senigallia è un maestro indiscusso (entrambi disponibili su prenotazione). Questa presa di posizione a favore della “libertà di scelta” richiede un evidente sforzo aggiuntivo, tanto alla cucina quanto alla sala, ma consente di mettere a proprio agio qualsiasi avventore nonché di evitare soluzioni di compromesso: il matrimonio tra inclusione e avanguardia non è quindi solo possibile, ma vincente. 

Il Lab: tra sollecitazioni sensoriali e presenze rassicuranti

Il Lab conferma di essere il menù con cui la gang di Uliassi mira a sollecitare – seppure con chirurgica precisione – i sensi dell’ospite, in un percorso che, sempre più, è caratterizzato da una grande armonia interna, sicché ogni passaggio beneficia della vicinanza di quelli che lo precedono e seguono, in una sorta di risonanza.  Per altro verso, anche i menù che si succedono di anno in anno sono tra loro in comunicazione.

In primo luogo, alcuni piatti sopravvivono all’annata, tant’è che il menù attuale ha ereditato da quello passato Gambero rosso, buccia di arancia, zenzero, cervella di gambero e cannella e Pasta e pomodoro alla Hilde in infuso di foglie di fico, quest’ultimo capace ancor più, rispetto all’esordio dello scorso anno, di veicolare le note olfattive – cifra stilistica tipicamente uliassiana – del raspo di pomodoro, sempre grazie all’infusione di foglie di fico nel burro. 

In secondo luogo, la cucina di Mauro Uliassi è caratterizzata dalla presenza di ingredienti ricorrenti – la seppia, il colombaccio, il riccio di mare, la lumaca – i quali rappresentano il profondo legame tra il cuoco e la propria memoria identitaria e fungono, nel contempo, per chi frequenta con regolarità la sua cucina, da presenze rassicuranti, icone di uno stile, come quelle “frasi” che rendono immediatamente riconoscibili i grandi chitarristi. 

Il Lab 2022: un utilizzo “silenzioso” del vegetale

Tuttavia, sarebbe superficiale e profondamente errato pensare che queste presenze ricorrenti siano sinonimo di stanca ripetizione o autoreferenzialità, poiché ciascun Lab è un viaggio completamente inedito in cui a fare la differenza sono gli ingredienti – apparentemente – comprimari che, a ben vedere, sono vegetali. 

Un esempio lampante in tal senso è rappresentato da Seppie crude, pomodoro verde, polline, olive nere essiccate, un giro in ottovolante tra acidità, note amarotiche, sapidità e dolcezza, in cui ogni boccone è un storia a sé: straordinarie la lunghezza e la nitidezza con cui i sapori si susseguono al palato. Nella stessa direzione, Lumache, peperone friggitello, origano, erbe soffiate, in cui al palleggio tra la callosità della lumaca e la croccantezza delle erbe soffiate si affiancano una leggera piccantezza, dolcezza, amaro e le note aromatiche dell’origano. Un autentico capolavoro è, poi, Anguilla affumicata, albicocca, alloro, rafano, un altro passaggio di grande intensità olfattiva – l’affumicatura del grasso presente nell’anguilla ricorda il profumo di bacon –, in cui si intersecano la dolcezza e leggera acidità dell’albicocca, la pungente piccantezza e aromaticità del rafano nonché l’amarotico e la naturale sapidità dell’alloro.  

Ebbene sì, Mauro Uliassi, cuoco del mare e della selva, dimostra di essere altresì un maestro nell’utilizzo del vegetale che, tuttavia nella cucina del cuoco di Senigallia, non si risolve mai in fine ultimo – e, quindi limite – né in ostentazione, bensì in uno strumento indispensabile per indagare i confini del gusto, spingendosi ogni anno sempre un po’ più in là. 

L’eleganza della pasta al tonno

Quest’anno è altresì comparso un nuovo capitolo del lavoro sulle paste “classiche” italiane (dopo la pasta al burro del Lab 2020 e quella al pomodoro del 2021), rappresentato da Pasta al tonno. La tradizionale difficoltà nel trovare una amalgama tra spaghetto e tonno in scatola viene superata grazie ad alcuni intelligenti espedienti tecnici: la pasta viene mantecata in padella con un brodo di tonno e katsuobushi sui cui viene grattugiato, a mo’ di Parmigiano, un cubetto ghiacciato fatto del sugo classico (tonno, aglio, olio, peperoncino, capperi e prezzemolo), oltre all’aggiunta di uvetta sultanina, olive verdi, cucunci e capperi (questi ultimi tre essiccati). 

L’ultimo passaggio è Colombaccio scottato, tabacco, cardamomo nero e pompelmo asciugato, un omaggio alle note torbate, controbilanciate dall’acidità del pompelmo che – grazie all’essicazione – contribuisce altresì in termini di consistenza. La parte dolce del percorso – notevole il pre-dessert Sorbetto di mucillagine di cabossa, mango e meringhe – è da tre anni affidata al giovane e talentuoso Mattia Casabianca, dal quale è lecito attendersi future sorprese e una pasticceria sempre più ardita (tra i numerosi maestri figura un certo Jordi Roca), ancora più in linea con l’avanguardia del Lab.

Citiamo il pastry chef ma lo sviluppo incredibile avuto dal ristorante Uliassi negli ultimi anni è in realtà merito di tutto il team creativo, esteso ed articolato, composto da Mauro Paolini, Luciano Seritelli, Yuri Ragini, Mattia Colacicco, Peppe Merlino, Andrea Merloni e Michele Rocchi, ovviamente coordinati e governati dal palato e dal pensiero del Grande Mauro Uliassi.

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La vis creativa del menù 2021

Un celebre adagio nietzschiano faceva del caos interiore il responsabile di una creatività luminosa, efficacemente descritta dal filosofo apolide con l’immagine di una stella danzante. Ebbene, non è improbabile che, in una parabola creativa di lungo corso come quella di Moreno Cedroni, a iniettare un’ulteriore, caotica spinta creativa abbia contribuito il suo braccio destro, Luca Abbadir, fautore del The Tunnel, il laboratorio di ricerca e sviluppo della Madonnina del Pescatore, nell’anno del Signore 2019. 

Ma con un corollario assai diverso da quello di Nietzsche perché, qui, la creatività si manifesta piuttosto e più volentieri nella solidità e nella stabilità. Lo dimostra un menù che, benché poco cambiato negli ultimi due anni, si fa oggi più profondo e più cerebrale perché sottoposto a sottili, costanti rimaneggiamenti e drappeggi che, solo adesso, e più propriamente, lo ridefiniscono, mettendolo decisamente più a fuoco.

Un lavoro di cesello che, in particolare, ha coinvolto tutto tranne il reparto pasticceria, l’unico dove, invero, imperversa ancora lo stesso approccio ludico e, per certi aspetti, anche naïf, del primo Cedroni, vivo ancora oggi di una vis giocosa e intelligente ma, appunto, più a fuoco e più profonda, più coraggiosa, anche, e sempre molto prodiga di dettagli personali e autobiografici.

Adriatica rivoluzione: la frollatura del pesce

Come accade con la maturazione del pesce, che rappresenta il prosieguo di un lavoro avviato nel lontano 2000 benché mai divulgato prima né portato, finora, mai a tavola. Dopo poco più di vent’anni col menù 2021 il mondo appare dunque pronto per questa rivoluzione, che contempla l’idea di accogliere la materia ittica nella sua interezza fino quasi a portarla al suo limite massimo: la frollatura, di cui la Riviera Adriatica sta diventando il fuoco in termini di sperimentazione.

Una materia che impone, da sola, un trattamento speciale: al tavolo.  Sempre espresso e sempre preceduto da un momento di taglio e preparazione che mette in risalto la perizia e le frequenze cromatiche delle varie stagionature servite in ordine crescente, l’effetto “clinico” è presto sdrammatizzato dalla presenza stessa dello Chef che, in versione maître au gueridon o, se preferite, Itamae di Senigallia, presso ogni tavolo si occupa personalmente dei tagli, fatti al momento, e di nappature che sono veli leggerissimi, studiati all’uopo.

Oltre a questo, tra i piatti più efficaci segnaliamo senz’altro la royale di riccio insolitamente fusion nel legame che instaura tra l’usanza sicula di consumare i ricci crudi col pane, la scuola classica francese presente grazie a panna e uova e i rimandi, più vernacolari, alla grigliata sul mare, presentificata da pan grattato e prezzemolo.

Oltre a ciò ritroviamo anche un piatto nato già grande: le penne, burro e ricci di mare che varrebbero, da sole, il prezzo totale del biglietto. Solo un piatto di pasta? Manco a dirlo perché qui ci sono manifeste manifesti in uno: quello, individuale, dello Chef e quello, collettivo, dell’italianità tutta. Innanzitutto perché al posto della posata classica è sagacemente imposta all’ospite una pinza che costringe a gustare le penne una ad una come a dire, con eco nazional-popolare, che chi va piano va sano e va lontano. Poi, per il deliquio con cui il burro ai ricci di mare e la polvere di capesanta sposano le rispettive sapidità alle note amare ed empireumatiche di ortica e seppie sui carboni, il tutto in una consistenza da manuale, impreziosita dalla stellina di ricci di mare liofilizzati da sbriciolare, tra le dita, a proprio piacere.

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