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Casa Iozzia

Tuscia, terra di mare

Ci troviamo nella splendida Tuscia, a pochi chilometri da Roma. Immersi nella campagna, troviamo Casa Iozzia. Genuinamente accolti nella sala principale, siamo subito rapiti dal bellissimo camino che rimanda, nome omen, alla piacevole atmosfera delle case di campagna. Dimentichiamo country o shabby chic, l’atmosfera è elegante, sobria, curata, sicuramente confortevole. Questi tratti li ritroviamo nei piatti. Siamo nella Tuscia, è vero, ma troviamo la Sicilia, binomio territoriale portato avanti con molta gentilezza, con contrasti ridotti al minimo e un Mediterraneo che si avvicina all’entroterra laziale senza attriti, naturalmente. Questa decisione, se pur apprezzata nel suo sfuggire al cliché, impedisce però alla Trinacria di manifestarsi in tutte le sue forme.

Piuttosto, lo Chef Lorenzo Iozzia ci presenta la cucina di casa sua accompagnata dalle eccellenze locali: non arrangia un semplice connubio con la terra che lo ospita ma sincretizza le sue due nature con la stessa confidenza e sapienza che alberga in entrambe. Posto, quindi, che avremmo preferito una maggiore audacia negli accostamenti – ci è mancato l’agrodolce e la contaminazione arabeggiante che rende magnifica l’isola – la Sicilia è sicuramente presente, viva e immediatamente riconoscibile, ma ammantata da un velo di eleganza che rischia di nasconderla.

Destinazione Lentini

Non a caso le preparazioni che più ci hanno colpito sono quelle dove le contaminazioni si fanno più evidenti, non accennate, ma presenti e persistenti. Ottimo il Maialino di mare, ovvero la tartare di pesce spada e testa di maiale, due ingredienti così lontani ma così armonici, istituendo un abbinamento vincente perché equilibrato, anche dalla chips agrumata e dalle barbe di finocchio. Così Vitorchiano diventa, per una portata, provincia di Siracusa. La stessa destinazione è raggiunta, attraverso un altro percorso, nel Raviolo di mare. Qui non è la Tuscia a incontrare la Sicilia, ma il mare di scoglio che incontra l’area salmastra alle porte di Lentini. Fantastica, a questo proposito, la gestione del cefalo, delicato e convincente; più incisiva la triglia di scoglio, senza mai però prevaricare. Nel piatto il ragù di patelle è peraltro un’esplosione di sapori, non oscura mai le due farce, ma ne evidenzia le differenze esaltandole. La riuscita è ineccepibile, siamo a Lentini.

Degna conclusione con Un salto nella campagna siciliana: ci troviamo di fronte a una semplice rivisitazione del cannolo, con utilizzo alternativo delle stesse materie prime, che riesce in maniera sicuramente accattivante.

Menzione a parte merita tutto il personale di sala, ineccepibile e particolarmente apprezzato, soprattutto in un periodo in cui è sempre più complicato trovare un servizio all’altezza della cucina. Ottimo l’abbinamento proposto, con particolare riferimento alla Malvasia finale, una vera perla da scoprire.

IL PIATTO MIGLIORE: I Ripieni in due espressioni del mare.

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Terra mia!

Nella sua accezione classica, l’idillio è componimento poetico riconoscibile per brevità ma, soprattutto, per le percezioni proprie dell’individuo che lo compone. Storie e luoghi personali rappresentano punti di partenza per la comprensione stessa dei versi presentati e, così, l’Idylio tangibile di Francesco Apreda è collocato all’interno dell’altisonante Pantheon Iconic Rome Hotel, ma ricerca una propria dimensione intima dove declamare l’abile miscellanea gastronomica che lo abita. Una precisazione, però, è d’uopo: da qualche tempo i percorsi proposti da Apreda si prefiggono la cosiddetta sapidità essenziale, dove l’estrazione rappresenta il cambio gustativo con cui accelerare o rallentare la percezione di un piatto. Decisive le esperienze in Asia, di cui la vis speziata diventa esatta rappresentante, e si rivela utile anche per rileggere in chiave attuale le proprie origini. La cosiddetta “Terra Mia”, definita qui in cinque passaggi, è la visione offerta da Apreda per la sua Campania Felix, ed è la chiave con cui ci siamo approcciati in questa nostra visita.

Una tradizione atavica

Si comincia con una Caprese tiepida liquida e affumicata. Qui la mozzarella di bufala, nella sua stra-ordinaria semplicità, è servita alla temperatura dei 38°, la stessa della mungitura del latte, ed è velata dalla gelatina di latte di bufala fondente con il brodo di pomodoro piccatiello. Interlocutorio invece il fagiolo borlotto reidratato a donare masticazione, di difficile collocamento nell’ensemble del piatto, dove il pomodoro tende a sovrastare il latticino. I Moscardini alla Luciana sono una tra le effigi campane più conosciute, qui sublimati in una cottura millimetrica grazie alla forte arrostitura antecedente l’affogatura in umido. Tentacolo deliziosamente croccante e salsa all’Aglianico piacevolmente incentrata sulla forza del vino impiegato. Intelligente l’uso del sedano abbinato all’alga kombu, binomio tra freschezza e salinità.

I Maccheroni arruscati al ragù napoletano sono manifestazione balsamica dove il pepe della tradizione napoletana, trova una connotazione indiana con varietali aromatici tendenti alla liquirizia. Il maccherone nella sua duplice cottura però cede il passo alla plastica coriacità del passaggio eccessivo in padella. Il Baccalà alla genovese “rinforzata”, piatto principe della sequenza, è anche sintesi tecnico-locale. Il baccalà cotto nel grasso del vitello, preserva la sua morbida consistenza, al contempo l’estratto di genovese distilla il lato dolce della cipolla, rinforzato appunto per acidità e textura dalle verdure in agro accompagnamento. Infine il dolce Babà “Mille Culure”, alloro e mela annurca, opulento negli elementi presenti, panna all’alloro, sfera di gelato alla mela annurca come inserto del babà a sua volta aromatizzato allo speziato rhum nero Kraken. Un dessert esteticamente impattante ma difficilmente coeso.

Dalle mille sfaccettature, caleidoscopica nella forma ma anche nei contenuti, in alcuni casi di non facile comprensione, la cucina di Apreda, come un dialetto, anche nelle imperfezioni risulta affascinate e curiosa nella sua arcaica musicalità. La clientela dell’Idylio, del resto, è prettamente internazionale e sfoggia lingue, storie e culture che si mescolano tra loro anche nel linguaggio a tavola. Crediamo che la sfida di Apreda sarà anche quella di rendere intellegibile una tradizione atavica anche per chi arriverà dall’altra parte dell’oceano, preservandone autenticità e sapori. “A meglia parola è chella ca’ nun se dice” oggi qui aggiungeremmo “ma forse quella che si assaggia!”

IL PIATTO MIGLIORE: Baccalà alla genovese “rinforzata”.

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La tradizione di Prati

Una volta qui erano tutti prati”. Quante volte abbiamo sentito questa frase. All’Arcangelo, però, questa frase è ancora più vera; non soltanto perché si trova nell’omonimo rione Romano (che effettivamente prende il nome da ciò che qui c’era fino a inizio secolo), ma soprattutto perché qui il tempo sembra essersi fermato all’epoca. L’approccio è chiaro sin dall’ingresso. La sala ricorda le osterie di una volta, non risulta vecchia, vetusta, ma è ben curata; le macchinine lasciate sui tavoli alleggeriscono i toni, affascinando i bambini di oggi e quelli già cresciuti, contribuendo a creare un piacevole ambiente d’antan.

La proposta è anch’essa quella di un’osteria d’altri tempi, con qualche piccola sorpresa offerta dall’ottima mano dell’esperto Chef Arcangelo Dandini. La tradizione rappresenta l’alveo principale, correttamente cremosa la Cacio e pepe, ottimi i Carciofi. Qualche inciampo nelle Cannacce al sugo dove la coda, in alcuni bocconi, è risultata colpevolmente tenace al morso, minando la perfetta riuscita del piatto. Sempre bello quando la schiettezza e la concretezza delle ricette trascendono, facendo comparire in maniera quasi inaspettata il manico, e si nota molto, della cucina.

…e la memoria

Arcangelo si diverte portandoci a spasso fra i suoi ricordi. È proprio questa voglia di divertirsi e raccontare che, a nostro avviso, fornisce i risultati migliori. Il “Viaggio a Rocca Priora” è estremamente piacevole; le erbe amare e il polline cullano l’uovo poché e il piatto, che nella sua semplicità ci ha conquistato, come una giornata primaverile risulta fresco e non stanca mai. I Ravioli al garum viaggiano nella stessa direzione, ottimi, intensi, anche se forse avremmo preferito una maggiore incidenza del ripieno. Anche nei dolci è riscontrabile la stessa tendenza, corretti e ben eseguiti quelli della tradizione, dal Tiramisù alla romanissima Ricotta e visciole; ma è, di nuovo, l’altra metà della proposta a sedurci maggiormente. La Crema inglese è splendida, i capperi e l’olio di oliva a crudo alleggeriscono il palato, concludendo alla perfezione il pasto. La cantina è notevole ampia e ben fornita, non prevede eccessivi ricarichi.

IL PIATTO MIGLIORE: Viaggio a Rocca Priora – Uovo poché, erbe spontanee, polline e croccante di mandorla.

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La libertà secondo Zia

San Sebastian, 1947, meta gastronomica ma luogo di nascita di Fernando Savater. Saggista dal colto pensiero ma di immediata comprensione, lo menzioniamo qui per un suo brillante passaggio introducendo questo racconto: “Ciò che ci distingue in quanto esseri umani è la capacità di decidere e inventare azioni in grado di trasformare la realtà e noi stessi. Tale predisposizione, che si chiama ‘libertà’, è insieme condanna e fondamento di ciò che consideriamo la nostra dignità raziocinante.” Perché allora finire così lontano, affacciati sull’Atlantico, scomodando addirittura la filosofia, se oggi raccontiamo nuovamente la profonda e grande, visto il luogo dove ci troviamo, bellezza della cucina di Antonio Ziantoni a Roma? La risposta è piuttosto semplice, perché il futuro di un’insegna come questa, che ancora ha molto da raccontare e che con ampie falcate e piatti inanella successi e riconoscimenti, sta proprio in questa coraggiosa libertà di scelta. Una cucina che propone nitida la componente materica, che libera da innecessari virtuosismi autocelebrativi raccontando la personale identità di chi la realizza.

La cucina di Ziantoni

Motivo di tale apprezzamento risiede principalmente nella nostra felice sequenza: 3 corse + 1. Ostrica, nervetti e crucifere. Sotto il mare, il mollusco. Sotto la terra, il cavolo nero e l’indivia. Sulla terra, i nervetti di vitello. Una stratificazione gustativa importante che spazia dalla balsamica sapidità dell’ostrica, qui scelta la Legris, abbinata alla dolcezza del nervetto e al brodo di indivia.  A chiudere il cavolo nero nella sua laminatura croccante, fa da spartiacque su un pentagramma di consistenze diverse. Capitone in gratella, cipolla ed estrazione di dragoncello, spazia antologicamente tra Paolo Lopriore, Piergiorgio Parini e finanche Riccardo Camanini sul concetto di estrazione e sottrazione. La forza del piatto risiede nell’essenza vigorosa del dragoncello che nella sua verticalità vegetale culmina tra piacevoli sentori amaricanti di liquirizia. La strada è ben segnata per il capitone prima affumicato e poi passato sulla brace.

Arriva dunque il capitolo “Francia” salato e dolce. Prima con il Germano, lardo e cacao, dove il lardo aromatizzato alla santoreggia umetta e contemporaneamente aromatizza la carne del volatile. La salsa di cacao fermentato riprende l’ematico della cacciagione da piuma, cui fa da acme il goloso accompagnamento del binomio foie gras/mela cotogna. Impossibile non menzionarla e in continua progressione come la cucina di Ziantoni, la pasticceria di Christian Marasca, che rilancia con una Brioche feuilletée (seppur gelosamente se non fosse per la stazza) da condividere e il Fior di latte da manuale realizzato con il magnifico prodotto della latteria Salvaderi. Aggiungiamo una piacevolezza di servizio di cui molti hanno già scritto, ma che è bene sottolineare dal momento che non tutti i ristoranti stellati o fine dining necessariamente la possiedono.

Il futuro sta nella libertà di scegliere, dunque, troppo aulico? Nel dubbio sceglieremo di tornare una volta, e una volta ancora, in questo brillante gioiello capitolino quale è Zia Restaurant.

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Rinnovamento gastronomico

Come in un tino, il vino fermenta, bolle, sommessi scoppiettii, profumo. Così il rione Prati a Roma si sta trasformando in un incubatore gastronomico; conferme, innovazioni, nuove aperture, tutto si concentra in una zona che sta lavorando per confermare la sua trazione culinaria, rappresentando sempre di più un luogo di rinnovamento all’ombra del Cupolone. In questo contesto, a pochi passi dall’interessantissimo progetto latino di Roy Caceres con il suo Carnal, scopriamo Pulejo. È qui che lo Chef Davide Puleio ha trovato il proprio approdo; salpato dall’Alchimia di Milano, è tornato nella sua Roma, carico di sapori, tecniche e accostamenti; pescando dai nostri ricordi più tradizionali, propone portate dai gusti semplici, ma mai banali.

Raffinatezza ed eleganza

Abbandonati gli inutili formalismi e l’ingessatura di alcune realtà, il clima di conviviale raffinatezza è immediatamente percepibile. In una sala molto sobria (forse anche troppo) ed elegante, l’ottimo personale ci accoglie con affabile disinvoltura, facendoci sentire subito a nostro agio, come se fossimo clienti di vecchia data. L’offerta rispecchia l’accoglienza, abbinando delicatezza ed equilibrio, in un percorso gastronomico molto interessante.

Accolti dall’ottimo Bao con aringa presentato come amuse-bouche, abbiamo subito apprezzato l’Animella con bieta e ostrica affumicata; questa nota, perfetta per impreziosire il quinto quarto, rischia, tuttavia, di coprire eccessivamente la regina dei mari. L’equilibrio è garantito e il sapore assicurato, ma una nota marina più marcata avrebbe, probabilmente, concesso un effetto sorpresa più pronunciato. Molto più diretto il gusto dei Ravioli. In questo caso l’affumicatura si avvicina maggiormente al bruciato, esaltando il raviolo e la battuta di manzo e permettendo allo splendido latte di bilanciare il tutto, senza risultare eccessivamente dolce. L’aromatizzazione al midollo chiude il cerchio del piatto, a nostro avviso veramente notevole per gusto, presentazione ed eleganza.

Il discorso cambia per la Seppia al vapore: la proteina, morbida e delicata, non trova la complicità del fumo; in questo caso è il vegetale a farla da padrone: in foglia, in crema e in cima (anche nella scala dei sapori), è sempre lui il vero protagonista, mentre la bottarga e il nero ci riportano in spiaggia, trasformando il piatto in una gustosissima verticale di broccoletti di mare. La Grattachecca all’arancia con spuma di mandorle, sablè di olive taggiasche e olio extravergine d’oliva è particolarmente indicata per accompagnarci ai dolci i quali, pur senza deludere, non sorprendono. Molto interessante il Gianduia, ibisco, amarene e foie gras; probabilmente troppo didascalico (anche nell’impiattamento) lo Yogurt, cioccolato bianco, rose e frutti di bosco.

La cantina abbisogna ancora di qualche tempo per potersi ampliare; ad ogni modo l’ottimo supporto garantito da Mattia Zazzaro garantisce la giusta compensazione, permettendo di non rimanere delusi. Il dolce comfort delle Madeline servite a fine pasto, come in un racconto proustiano, rispecchia lo spirito con cui ci alziamo da tavola, coccolati dalla gentilezza del personale e dall’abilità della cucina.

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