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La Terrazza

Tutto torna: come Luigi Taglienti nella sua Liguria

Un giorno d’estate del 2010. Esco dalla spiaggetta libera di Paraggi dopo un bel bagno nell’ancor popolato di pesci, splendido, tranquillo piccolo Golfo (andavo molte volte d’estate, adesso meno), c’è lì giusto a due passi il ristorante dell’Hotel Eight, butto un’occhiata sulla carta, mi fermo incuriosito, bastano poche parole risonanti area linguaggio-gusto (testo ricco o scarno, poche o tante le parole, non importa, da come sono scelte e accostate si capisce in buona misura come si mangerà, quello che passa per la lingua, sia prima che dopo, non può mentire).  

Mi informo. È arrivato per una consulenza stagionale, e sarà presente in loco per parte della settimana, uno chef molto giovane che non conosco, Luigi Taglienti. È già stellato a Cuneo, ma di lui non si parla molto. Decido di prenotare per la sera, ma non sceglierò alla carta. Come mi piace, …se sento il richiamo (alla Jack… London!): carta bianca!

Quello che arriva (ho conservato il testo e ricordo in buona misura i piatti) di portata in portata mi lascia sempre più sorpreso, ed è dir poco. Otto piatti: Gambero rosso di “Santa” con burratina e ciliegie. – Scampo di Oneglia, banana flambata, brina di Ace. – San Pietro, pesche, brodo di San Pietro con tè verde.  – Riso ai crostacei profumato al limone.  – Spaghetti, aragosta, champagne rosé. – Pescatrice in civet come in Piemonte. – Baccalà pensando a una Burridda di stoccafisso alla ligure. – Kandinsky di cioccolato bianco con ricci di mare

Non sto a raccontar tutta la tiritera, che tra l’altro ormai si sa è un po’ fasulla, tutta la tiritera dei gusti, fondamentali o meno, che non vorrei annoiare ancora una volta ogni altro palato mentale (la primogenitura del concetto di palato mentale è di Adrià, fine anni Novanta). Piuttosto, nel giovane Taglienti: tecnica già matura, originalità degli accostamenti e dei rimandi, idee, alcune delle quali riviste poi altrove. Cucina in libertà d’assoluto politeismo, il tratto allora e oggi più saliente. Tecnicamente e nel pensiero molto salda, e allo stesso tempo fuori dai massimi sistemi, dunque rinfrancante di fronte ai nuovi di epoca in epoca dettati ideologici volti a spiegare al cuoco quel che dovrebbe fare, nello specifico oggi …per la squadra, per il prossimo, per la comunità, per il paese, per il bene dell’umanità, …per il Pianeta! E dire che per tutto basterebbe …l’arte.

In ogni caso, ho poi seguito negli anni Taglienti nella sua crescita, in special modo a Milano. Lo tengo, assieme a non pochi amici, nel novero ristretto dei più bravi del Paese, dunque un valore che va anche al di là dei confini. Non solo, ho letto, non ricordo dove, di qualche gourmet (ma non sarebbe arrivato il momento, questa parola, di rottamarla?) che lo considera il cuoco più sottovalutato d’Italia. Le sedi dove ha esercitato la sua arte non sono state poche. Mi viene in mente il recente “Filosofia della casa” di Emanuele Coccia, dove verso la fine dice che ormai la nostra casa è dappertutto. Dappertutto, dunque, anche il ristorante. Fatto sta che con Taglienti parlandone abbiamo concluso che lui s’è portato avanti 🙂

Ma arriviamo alla casa attuale, lo Splendido di Portofino, dal 1901 a tutt’oggi uno degli hotel più belli d’Italia.

La cosa migliore è leggere i testi ufficiali:

Sono felice di accogliere nella mia cucina la brillante creatività dell’amico Luigi e onorato di poter annoverare alcune sue creazioni nel Menù de La Terrazza. Le sue radici liguri si rinnovano così a Portofino, terra meravigliosa che lega ulteriormente la nostra unione in cucinaCorrado Corti – Executive Chef Hotel Splendido

Allo Splendido ci venivo da bambino, ricordo l’odore dei fiori, dell’acqua salata della piscina sulla pelle e gli occhi accecati dal sole. Ci sono tornato più volte come semplice cliente deliziato dalla cucina di Corrado e affascinato dalla vista strepitosa. Tornare a vivere e lavorare nella mia terra, è stato un desiderio ricorrente negli ultimi anni. Portare la mia visione e la mia conoscenza allo Splendido, è un sogno che si avveraLuigi Taglienti – Project Chef de Cuisine Hotel Splendido.

Il menù degustazione di Luigi Taglienti a La Terrazza

Amuse-Bouches: Pinoli tostati e pestoFossile con mandorla e harissaCondigionMinestrone freddo alla genovese

Qui la territorialità (peraltro centrata in pieno) è solo la cornice, all’interno della quale vale la bellezza, la tipicità, la pulizia, la profondità dei sapori. Il ricordo più nitido è quello del condigion (antenato e parente povero ma felice del più ricco cappon magro), insalata tipica ligure qui nella versione ponentina, più magra (ancor più efficace il sapore pieno e senza sbavature che aveva).

Quintessenza al chinotto

Quanti ricordi ne ho. Agrume per eccellenza del savonese. Il più delle volte candito o, ahimè, sciroppato. Ma indimenticabile ad esempio l’uso provato in un dessert di Cracco, e in un pre-antipasto di Lopriore. O da ultimo in piatti del nostro a Milano al Lume. Inizio del pasto importante con un liquido, caldo o freddo, com’era nel classico. Qui splendida ouverture in stimolazione, il chinotto quintessenza non è sapore domestico.

Gamberi, ricci di mare e carpacci

I due gamberi viola di Santa Margherita semplicemente spaziali, erano stati pescati da non molto e portati su allo Splendido. Di codesti pregiatissimi, che vivono a grandi profondità, poche volte ne ho mangiati di così. Per loro più che mai valida la regola che il gambero è straordinario quando, rari casi qualità-freschezza, il gusto della testa (ci è stata servita da ultimo, a coronamento) è ancora migliore della pur eccellente polpa del corpo del crostaceo.

Antipasto in tre parti liberamente componibili:

a) il salpicon di gamberi;
b) la spuma di ricci, olio, arachidi (semplicemente una delizia);
c) carpacci (straniante, suona monco, e invece è doppio): fassona e tonnetto rosso, anche quest’ultimo di recentissima pesca.

Il mare-terra messo in contesto gioco, che i quattro elementi singoli si possono gustare da soli o in una dozzina di intriganti combinazioni diverse.

Fior fior di zucchine trombetta

La zucchina trombetta è ortaggio tipicamente ligure e dal gusto univocamente distinto (nel senso di bontà marcatamente inconfondibile) tra la gran famiglia delle cucurbitacee. Qui strati su strati, – la crema, – la zucchina brasata, – e il fiore che, ripieno di prescinsoa, focaccia e maggiorana, fa un gran trittico regione. Ma sotto la crema ancora celavasi il bergamotto. E come peana veg questo ottimo fior fiore ci basti.

Pasticcio di scampi e ravioli

Ancora scampi di pesca locale recente, vivi, super.

Fantastici raviolini di preboggion (la raccolta delle erbe spontanee in Liguria avviene da tempo immemorabile, e anche la si faceva con miei parenti tutti), erbe che virano su squisito tipico amarognolo. Il termine pasticcio che qui il nostro chef usa in libertà gagliarda è termine singolare per la modernità in cucina, per antifrasi ricordando nel caso nostro quello delle un po’ famigerate Lasagne alla Portofino (pesto e besciamella; pei ghiotti ghiotti), ruotato invece al presente in ridondante finezza, ossimoro che è dato dalla presenza della bella cremosità sotto i raviolini e dalla perfetta bisque concentrata dello scampo, sopra.

Ma lo stile della cena sta cambiando. E intanto sul mare a Levante è sorta una gran luna piena, che ci farà da incanto crescente fine al volgere della serata.

Peperonata di acciughe

Lo chef alla mattina era di ritorno da Spessore, dove s’era vista (lui, a differenza d’altri della masnada 🙂 , in rispettosa perfetta tenuta da brigade) un’insolita scena nell’accaparrarsi tra cuochi le materie prime, quelle che c’erano c’erano, disponibili per la cena. Orbene, lo chef ha duplicato idealmente la scena creando insolito ensemble di Peperonata alla ligure (ma, ci risiamo, invece della fogliolina di basilico, sopra a corona c’era la foglia di bieta delle torte) sormontata dal meglio dell’azzurro, l’acciuga. Perfetto. Succulenza.

Sì, ma dove stiamo andando? Che non basta, scavavi e, ehi non dichiarata nel testo, sotto la peperonata… una trippa (di vitello) alla ligure. Oibò. Dopo lo sconcerto, altra succulenza, e vieppiù positivamente caotica, in the mood of, succulenza dell’insieme. Allora non posso non pensare al fatto che qui, in tutt’altro contesto, l’intruso facesse bonariamente e sornionamente il verso all’invenzioni della neo-trattoria italiana, invenzioni per le quali qualche giornalista entusiasta (…magari dopo sue tante quaresime parastellate) è giunto a coniar la locuzione, chiarissima in sé, di “carrettate di gusto” (cit.): concetto e pratica da porre all’interno di una deriva anti-marchesiana come mai in tal maniera ve ne furono, e nel ritorno, pur mutato nell’ingrediente (now more hard), sì, nel ritorno all’affastello, al gaudioso ammucchio, già stigma della (invero pure grandiosa …quando non era stracotta) cucina italica d’antan.

Ma del trippa di vitello con abitator dell’acque ricordo un fastoso Trippa, pioppini, frutti di mare (fasolari, tartufi, vongole, cozze) di Gennaro Esposito del 2012 e un vertiginoso Trippa, caviale ecc. di Paolo Lopriore del 2008. Ecc. ecc. …E vogliamo allora parlare dello storico intruso della carta, con trippa, ma stavolta di merluzzo, salame (sì, salame) e baccalà, del Louis XV, a Montecarlo?

Dopo la “Peperonata” lo slittamento aumenta, un criterio dell’arte è giusto il salto, la sorpresa, il rischio della leggerezza (quella di pensiero, scanso equivoci), che è quello dell’ultima e più bella tra le “Lezioni americane” di Italo Calvino. Si va col vento qual mongolfiera (esperienza che ho fatto e che a tutti consiglio), padroni non della direzione ma quasi solo delle altezze, gestendo il fuoco e la zavorra.

La Luna ora da qui si vede anche riflessa sul mare. Ma al tavolo la luce, ben sufficiente per l’occhio, non lo è più per le foto.

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Colpo di teatro. Piomba in scena il sociale, no, il suo spettro (Hommelette for Hamlet di Carmelo, Bene!). È in veste di condivisione! Altro feticcio della neo-tradizione, ma qui reso eccessivo e decontestualizzato fin quasi a strappar le risa. Padellata, ma grande grande (…più di quelle che danno quegli altri bravi – non manzoniani – a Paraggi), una padellata d’un profluvio di frutti di mare (guarda un po’: fasolari, tartufi di mare, vongole; ma cozze no) tutti di qualità super, serviti per tutto il tavolo. Da bagnare, traendo da capiente pentola a parte, in faconda pulizia, con loro liquido di breve cottura, intriso di spicchi leggermente aciduli di pomodorino. Da lusso d’antan (ma anche odierno) di buona buona risto-trattoria sul mare. C’è voluto un po’ di tempo frutto a frutto (rigorosamente al meglio con le mani portando alla bocca, ancora all’antica) un po’ di tempo a quasi finirlo (tutto impossibile).

Una pausa condita dalla bellezza della terrazza e del panorama e vissuta in un tempo lento di straniamento felice
E tutto questo che già nella cena è stato, e quello che ancora verrà, è ciò che via via diventa pasto memorabile, ristoro che non scinde mente e corpo. Né tutto il compitino, materico o di concetto. Né le troppe, e non più a tempo, arie, benché di bravura.

Lepre, inchiostro di seppia

E siamo all’unicum, inedito capolavoro, piatto clou della cena. La Lepre Royale, maestro della quale da anni è il nostro Taglienti a Milano, e chi non l’avesse provata ora se ne dolga! Lepre solita perfetta cottura e composizione, ma, ma, ma …Lepre royale marina! Via il foie gras. La salsa (fulcro del piatto): al 50% il sangue della lepre e il nero di seppia, al 25% un jus di canocchie, al 25% un jus de crustacés. Salsa, come qui opportuno, assai meno gelatinosa, più light della royale classica. E tra la salsa qualche fungo galletto, e frutti di mare. Per questo scomodo ancora una volta l’emergente, nel colto e nel pop, maître à penser Emanuele Coccia: “In quanto essere metamorfico, ogni specie è una sorta di zoo o giardino botanico ambulante, una collezione, un patchwork di tratti che appartengono a un numero imprecisato di altre specie.”

Il piatto di Taglienti ne sembra l’illustrazione:

Ibisco, barbabietola, pompelmo al basilico

Dessert leggero, fresco, quello che ci vuole per finire. Idem l’Anguria al Camatti.

Per un cuoco avere una buona tecnica è la base di tutto, e si sa che già saper positivamente ben copiare è difficile e auspicabile. E però dice a ragione Sol Lewitt “banal ideas cannot be rescued by beautiful execution”, dunque importante per un bravo cuoco è arrivare ad avere uno stile proprio e non copiare. Ma avere una libertà anche sul piano stilistico (già lo dicevo a proposito di Taglienti, proprio su Passione Gourmet, molti anni fa) è un di più. Lo spiega Adrià nel suo volume sulla cucina di El Bulli fine anni Novanta, primi Duemila. Ci sarebbe solo da aggiungere, che un po’ nella cucina manca, una presa d’ironia …quella che avverte sempre del rovescio della medaglia (ancora Calvino).

P.S.: dell’eccellenza del luogo e della vista ho detto, non ho detto dell’eccellenza del servizio, lo dico adesso.

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Da Kanda non si viene per caso, situato fuori dalle rotte turistiche e lungo una piccola stradina in un contesto prettamente residenziale. Indispensabile è l’utilizzo di un taxi, senza il quale il rischio di perdersi è altissimo.
La Michelin da alcuni anni pone questo minuscolo ristorante (crediamo non più di 10 mq.) al vertice assoluto della capitale, in compagnia di altre 13 perle, e senza esitazione procediamo al laborioso meccanismo di prenotazione, facendo leva sull’affidabile concierge del nostro albergo alcuni mesi prima della visita programmata.
Ad accogliervi sarà Kanda-san in persona che, invero, con nostra grande sorpresa, affronta, seppur con qualche esitazione, una piacevole conversazione in inglese.
L’ambiente intimo, così raccolto, dà la possibilità di interagire anche con gli altri ospiti, meravigliati della nostra presenza al bancone.
Si stappano bottiglie importanti di fianco a noi, la carta dei vini è finalmente degna di questo nome, così come i suoi ricarichi.
A differenza di molti suoi colleghi, anche più illustri, lo chef vanta numerosi viaggi all’estero e amicizie europee (ci dirà che ha stretto rapporti con Alfonso Iaccarino e che Pinchiorri, quando è a Tokyo, è sovente gradito ospite per deliziarsi con la sua “milanese”), anche se la cultura occidentale non ha permeato la sua cucina, rimasta rigidamente osservante dei dettami della cultura gastronomica giapponese.
La dicitura “kaiseki”, come abbiamo visto in altre recensioni, identifica l’espressione culinaria più raffinata di questo Paese, una fusione di cibo e natura, gusto ed estetica. Kyoto senza alcun dubbio rappresenta la culla di questo rito gastronomico che si officia quotidianamente nelle splendide ryokan, locande tradizionali espressioni massime dell’ospitalità nipponica. E a Tokyo, patria del sushi, è certamente più raro imbattersi nella vera cucina kaiseki, anche se le eccezioni non mancano.
Kanda, ça va sans dire, è una di queste.
Certo, il diktat non scritto che impone il solo utilizzo di verdure e pesce qui non è seguito alla lettera, ma ciò che più conta è il rispetto della estrema qualità e stagionalità delle materie prime.
L’impronta di Kanda-san è fine, leggera, quasi impercettibile, le preparazioni che giungono al nostro tavolo hanno, però, un minimo comune denominatore: la persistenza. A volte giunge inaspettata, altre invece no, come quando viene servito l’ennesimo brodo, caldo o freddo che sia, sempre perfetto, soave ma così intenso.
Kanda-san segue il mantra della estrema freschezza degli ingredienti e così, quale manifesto del suo pensiero, ci vengono portati in visione due guizzanti Ayu che di lì a qualche minuto faranno la loro comparsa nel piatto perfettamente grigliati e affumicati.
La sequenza delle portate alterna caldi e freddi, affumicati, dolci e salati, in un turbinio di sensazioni. Il palato non è mai seduto, sempre stimolato, fatto vibrare.
Che meraviglia quei capellini di soia in brodo freddo, ghiacciato, acidulato. Straordinario l’abalone con funghi ed alghe.
Purtroppo la chiusura dolce è sottotono. La tradizione vuole che si termini con la frutta, fortunatamente di livello eccelso, o più raramente con il gelato.
Non temete, però, la spesa, seppur elevata, è ampiamente ricompensata dalla gioia di sedervi ad uno dei sette posti al bancone e godere di un kaiseki d’autore.

Fico con gelatina di sesamo. Esplosione di dolcezza e note tostate.
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Abalone, funghi, alghe. Materia prima pura e accostamento di sapori fantastico.
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Fat fish con…
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…a latere, wasabi e marmellata salata di prugna.
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Polpetta di pesce, mais e funghi in brodo, di raffinatissima persistenza.
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Oshizushi. Abbastanza raro trovarlo sulle tavole giapponesi. È sushi pressato con un blocco di legno, in questa versione con horse mackarel, foglie di sansho e spremuta di lime. Compatto e concentrato. Le foglie di sansho altro non sono che le foglie della pianta del meglio noto pepe di Sichuan.
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Ayu mostrati vivi e vegeti nella loro dimora..
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…e cotti alla brace e leggermente affumicati, pochi secondi dopo. È l’emblema di ciò che la freschezza degli ingredienti rappresenta per i giapponesi.
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Servito nel modo caratteristico, “in piedi”. L’Ayu è un pesce di fiume molto pregiato e particolarmente dolce. Viene mangiato intero.
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Bonito con peperoncini verdi…
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…soia e mostarda.
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Verdura il cui succo, violaceo, è naturale. Turgida e “carnosa”.
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La versione giapponese della “milanese” con insalatina condita in modo fantastico, acidula e fresca. Materia prima, neanche a dirlo, stratosferica.
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Brodo con pesce (particolarmente grasso), polpetta di pesce e sesamo, funghi e verdure. Meraviglioso. Leggermente acidulato, di una persistenza e freschezza inaudite.
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Spaghettini di soia in brodo, freddi, quasi gelati, con erba cipollina. Si gioca con i contrasti di temperature. Il palato viene resettato, ma la profondità di gusto è allineata alle portate precedenti.
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…si risale di temperatura con il tè nero.
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Gelatina di anguria.
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Gelato al tè e caffè.
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Ingresso esterno.
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Ingresso interno.
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(Gambero crudo, crema di arachidi, schiuma di the masala, meringa cacao e lime – Ristorante Il Pagliaccio)

Secondo appuntamento con il Friday Five!
Vi invitiamo ancora a farvi avanti con le vostre segnalazioni!
Scrivete all’indirizzo fridayfive@passionegourmet.it, vi invieremo le specifiche per la compilazione e il vostro pezzo sarà pubblicato nel Friday Five!

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(Baccalà Mare Nostrum: filetto di baccalà, succo di olive verdute, acqua di pomodoro, mandorle di Noto e profumi di Pantelleria – Osteria Francescana)

Presto Passione Gourmet vi presenterà una nuova veste grafica e anche contenuti innovativi che consolideranno la nostra oramai innata libertà di giudizio e amore per l’alta cucina.
Nell’attesa desideriamo darvi sempre maggiori informazioni, possibilmente quasi in tempo reale: il web lo richiede, uno strumento ideale per fornire aggiornamenti continui sui ristoranti che tanto ci appassionano.
Le novità, i locali appena aperti. Ma anche news su indirizzi già recensiti da PG.
Per questo abbiamo pensato a Friday Five, la nuova rubrica di Passione Gourmet: alcuni tra i più noti gourmet italiani e stranieri recensiranno 5 ristoranti, vere e proprie breaking news sul mondo gastronomico, flash critici e attuali sulle esperienze quotidiane di “penne d’autore” a noi vicine.
Ma ci sarà spazio anche per i lettori che quotidianamente ci supportano e ci stimolano: inviateci le vostre segnalazioni all’indirizzo fridayfive@passionegourmet.it. Le migliori saranno pubblicate nel “Friday Five”, di cui presentiamo oggi la prima uscita.
Buona lettura!

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Acetosella, chicura e bottarga, caglio fresco di capra, mascarpone, yogurt e cappero, pomodoro, rosa, frutto della passione, melograno, foglia di limone. Sono gli “acidi”. I propulsori di quella sensazione palatale sempre inseguita dagli estimatori delle grandi tavole. Un nirvana da raggiungere per sentirsi arrivati e pronti a tutto. Ma cosa spinge tanti gourmet a ricercare la tanto agognata acidità? Forse non c’è una risposta. Le tonalità e i giochi acidi in un piatto non sono determinanti, né un surplus per valutare meglio la capacità di un cuoco. In casi come questo, tutti gli ingredienti acidi, alcuni grassi, altri vegetali, creano l’armonia perfetta per far rilassare il palato dopo un lungo rincorrersi di gusti forti, tenui, sapidi, dolci e amari. Il tutto nel segno dell’acidità. “È il nostro sorbetto” esclama il maître. Mai concepimento fu più azzeccato.
Nel sottoscala di Via Victor Hugo, complessivamente, si è sempre mangiato bene, nonostante nel corso degli anni il ristorante non sia stato immune da critiche di ogni specie e ricorrenti attacchi mediatici.
Le nostre recenti esperienze ci lasciano in eredità le sensazioni positive di una cucina che viaggia sicura su una traiettoria più felice rispetto al passato, quasi priva di turbolenze. C’è qualche traccia di “prototipi” da perfezionare, ma molti sono i grandi sprazzi di cucina post-avanguardista, alternati alle solide certezze dei grandi classici del tandem Cracco/Baronetto, oramai eseguiti in maniera decisamente perfetta. E questo a dispetto di chi decretava la fine del ristorante Cracco per merito dell’avventura di Masterchef, rivelatasi invero una vera e propria rinascita del ristorante.
Il coefficiente di difficoltà dei piatti gioca sempre sul filo del rasoio gustativo. L’equilibrio è una sfida quotidiana, indice di estrema ricerca ma anche di una dose di rischio assunto che può far oscillare la valutazione di un piatto o di una cena di molto. In queste preparazioni sono fondamentali la qualità, la freschezza della materia prima impiegata e la chirurgica precisione della dosatura degli ingredienti. Qui tutto deve puntare al massimo, e dobbiamo dire tutto sta filando per il meglio da oramai qualche tempo.
Il menù è in pratica firmato da Matteo Baronetto, uno dei giovani più talentuosi e di maggiore esperienza che c’è nel panorama nazionale. Una garanzia su cui Cracco ha investito sin dai tempi di Piobesi d’Alba, garanzia oggi ancor più solida, grazie allo spazio concessogli dal maestro. Cracco però svolge ancora un ruolo chiave nel concepimento dei piatti e la sua mano è più che mai tangibile (non dimentichiamo che parliamo di uno dei precursori della cucina sperimentale in Italia, forse ancor prima dei vari Bottura, Scabin, Lopriore, etc.).
La carta è sempre molto ampia e ai sempreverdi menù degustazione (classico e creativo), ne è stato aggiunto uno, “..in dieci anni”, con una sintesi di tutti i grandi classici del locale dai tempi di Cracco-Peck ad oggi.
Di pari passo con la cucina ci sono cantina e servizio. Su questo argomento, in particolare, bisogna sfatare due luoghi comuni che getterebbero un’ombra sulla qualità complessiva del ristorante: il ricarico sui vini e il servizio di sala.
Circa il primo aspetto, sebbene la carta vini abbia ricarichi importanti, è anche giusto considerare il contesto complessivo logistico e imprenditoriale dove Cracco è ubicato: siamo tra il Duomo e Cordusio, dove i costi di gestione dovrebbero essere più alti rispetto a quelli della periferia o della provincia. Non vanno poi sottovalutati i percorsi al calice, che partono da prezzi abbastanza popolari (38 euro) e nei quali non vengono stappate bottiglie meno preziose di quelle presenti in carta.
Chiosa finale per il servizio di sala, spesso considerato distratto e poco cordiale. Sinceramente abbiamo constatato l’esatto contrario. La squadra coordinata da Francesco Palumbo svolge il proprio compito in maniera egregia, sa quando intrattenere un rapporto più informale con il cliente e, soprattutto, sa ascoltarlo e accontentarlo come meglio non si potrebbe.

Stuzzichini iniziali, golosi ma non banali, alcuni caldi altri freddi

Verdure essiccate al naturale. Il primo cult.

Alghe fritte e cialde di riso soffiato

Eccoci con altri cult: le Cozze ripiene di pomodoro. Con il guscio ricreato in versione edibile, con la pasta fillo al nero di seppia, famose quasi quanto

l’insalata russa caramellata che non ha bisogno di presentazioni. Divertente e originale ma difficile mangiare senza sporcarsi.

Parte il nostro degustazione creativo con il Pane al seitan, rucola e bresaola di agnello

Trippa di baccalà, coniglio e uova di salmone. Un piatto complesso nella ricerca dell’equilibrio. Molto accentuata la sensazione pastoso-grassa complessiva, ma centra l’obiettivo di ricreare il gusto tipico della trippa in umido, con sentori marini.

Insalata di prezzemolo, lingue d’anatra e canestrelli. Primo saggio di bravura nel dosare le sapidità. L’equilibratore gustativo è l’insalata dell’erba aromatica che neutralizza la forte spinta sapida-iodata di lingue e capesante crude.

Gamberi rossi al vapore, nocciole e “infuso” alla camomilla. Un piatto dall’equilibrio precario in cui la materia prima gioca un ruolo fondamentale. Il rischio del gusto coprente conferito dalle nocciole è, di fatti, dietro l’angolo.

Triglie, cavolo cinese, radicchio e bottarga.  Un classico in versione aggiornata che ci aveva deluso in alcune visite dello scorso anno. Analogamente al piatto precedente, la risposta al perchè sta nella materia prima. In questo caso era di gran pregio e di una freschezza tale da farci percepire la profondità del mare accentuata dalla bottarga e, ancora una volta, domata al millimetro dai vegetali.

Salmone marinato e foie gras. Altro saggio di bravura. Due elementi grassi che, alternati, creano una sensazione dolce-sapida, anche grazie alla funzione sgrassante del sidro servito in abbinamento (fondamentale). Abbinamento cibo-vino compiutissimo.

Dalla carta, Risotto con pinoli tostati, pomodoro verde e scampi (crudi). Buono,classico. La presentazione non rende giustizia.

Ravioli di lingua di vitello, cumino e limone. Gusto potente e perfettamente domato dalla sensazione acido speziata di cumino e limone.

Tagliolini d’uovo marinato essiccati, tartufo e salsiccia di vitello. Un classico reinterpretato in versione ludica.

Carciofi allo spiedo e cardi fritti.

“Acidi”. E’ il capolavoro della serata. Servito con

Acqua tonica, per un abbinamento perfetto in tutti i sensi. Davvero bravo il giovane sommelier Alberto Piras.

Vitello impanato alla milanese, zucca, verza e amaretto accompagnata da

Patate morbide fritte con contorni: ketchup, dashi (fantastico), rafano

La Milano “sbagliata” . Omaggio a quelle trattorie che non fanno il lavoro come dovrebbero. Chi vive a Milano sa bene che questo non è solo il classico chliché.

Petto di piccione, cachi, cerfoglio e senape. Sempre presente in carta. Un grande classico.

Latte e miele. Un bell’intermezzo dolce, con il polline a farla da padrone in un gusto che ricorda molto le galatine.

Cannolo di zucchero, olive verdi e martini dry. Anche qui, un divertente gioco acido.

Tiramisù leggero cotto a vapore

Krice

Mandarini essiccati

Piccola pasticceria: madaleine, macaron, gelatina al lampone, tartufino

Frutta essiccata

Mandorle e nocciole

La (notevole) degustazione vini