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Ratanà

Memoria lombarda

Questa ormai celebre insegna nel proscenio della ristorazione nazionale porta il soprannome di Don Giuseppe Gervasini, “el pret de Ratanà” e taumaturgo, che ebbe i suoi natali proprio nel quartiere “Isola” e che curava gli afflitti con l’impiego di erbe medicamentose coltivate nel suo brolo. Dal giorno del suo avvio, nel 2009, il Ratanà dimora al piano terra della sede della Fondazione Riccardo Catella, in un affascinante villa Liberty ove, all’ingresso, si palesa un mirabile bancone realizzato con il marmo del Duomo di Milano recuperato nell’atelier di un artigiano della città. Cesare Battisti, cuoco e anima di questo luogo, dal lontano 2009 persegue l’intento di fare conoscere e apprezzare la sua attività che di lì a poco diviene uno dei punti cardinali degli “ultras” di cucina tradizionale milanese che interpreta, in chiave contemporanea e tocco schietto, i piatti della memoria lombarda con il rigoroso impiego di selezionate materie prime di estrazione stagionale e coadiuvato in sala, dal 2012 a oggi, dalla sommelier Federica Fabi.

Un’osteria moderna

Iniziamo la nostra visita alla tavola di Cesare Battisti “senza pensarci troppo”- come in modo confacentemente suggerito sul menù – con dei classici Mondeghili serviti, in perfetto stile rustico, in un simpatico cono di carta paglia dal cuore umido e morbido connotati da un esotico zing di spezie, accompagnati da un’Insalata russa croccante e casereccia comme il faut, mentre lietamente si rivivifica al palato la raffinata e acidamente guizzante Trota di montagna marinata con finocchietto e arancia, crostini di pane nero e coleslaw. Assaporiamo i Culurgiones farciti di carne di ossobuco con accanto il suo osso e il suo midollo: piatto decisamente interessante per l’intento “fusion” dato da Battisti, che compenetra l’anima di Sardegna della pasta col cuore di ripieno di carne di matrice meneghina, nociuto però dalla impossibile fruizione del midollo in quanto forse non cotto a sufficienza per essere adeguatamente estratto dal suo involucro; segue l’Anguilla in tecia consistente in un filetto di anguilla laccato al balsamico e alloro, col pomodoro proposto in due versioni, sia ristretto sia arrosto, in un corretto esercizio stilistico permeato da contrasti, consistenze e acidità non troppo osée. Terminiamo il pasto con un’esaltante Pera e polline composto da una pera cotta speziata e il suo sorbetto, sbrisolona al polline, cremoso di yogurt e pralinato di nocciole il cui risultato esecutivo ha rasentato, semplicemente, la perfezione.

IL PIATTO MIGLIORE: Pera e polline.

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Il paese, la piazza, la trattoria

Chi è padano di nascita sa bene che, nelle piazze dei tanti paesi, paesini e paeselli (buon esempio dello Strapaese di Mino Maccari e Leo Longanesi) della Pianura, è facile – anzi, è difficile assai il contrario – che si incontri un locale che funge da osteria e trattoria. Insegne ‘storiche’, che quasi sempre risalgono a prima della guerra, e spesso addirittura all’Ottocento, quando ancora l’industrializzazione non aveva sfregiato le terre del Po.

Ebbene, e gli esempi potrebbero essere innumerevoli, in quelle osterie, su quei banconi e a quei tavolini che affacciano sullo slargo cittadino, si sono succedute generazioni e discussioni: la politica e lo sport, l’amore e l’amicizia; la religione e il lavoro. E si sono succeduti pure, di padre in figlio, di madre in figlia, pranzi familiari, feste di ricorrenze comandate, banchetti d’anniversario. Luoghi quindi che, nei propri muri e nei propri storici arredi, custodiscono il vissuto storico e sociale di una terra e dei suoi abitanti, con le loro idee e i loro slanci. E che nelle loro cucine, con altrettanta cura, serbano il ricordo di piatti antichi e di ricette di famiglia.

Non ci si può non emozionare – quindi – quando si varcano le soglie di questi luoghi. Quando si vede che le giovani leve, secondo capacità, indole e inclinazione, raccolgono il testimone di genitori e nonni. Come non ci si può non dolere quando, per i casi della vita, uno di questi baluardi di storia ‘cambia pelle’, o chiude i battenti.

Caffè La Crepa: il passato vivo e presente

Per fortuna, e lungimiranza, più che viva è una di queste insegne: il Caffè La Crepa di Isola Dovarese (CR), della famiglia Malinverno. Adagiato su una magnifica piazza d’impianto gonzaghesco, in quello che secoli fa era il Palazzo della Guardia, questo locale (la cui fondazione risale al 1832) è uno degli esempi più fulgidi di quel ‘vissuto collettivo’ di cui si scriveva sopra. Ma è anche un vivo modello di un modo di intendere la cucina come patrimonio culturale, inscindibile dalla terra circostante e da coloro che l’hanno abitata. In un simile contesto sarebbe riduttivo – quindi – usare il termine di «cucina di tradizione», perché alla Crepa non si propone una banale ‘cucina di tramandamento’, di mera riproposizione. Ma una cucina che, continuamente, attualizza il passato, rendendolo vivo e presente.

Ovvio è che la strada imboccata dai Malinverno non è delle più agevoli. Si deve essere all’erta: il rischio di scivolare verso la banalizzazione e la semplificazione di ‘ciò che è stato’ è sempre in agguato. Come anche si deve evitare quel senso di routine che può portare a disattenzioni e sviste le quali, seppur minime, ‘sfregiano’ piatti che, per poter venire realmente apprezzati nella loro ‘essenza’, non devono essere meno che perfetti.

Del pesce di lago e di altre delizie

Ecco allora che, senza tema di smentita, perfetto si riconferma il “Savaren” (scritto proprio così) di riso con ragù classico e lingua salmistrata, che tanto ricorda un altro savarin, ormai mitico, sino a quattro decenni fa cucinato in un’altra osteria di paese, poco lontano, appena oltre il Po, a Samboseto… Alla Crepa la superficie del chicco è liscia, la cottura da manuale (né troppo, né troppo poco), la mantecatura comme il faut: per un insieme godurioso e profumato che merita l’applauso.

Più di maniera appaiono invece altre proposte, sì centrate in gusti e aromi ma meno memorabili. La Faraona «alla creta» (si legga, a proposito di questo piatto, il passo a lui dedicato nel lunghissimo articolo-intervista a Mirella e Peppino Cantarelli, firmato da Marco Guarnaschelli Gotti, su un fascicolo di «Panorama» del marzo 1983) – per esempio – sconta un eccesso di untuosità. Mentre il trancio di storione – pesce che sino agli anni Cinquanta abitava le acque del Grande fiume, fino a che l’inquinamento, gli sbarramenti e la pesca indiscriminata non lo hanno cancellato dal bacino idrografico padano – appare un po’ troppo impersonale, ‘diviso’ com’è fra il trito di spezie ed erbe aromatiche che lo avvolge e le verdure che lo accompagnano.

Qualche dubbio solleva l’antipasto, il Piatto di pesce all’isolana, non perfetto come meriterebbe di essere. Costruito come una tavolozza sulla quale sono ‘dispiegati’ i pesci delle acque che circondano Isola Dovarese, ognuno in una sua specifica preparazione, propone: luccio in salsa, anguilla marinata, tartare di salmerino, tinca e alborelle in carpione. Sorvolando sul fatto che il salmerino non è pesce di pianura ma esclusivamente di alta quota, lascia perplessi la presentazione. Posti tutti sulla medesima stoviglia, i liquidi dei cinque assaggi fanno presto a mischiarsi fra loro, con il risultato che tutto sa un po’ di marinata e di aceto. Un peccato.

Un’ultima nota la merita la carta dei vini: vasta, spostata decisamente sulla filosofia del naturale e del biodinamico, e assai di ricerca. Una carta così tanto personale che, chi vuol bere ‘convenzionale’ (anche ad alti livelli), fatica a trovare un ventaglio di alternative sufficientemente ampio.

Una riflessione…

Su cos’è – o cosa dovrebbe essere – la trattoria c’è una certa confusione. E spesso l’uso improprio, o quantomeno impreciso, delle parole non fa altro che aumentarla. La trattoria non è un ristorante. E nasce assai prima di quest’ultimo (per motivi storici e sociali ai quali ora non accenniamo), con il preciso compito di essere luogo di ritrovo con cucina (tant’è che i termini osteria e trattoria, fino a non molti decenni fa, potevano essere usati tranquillamente come sinonimi). Alla stufa regnava la donna di casa che proponeva agli avventori pochi piatti di tradizione, preparati secondo le ricette imparate da madri e nonne, codificate nella pratica da una sorta di ‘palato assoluto’ affinato di generazione in generazione. Gli ingredienti erano quelli di stagione e del circondario, e le pietanze erano di sostanza, curate ma senza fronzoli, in porzioni abbondanti e a prezzi modici.

Cosa è rimasto di questo ‘piccolo mondo antico’? E cosa è, ora, invece, la ‘trattoria contemporanea’?

Il crinale da percorrere, per chi vuol essere vero oste e trattore, non è dei più agevoli, tant’è che per gli avventori è più facile individuare una insegna autenticamente gourmet che una insegna autenticamente ‘trattorista’. Perché, per la stragrande maggioranza dei pubblici esercizi che si autoqualificano ‘trattoria’, la semplicità è in realtà sciatteria. Il ‘tradizionalismo’ è folklore. I prodotti sono di scarso valore. Il sapere gastronomico è assente. E il ‘palato assoluto’ è sacrificato sull’altare di porzioni sin troppo abbondanti e di prezzi preoccupantemente bassi.

All’inverso, proprio perché il sentiero è difficile, altri – molti fra coloro che vorrebbero essere ‘trattori di qualità’ – scivolano nell’inverso: nella fake-trattoria. Locali leccatissimi che parodiano una ideal-trattoria che nei fatti non è mai esistita. Qui la semplicità è di parata. Il tradizionalismo è scimmiottatura. I prodotti, seppur di valore, sono slegati dal territorio. Il debole sapere gastronomico è contaminato da accenti fusion fuor di luogo. I piatti, assai esigui in fatto di quantità, sono proposti a prezzi sproporzionalmente alti.

…e un decalogo sull’ontologia della “trattoria

E allora si ritorna alla domanda di partenza: cosa dovrebbe essere oggi una trattoria? Fornire una risposta sintetica e univoca è arduo ma ci sono – ad avviso di chi scrive – alcuni punti che non si possono eludere. Il primo è che la trattoria ha una ‘missione’: divulgare culturalmente il proprio territorio (storia e usanze), custodendone il passato e creando concrete prospettive per il futuro della tradizione. Il secondo è che la trattoria deve essere riconoscibile per identità e proposte.

Il terzo è che la trattoria deve essere vera e autentica, accogliente e conviviale, senza affettazione e forzature. Il quarto è che le ricette, seppur arrivino dal baule della memoria, non sono sacre: vanno riviste e aggiornate alla luce dell’evoluzione del gusto, dell’ispirazione del momento e delle nuove possibilità che la tecnica mette a disposizione dei cuochi. Il quinto è che le materie prime devono essere di qualità, possibilmente ricercate nel territorio, stabilendo un contatto diretto coi produttori, e non acquistate dai grandi distributori dei prodotti d’eccellenza.

Il sesto è che i piatti, nella loro realizzazione, vanno studiati e contestualizzati con estrema attenzione, alla luce di palato, luogo e stagione, sfuggendo routine e manierismi. Il settimo è che l’attenzione ai particolari deve essere massima. L’ottavo è che gli elementi che concorrono alla creazione della pietanza non vanno snaturati o banalizzati ma esaltati nella loro qualità e genuinità. Il nono è che porzioni e prezzi devono essere correlati e ‘giusti’. Il decimo (visti i tempi che corrono) è che tutto deve essere improntato a un approccio ‘etico’, consapevole e rispettoso. Se così, viva le trattorie!

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A pochi chilometri da Milano plin, brace e pizze gourmet

Rognano, di sicuro un posto sconosciuto ai più, nel crocevia tra Milano e Pavia, è un paese piccolo, con una sola realtà ristorativa, ma salda sulle forme “gastro-architettoniche” delle classiche cascine lombarde. Gli elementi ci sono tutti: orto, animali, aia, fienile e pure la famiglia numerosa, i Ricciardella, a lavorare nel ristorante di famiglia Cascina Vittoria. Marco, il più grande dei quattro fratelli, che cura la sala, non nasconde la sua passione per i vini naturali, dove gli amanti della triplice A e non, nella carta dei vini troveranno di che dilettarsi. A ciò si affiancano la passione e la tecnica del fratello Giovanni, chef di appena 26 anni, al cui attivo conta già esperienze di tutto prestigio sotto gli insegnamenti di professionisti del calibro di Oldani e Cannavacciuolo.

Un giovane chef spregiudicato, ma che ama gli ingredienti più genuini

Giovanni Ricciardella, non pago della sola sfida ai fornelli, si cimenta anche nel mondo del lievitato, pane e focaccia, ma soprattutto la pizza. Ecco allora le pizze gourmet, con tanto di menu degustazione dedicato. Pizze da gustare magari precedendo o seguendo un piatto di Plin ai 40 tuorli (rigorosi di cascina), ripieno di midollo, con burro e zafferano, fondendo così tra Piemonte e Lombardia, l’eco dell’esperienza vissuta sul Lago d’Orta.
Nel Risotto zucca, gorgonzola e liquirizia la dolcezza della prima, viene mitigata dalla carica irruenta dell’erborinato scelto volutamente più stagionato, chiudendosi in un allungo piacevolmente sinuoso e non invadente, con la liquirizia: bestia nera (ops!), per alcuni, asso nella manica per altri. Unica pecca, forse, nel piatto la cottura del riso leggermente avanti rispetto “al dente meneghino” o veneto.
Altro argomento: il forno a legna non si riduce al solo lievitato, ecco infatti, arrivare anche tagli di carne, di invidiabile marezzatura, come le lombate di manzo cotte intere grazie al calore delle braci, rivelando lati golosamente ancestrali più che mai attuali.
Nel percorso di degustazione, trova spazio anche un predessert caco, ricotta e crumble al fondente, dove la carica zuccherina del caco in questo caso, troppo bassa per una stagionalità non centrata, insieme all’amaro del cacao, non traghettano in maniera convincente. Di natura, invece, completamente diversa il dessert dove la “Finta” panna cotta, al sifone, interagisce tra l’acido e l’asprezza dei frutti lamponi, con l’amaro del mou, regalando interessanti note, quasi di rabarbaro in questa interpretazione di un classico italiano.

Quello di Cascina Vittoria è un indirizzo ghiotto, tanto quanto la molteplicità dell’offerta proposta, che, tuttavia, rischia di essere compromessa dai tempi di attesa piuttosto lunghi. Di sicuro, la valutazione non ancora espressa in valore numerico, ma simbolica a pieno punteggio, vuole essere da stimolo a questa insegna per il salto di qualità nella dimensione ristorativa a tutto tondo: completa e coerente. Quel salto, di sicuro, non tarderà ad arrivare.

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Un bistrot con cucina d’autore nel caos dei Navigli milanesi

Rebelot in dialetto milanese significa caos, confusione e rende alquanto l’idea dello spiazzamento ( in senso certamente positivo) che potrebbe colpire gli avventori del Bistrot voluto da Maida Mercuri – già fondatrice del vicino Pont De Ferr –  e Alberto Cirla.

Un posto vivace, giovane, dinamico, non banale come lo chef Matteo Monti. Passione da vendere, ottimo talento e curriculum di tutto rispetto con importanti esperienze, tra gli altri, da Paolo Lopriore e Davide Scabin. Difficile definire che luogo sia precisamente il Rebelot. Visto da fuori potrebbe sembrare uno dei tanti ristorantini, spesso senza arte né parte, che affollano il naviglio di Ripa di Porta Ticinese.

Gli interni in legno e mattoni, fitti di bottiglie infondono una piacevole sensazione di calore. I tavoli sono piccoli, la mise en place spartana e su tutto fa bella mostra di sé il bancone bar da cui il bravissimo Nicola Onorato miscela i suoi fantastici cocktail. Si beve bene al Rebelot. Grazie ai drink di Nicola e a una carta dei vini che di scontato e banale non ha nulla. Si beve bene al punto che qui si può venire anche solo per gustare un drink, accompagnandosi con snack o con taglieri di salumi o formaggi davvero ottimi.

Ma al Rebelot c’è anche una cucina davvero interessante. Nella seconda sala, alle spalle del Bar, c’è la piccolissima cucina a vista in cui Matteo Monti con il suo staff, muovendosi alla velocità della luce, prepara quelli che in Carta sono definiti timidamente  “piattini”,  ma che in realtà sono portate in grado di comporre percorsi di degustazione di ottimo livello. E basta poco per comprendere che non siamo nel solito dozzinale  localino da movida dei Navigli, ma siamo al cospetto di un fior di chef.

Qui si beve bene e si mangia meglio

Fantastico il Bollito di cui Monti presenta una versione assolutamente impeccabile e rispettosa della tradizione. Intrigante l’Animella al burro con Topinambur e Panettone, piatto goloso e originale, da rimarcare anche la cottura perfetta della lussuriosa Anatra alla Ticinese.

Una serie di assaggi molto stimolante, una cucina che non annoia mai, una sequenza che non segue necessariamente un filo logico, ma che è capace di recapitare notevoli stimoli al palato, piatti equilibrati, ma ricchi di contrasti di temperature e di consistenze.

Certo, non tutto è perfetto. Al Polpo non ha giovato la temperatura troppo bassa della stracciatella e il brodo Thai, servito in accompagnamento all’eccellente Bollito ci è parso fin troppo scarico. I dessert, poi, nel complesso non ci sono sembrati all’altezza del resto. Ma ci sentiamo di definirli, nel complesso dell’esperienza, dettagli.

La verità è che al Rebelot si beve bene e si mangia meglio. Al punto che abbiamo per un attimo avuto la tentazione di chiedere a Monti cosa volesse fare da grande….ma poi abbiamo desistito.

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