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Buon compleanno Doc Enfer d’Arvier

Un anfiteatro morenico protagonista dal 1312 in Valle d’Aosta

In tutti i settori, economie, imprese – mondo del vino compreso – esistono fattori variabili e fissi, idee e nuove competenze sono necessarie se si desidera migliorare i processi produttivi. In un’altra parola, crescere. Un’anfiteatro di appena dieci ettari vitati – non tutti in produzione – può ragionare come un’azienda? Deve, ogni viticoltore che vi opera è come una business unit, deve funzionare autonomamente e raggiungere un medesimo obiettivo: produrre vini di qualità, riconoscibili dal gusto grazie a un’inusitata originalità. Potrebbe apparire un atteggiamento protervo – quello del consigliare ad altri le azioni da compiere – ma è quanto successo lo scorso 6 agosto ad Arvier (Aosta), in occasione del compleanno della piccola e seconda Doc Vallée d’Aoste Enfer d’Arvier.

Nata nel 1972, è arrivata a spegnere le sue prime cinquanta candeline. Un convegno celebrativo ha messo in luce i punti di forza e di debolezza di un anfiteatro morenico che vede il petit rouge l’uva principale, il disciplinare impone l’impiego almeno dell’85% nell’uvaggio assieme ad altre varietà indigene valdostane sebbene vi sia chi lo vinifica in purezza, chi sfrutta il pinot nero e chi pensa al nebbiolo per ultimare il gap. Ogni intervento ha messo in luce la storicità dell’Enfer d’Arvier, le prime tracce che attestano la produzione enoica risalgono infatti al 1312, Rodolphus de Avisio possedeva alcuni vigneti in quella che è nell’attuale zona dell’Enfer. Quasi due secoli dopo, nel 1494, Giorgio di Challant accoglie il Re di Francia, Carlo VIII, che assapora “un gioiello dell’enologia alpina”.

L’Enfer d’Arvier come fonte di sostentamento

Un vino che – come accade per molte altre zone vitate italiane – rappresenta la più importante fonte di sostentamento economico della comunità, in questo caso già durante l’ascesa dell’impero di Napoleone e la Rivoluzione francese;  avvicinandoci ai giorni nostri, dopo la crisi fillosserica, nel 1910 pochi nostalgici mantengono la produzione dell’Enfer, dopo i conflitti mondiali la ferrovia, l’industria e il progresso avranno la meglio sui vigneti terrazzati, costruiti dagli uomini per supportare la vite e per consentire un lavoro che necessariamente è manuale. Bisognerà aspettare gli anni Sessanta e la costituzione del Consorzio di miglioramento fondiario per ripristinare un’attività che si svolge in terreni con una pendenza di 20 gradi! Nel 1976, vengono piantate 22.000 barbatelle, la cooperativa Co-Enfer vinificherà la prime uve dopo due anni.

Il lavoro degli attuali oltre 100 conferitori, famiglie, impegnati nella coltivazione delle piante destinate alla produzione della Doc Enfer d’Arvier, si inserisce di diritto tra le produzioni “eroiche”, come tutti gli altri “vini di montagna” che si realizzano non troppo distanti dalla Vallée, come il Carema, i rossi della Valtellina o i vini della Val Camonica. E, a guardare gli effetti del cambiamento climatico, l’essere a quasi 800 metri s.l.m., per chi produce Enfer d’Arvier, è sicuramente un vantaggio. I suoli sono di origine morenica, pietrosi e dotati di una buona percentuale di sabbia ma la vallata è soprannominata enfer – presumibilmente da “inferno” – per il caldo che si sprigiona nell’anfiteatro e anche – viene da pensare – per lo sfiancante, infernale, lavoro. Ebbene, il petit rouge trova qui la sua dimora ideale: cultivar incostante dal punto di vista produttivo, poco colorata e dal ciclo vegetativo piuttosto lungo, ad Arvier matura tra fine ottobre e inizio novembre.

Oggi coltivata con cordone speronato e gujot in terrazzamenti che, osservandoli dal paese, rappresentano una componente strutturale del paesaggio, un elemento di un patrimonio culturale e naturale da preservare e tutelare, profili storici e qualitativi di un’intera collettività e dello sviluppo economico della stessa. L’agricoltura deve essere allora una priorità, “svolge una pluralità di funzioni: dal mantenimento dell’assetto idrogeologico sino al mantenimento della biodiversità” – ha dichiarato Marco De Vecchi, Professore dell’Università degli Studi di Torino presso il Dipartimento del Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari. Dinnanzi un mercato che accoglie e ripaga questa tipologia di produzioni di nicchia e virtuose, non si può restare stagnanti, e lo stanno capendo anche i viticultori di  questa parte di Valle d’Aosta, le potenzialità di crescita della Doc devono trasmutare in una maggiore consapevolezza del valore del proprio passato e una maggiore fiducia nei confronti del suolo, per proiettarsi nel futuro. 

Un futuro per l’Enfer d’Arvier

Ultimato il convegno, resta l’impegno di dare via a una programmazione di eventi di promozione fuori dai confini regionali, degustazioni comparate e dibattiti in altri contesti e fieri del settore; è tempo di uscire dalla vallata e di confrontarsi con altri territori, con un mercato più grande e variegato rispetto a quello valdostano sebbene non via sia (oggi) una sufficiente produzione e massa critica in grado di supportare una potenziale crescita di domanda. Ma se non altro ad accrescere sarà la cultura, nuovi desideri d’acquisto, possibilità di intercettare nuovi turismi da conquistare sino a invogliarli a visitare la piccola ma ricca regione della Valle d’Aosta.

Sono solo quattro i player della Doc Enfer d’Arvier, di cui uno giovanissimo: CoEnfer, Thomain, Vin des Loups e La Toula, che danno vita vini diversi tra loro ma accomunati tutti da una sensazione fruttata e speziata, buona ampiezza, succosità e persistenza, che racchiude aromi di spezie, di sottobosco e di fragranze dolci. Una piacevole esperienza.

Storie di produttori: Terra dei Re

Nessuna poesia scritta da bevitori di acqua può piacere o vivere a lungo. Da quando Bacco ha arruolato poeti tra i suoi Satiri e Fauni le dolci Muse san sempre di vino al mattino
– Quinto Orazio Flacco

Così sentenziava uno degli autori più celebri della letteratura latina nella sua “Ars Vivendi”, conosciuto ancora oggi per il suo famoso “carpe diem” e per la tematica della fugacità del tempo. Nato a Venosa nel lontano 65 a.C, cittadina ancora oggi appartenente all’odierna Basilicata, si può presumere che questo padre del bien vivre parlando di vino si riferisse a quello che era, ed è tutt’ora, il vitigno principe del territorio: l’Aglianico del Vulture.

Questo antico vitigno di provenienza greca ha infatti trovato alle pendici del Monte Vulture, vulcano ormai inattivo, le condizioni pedo-climatiche ottimali per dare il meglio di sé, come testimonia la sua coltivazione ormai millenaria. A portarne alto il nome dal 2000 è l’azienda Terra dei Re, fondata dalle famiglie Leone e Rabasco nel cuore della denominazione, a Rionero in Vulture (PZ). Un’azienda incastonata tra boschi di castagni e di conifere, dove la parola sostenibilità assume una dimensione concreta grazie ai numerosi impegni intrapresi in questo senso e attestati dal certificato “Friend of the Earth”. Grazie alla fortunata collocazione alle spalle dei Laghi di Monticchio, che generano una brezza gentile e costante, grazie all’altitudine fino a 800 m.s.l.m e al terreno di origine vulcanica, drenante e ricco di minerali, la conduzione in vigna è orientata alla naturalità, senza bisogno di sistemi di irrigazione ed esercitata attraverso un’agricoltura di precisione.

Vini sostenibili

Il risultato sono vini sostenibili, a basso impatto ambientale, che portano integro l’inconfondibile timbro donato loro da questo nobile territorio. Un territorio volutamente tradotto nel calice, che nel tempo si è conquistato numerosi riconoscimenti tra la critica di settore. Merito anche della collaborazione dal 2018 con un enologo del calibro di Riccardo Cotarella, in grado di domare le asperità di un tannino che per molti produttori del posto resta un grattacapo non di poco conto. Merito della squadra che compone questa azienda e al lavoro che svolge con passione e sacrificio, per esempio vendemmiando durante la notte le uve destinate alla produzione di “Nocte”, in modo tale da sfruttare l’escursione termica e portare in cantina uve al culmine della pienezza aromatica.

Così vedono la luce Nocte e Divinus, i due vini da Aglianico del Vulture in purezza che incantano per precisione ed eleganza, possenza e piacevolezza. Un turbinio di frutti rossi e speziature, sottobosco e richiami balsamici, sapidità e freschezza. Non stupisce, insomma, che Orazio possa essersene sentito ispirato e abbia deciso di dedicare all’Aglianico del Vulture i suoi versi immortali.

*I vini dell’azienda Terra dei Re sono distribuiti da Partesa.

In equilibrio tra tecniche antiche e progresso, con dedizione certosina

Dell’azienda agricola Podere Forte abbiamo già detto e scritto svariate volte. Tuttavia, ogni volta che si presenta l’occasione per approfondirne la conoscenza, emergono dettagli che ci sorprendono e ce ne fanno innamorare un po’ di più. È ciò che è successo lo scorso mese, in occasione di una degustazione dei prodotti di Podere Forte ospitata in un tempio dell’enogastronomia lombarda, l’enoteca “da 8tto” a Senago.

Cercherò di non ripetere quanto già stato detto dai miei illustri predecessori, Alberto Cauzzi, qui, e Orazio Vagnozzi, qui e qui. Basti sapere che l’azienda agricola in questione, situata in quell’idilliaco scenario che è la Val d’Orcia, si configura come un’antica cortes romana: 500 ettari di terreno incontaminato, asservito alla produzione di vino, olio, cereali e allo scorrazzamento dei capi di Cinta Senese, che qui razzolano felicemente prima di essere affinati da quel mago del salume che è Massimo Spigaroli. Il tutto condotto all’insegna della naturalità e della tecnologia. Come ama dire il patron, Pasquale Forte: “lavoriamo i campi come duemila anni fa e in cantina siamo duecento anni avanti”. Ed è proprio questa massima che oggi andrò ad analizzare, perché quello che a una distratta lettura può sembrare un claim commerciale, nasconde in realtà l’universo che rende INCREDIBILE questa azienda.

Lavoriamo i campi come duemila anni fa

Fin qui tutto chiaro. Come si diceva Podere Forte è una fattoria polivalente, “dove uomo, piante e animali contribuiscono a realizzare un macrocosmo integrato, autosufficiente e sostenibile.
Un esempio concreto è dato dalla presenza di venti splendide vacche di razza chianina. Vacche da latte? Ovviamente no, ma nemmeno da carne. Si potrebbero definire “vacche da letame” dal momento che sono allevate su questo suolo incontaminato, e nutrite con i suoi meravigliosi prodotti, al solo fine di ottenere “ottimo compost”.

La biodinamica è la tecnica agricola privilegiata, dunque i prodotti di sintesi chimica sono banditi, si fa uso di corno letame e calendari lunari, ma, soprattutto, si sta in campo. Ad esempio per curare le barbatelle, che una volta impiantate sono innaffiate con un imbuto di rame una ad una, con un dispendio in termini di tempo davvero imponente.  Questo è il senso più intimo della biodinamica: il tempo speso a contatto con la terra per poter reagire prontamente a qualunque problematica insorga. L’idea è che l’energia vitale che in questo modo scaturisce da vitati, oliveti, boschi e allevamenti, si traduca nel sapore autentico dei prodotti, dando vita a prodotti genuini e vini in grado di esprimere compiutamente il terroir.

In cantina siamo duecento anni avanti

Un approccio saldamente ancorato alla naturalezza che, tuttavia, viene portato avanti con metodo scientifico certosino, attingendo a piene mani dal progresso. I terreni che compongono i 24 ettari vitati, ad esempio, sono stati studiati e “zonizzati” da Lidia e Claude Bourguignon, due ingegneri del suolo assoldati da produttori del calibro del Domaine de la Romanée-Conti e Château d’Yquem. I “Gran Cru” dell’azienda sono delineati da quei terreni dove il calco-scisto affiora già a 30 cm di profondità e lavorati soltanto attraverso l’uso di cavalli e trattori in alluminio e fibra di carbonio appositamente creati, che esercitano sul terreno una pressione inferiore a quella di un piede. Ma è in cantina, cuore dell’azienda Podere Forte, che regna la tecnologia più avanzata.

Ogni filare viene sottoposto ad almeno due vendemmie, tre nel caso dei Cru, per arrivare in cantina in un perfetto stato di maturazione e procedere a vinificazioni separate lungo l’intero processo. Qui i grappoli vengono sottoposti a vinificazione dopo essere passati sui tavoli di selezione e attraverso una diraspatrice alla quale giungono in atmosfera inerte. Il selettore ottico scarta gli acini che nutriranno le Cinte Senesi, quindi si prosegue per caduta fino ai tini troncoconici nei quali avviene una pre-fermentazione a freddo. Ogni processo della cantina, in effetti, avviene per caduta. Il passaggio successivo è la pressatura podolica, che evita una rottura eccessiva degli acini, limitando così l’estrazione dura. Quindi la fermentazione, l’uso sapiente di botte grande e barrique di Taransaud, congegnate appositamente per l’azienda, affinamenti che vanno dai 12 ai 24 mesi e l’assemblaggio dei numerosi vini base secondo la sensibilità del cantiniere.

I vini

Il risultato sono vini che sorprendono per pulizia ed eleganza, di una piacevolezza rara. Discorso che vale per tutti, ma che tocca vertici inesplorati nel caso dei due vitigni principi dell’azienda: il Sangiovese e il Cabernet Franc.

Il Sangiovese

Espresso in purezza nel Petruccino, nel Petrucci Anfiteatro e nel Petrucci Melo, il vitigno si presenta in una veste inedita, estremamente fine e beverina. Nessun eccesso selvatico al quale questa bacca spesso soggiace, mentre tutte le sue virtù sono esaltate al meglio. Grande struttura, un’acidità rinfrescante e mai astringente, tannini ben presenti ma di seta, una splendida rotondità data dal legno perfettamente integrato.

L’Anfiteatro 2016 si potrebbe dire più immediato, con sentori di amarena, scorza d’arancia rossa, pepe nero, erbe balsamiche e lievi note carnacee assolutamente gradevoli. Equilibrato, intenso, ampio: un vino che invoglia, più e più volte, all’assaggio.

Il Melo 2016 presenta note più scure, di more e mirtilli, una mineralità più accentuata tradotta nella pietra focaia e in generale un naso più sottile e austero. Il tutto si ritrova fedelmente al palato, che rivela un vino da scoprire lentamente, dalla incredibile capacità di invecchiamento.

Il Cabernet Franc

Colta l’incredibile attitudine di Vigna Orniello, che dava risultati eccezionali, dal 2016 si è deciso di abbandonare il blend di Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, per produrre il primo Cabernet in purezza. Un lavoro difficile, perché con questo vitigno pare di essere sempre sul filo del rasoio: se è verde è destinato a restare tale per poi tendere alla grassezza, ma se è portato a giusta maturazione può dare risultati incredibili.

Nasce così il Guardiavigna 2016, un vino profondo e complesso, di grandissima piacevolezza. Il naso unisce la rosa rossa al peperone crusco, il pepe bianco e le noci al cacao amaro. Al palato è gradevolmente salino, avvolgente, di grande eleganza. Uno dei più alti esempi di Cabernet Franc in purezza.

Tradizione e autenticità

Nella fotografia come nella pratica enologica la luce è uno dei fondamenti della buona riuscita di uno scatto o di un vino. La luce, infatti, che tange un soggetto o, nel nostro caso, i 9 ettari di viti ad alberello, partecipa a delineare uno specifico istante. Un istante che per il vino contempla come protagonista la vite, il suolo e l’uomo: in una parola, il terroir. L’uno imprescindibile dall’altro, l’uno che dialoga con l’altro in una “fotografia del territorio”. Luca Attanasio racconta così i propri vini, in un’adesione totale al territorio da cui provengono, dove la mano del produttore interviene il meno possibile per garantire all’uva di farsi soggetto e fondamento di una storia di passione per il vino.

Luca Attanasio e il Primitivo di Manduria

L’azienda, nata sei anni fa, vede come unico e solo protagonista Attanasio, che della sua ha una tradizione di viticoltura tramandatagli dal padre con cui condivide la cura e l’attenzione riservata ad una terra, quella del Salento, votata al Primitivo di Manduria.

Questo vitigno autoctono, pugliese per eccellenza, trova terreno fertile e ottima esposizione solare tra Sava e Manduria, nell’Alto Salento. La sua massima espressione si ottiene proprio grazie alla vicinanza al mare, al suolo calcareo ferruginoso e al calore delle giornate pugliesi, restituendo grappoli ben maturi e un mosto molto ricco di zuccheri, che garantirà vini corposi e strutturati. Le uve, raccolte a mano, si trasformano in vini rossi e rosati che raccontano di una tradizione mai sopita e che vede al centro una vinificazione naturale, senza aggiunta di lieviti o altri coadiuvanti. Vini quasi ad enologia zero, per preservare l’autenticità di un prodotto prezioso e identitario.

L’impegno nella conservazione di scorci di paesaggio rurale parte dalla vigna, da quelle viti ad alberello che richiedono d’essere lavorate ancora manualmente, garantendo nelle rese ridotte una qualità superiore. Luca esprime la sua passione per il territorio in nome di un Primitivo di Manduria che coglie nelle varie sfaccettature: il Primitivo Salento IGP “Dodecapolis”, il Primitivo di Manduria DOP “Librante” – affinato 12 mesi in barrique di rovere francese – i due Primitivo vinificati in rosato: Primitivo Rosato Salento IGP e il Settepunti, ottenuto dalla vinificazione dei racemi e, infine, “Fioremio”, il vino dolce Puglia IGP Primitivo Rosso.

Il lavoro di Attanasio parte prima di tutto dal conservare le potenzialità e le specificità di una terra, con uno sguardo al futuro, nella costante ricerca della sostenibilità ambientale: dalle pratiche agronomiche svolte in vigna fino alla vinificazione.

Come in un ritratto chiaroscurale, ciascuno dei vini de Le Vigne di Luca Attanasio racconta di una filiera corta, dalla vite alla cantina, che ricorda i vini di una volta: vini in cui la luce della Puglia risplende in un’istantanea di autenticità.

Tra la neve e la spiaggia, la vite

Strette tra il Mare Adriatico a est e il Gran Sasso a ovest, le colline teramane si profilano come un luogo di contrasti. Ancora poco battute dal turismo massivo, queste terre offrono quei sapori d’antan che altrove si sono persi, permettendo al visitatore di immergersi tra prodotti genuini ed esperienze autentiche. Uno scenario ideale per la coltivazione della vite, come si è avuto modo di appurare in occasione dell’anteprima organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Colline Teramane Docg, che dal 2003 promuove la denominazione che si estende lungo 172 ettari sparsi tra mare e montagna.

Ci troviamo nella parte più settentrionale dell’Abruzzo, al confine con le Marche, su un territorio prevalentemente collinare che scivola verso il mare, dominato ai suoi antipodi dagli imponenti rilievi del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Mare e montagna, neve e sabbia dorata, tutto in un solo luogo. Il clima è temperato, con piacevoli brezze provenienti dai monti e dal mare, che donano sollievo nelle giornate più assolate e un’escursione termica che la sera ritempra l’animo.

Condizioni queste, che permettono al Montepulciano di crescere vigoroso e in salute, accumulando nei grappoli tutte quelle sostanze aromatiche che si tradurranno poi in un ottimo vino. Il comune denominatore del “Colline Teramane Montepulciano d’Abruzzo Docg” è infatti l’eleganza. La vicinanza al mare, l’altitudine, la particolare matrice del sottosuolo, danno poi vita a un ventaglio di infinite sfumature gusto-olfattive che sono tuttavia accomunate da una grande, comune, piacevolezza. Un dato evidente soprattutto nelle ultime annate, nelle quali i produttori hanno via via abbandonato la strada della concentrazione del frutto, in favore di vini più fini e sottili, registrando un netto cambio di stile rispetto al passato.

Nel calice fanno così la loro comparsa vini estremamente vitali e tesi, dove il caratteristico piccolo frutto è croccante e l’apporto del legno non appesantisce in alcun modo il nettare, bensì ne rende vellutati i tannini e ne accresce gli aromi con le sue delicate note terziarie.

Alcuni dei nostri migliori assaggi

In occasione de “La nostra anteprima 2022” è stato dunque possibile approfondire la conoscenza di questa piccola denominazione, che conta meno di vent’anni di storia. Trentanove le etichette proposte in degustazione, suddivise tra le tipologie “Giovane” e “Riserva”.

Colline Teramane Docg “Yang” 2020 – Barba

All’aspetto si presenta di un colore rosso rubino piuttosto scarico, dotato di una splendida luce. Al naso si intrecciano viole, visciole e mirtilli croccanti, mentre al palato si nota un tannino deciso molto ben integrato, accompagnato da una bella freschezza. Un vino molto pulito ed equilibrato.

Colline Teramane Docg “Colle Sale” 2019 – Barone di Valforte

Al naso si presenta piuttosto complesso, con note di ciliegia e mora di rovo, rosa, il tocco balsamico dell’anice e le calde note della macchia mediterranea. Al palato è intenso, largo e avvolgente, ben riequilibrato da sapidità e freschezza.

Colline Teramane Docg “Antares” 2019 – San Lorenzo

Di primo impatto spiccano le note terziarie: amarena, dattero, vaniglia, liquirizia, cioccolato… è un naso dolce, carico, che però al palato unisce il tutto con eleganza, aprendosi morbido e chiudendo con maggior freschezza e vivacità.

Colline Teramane Docg Riserva “Castellum Vetus” 2017 – Centorame

Anche qui un colore rosso rubino molto luminoso, che al naso propone note croccanti di marasca e sottobosco, con un delicato richiamo al pellame ben dosato. Il sorso è teso e vivace, con tannini ben integrati, buona freschezza e ravvivato da una bella sapidità.

Colline Teramane Docg Riserva “Terra Bruna” 2017 – Podere Colle San Massimo

Un vino complesso ed elegante, con note scure di frutti di bosco, violetta e pellame, arancia sanguinella e macchia mediterranea. Il sorso è estremamente pulito e succoso, impreziosito da una marcata sapidità.

Colline Teramane Docg Riserva “Torre Migliori” 2015 – Cerulli Spinozzi

Un vino sottile, elegante, che gioca con le sfumature vermiglie sprigionando aromi di ribes e lampone, rose rosse e pepe rosa. Al palato è agile, davvero in forma per la sua età, con tutte le componenti in perfetto equilibrio.