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MoS

Volontà e rettitudine di due giovani sul Garda

Questo MoS è una scommessa già in parte vinta di Stefano Zanini, il cuoco, e il restaurant manager Mattia Moro. 51 anni in 2, giovanissimi, ma con alle spalle già importanti esperienze francesi e italiane. Apertura a maggio 2021 ma con già tutte le carte in regola per fare davvero bene. Stefano ha già una mano sicura, suadente e con un solido repertorio di fondamentali che si percepiscono nel sapiente intreccio tra fondi da manuale e cotture perfette, senza una sbavatura in tal senso.

Anche i gusti sono quasi tutti a punto, centrati e ben amalgamati. Forse occorre un filo di puntualità gustativa sugli amuse bouche. E quel tortello di zucca, interessantissimo, lievemente sbagliato nelle proporzioni, troppo grande, e le lumache, che richiamano filologicamente la preparazione à la bourguignonne, in cui la terra, pleonastica e a tratti disturbante, appare innecessaria considerato il richiamo filologico alla ricetta originale.

Immenso il germano, intenso, e ottimo il pesce di lago/acqua dolce nelle due declinazioni e cotture. Il cardoncello con il burro à la maître de hotel è poi semplicemente fantastico, così come la tarte-tatin, con la sua deriva dolciastro-amara donata dalla brunitura.

Insomma, sistemato il locale e reso più contemporaneo l’arredo – oggi è in stile anni ’70, davvero âgée – e accordati alcuni punti in cucina avremo sicuramente tanto da assorbire da questo fantastico, e giovanissimo, duo di grande talento. Non esitate già oggi a varcare la soglia di questa interessante e frizzante novità. La valutazione, per ora arrotondata molto per difetto, è auspicio di traguardi ben più importanti e significativi.

MoS sta per Mattia e Stefano, le loro iniziali, congiunte dalla o in mezzo a richiamare il termine latino mos, che sta per “moralità”, “comportamento”, “volontà”, “rettitudine”. Tutti termini peraltro validi in questo incantevole luogo contemporaneo.

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Ci eravamo lasciati con la mela e, con l’avvicinarsi dell’inverno, non si può non parlare di agrumi, in cui spicca l’arancia. Ci ispiriamo alle rotte dei grandi esploratori in questo nostro breve viaggio che abbraccerà dunque i mari e le vie della seta. L’arancia come frutto medioevale, si potrebbe dire. Ed è proprio così che iniziamo la nostra storia gourmet. 

Un frutto prezioso

E si può dire anche attraente, da un lato per il profumo che emana, e che si spruzza sul bordo del bicchiere di un drink, e dall’altra può diventare parte integrante dello stesso, quando uno spicchio d’arancia diventa, se usato tal quale, più di un semplice garnish.

Un agrume che, oltre alla sua principale caratteristica di essere ricco in vitamina C, è probabilmente arrivato dalla Cina, poi importato in Europa, sebbene vi siano testimonianze antecedenti di una presenza di coltivazione in Sicilia, la regione con la più grande superficie in Italia e in cui la coltivazione della frutta ha pochi rivali.

Resta poi il fatto che la conca del palermitano sia sempre stata un modello produttivo di questo frutto, che dopo il Medioevo ha visto una coltivazione estendersi anche al Nord, nella zona del Garda e di Nizza Monferrato. Ed è propio da quest’ultimo paese, oggi patria della Barbera, che l’arancia arriva anche a Ivrea, dove le arance sono “esotiche”, il colore richiama il sangue, e non deve stupire allora se diventa il simbolo di una battaglia, “la battaglia delle arance di Ivrea” che, dal secondo dopo guerra, è diventata una manifestazione che richiama una mole di turisti negli ultimi tre giorni del Carnevale, in scena sempre e solo di pomeriggio. Una festa che prende piede in rappresentanza di quelle storiche rivoluzioni del passato e delle guerre che flagellarono la città, nonché un motivo di libertà, quella della mugnaia, che si ispira a una leggenda che vede protagonista Violetta – figlia appunto del mugnaio della città – che, vedendosi costretta a concedersi al Signore-Tiranno dopo la sua rivendicazione della legge ius primae noctis, riesce però a farlo ubriacare e ucciderlo, dando così inizio – come riportato nel testo della Canzone del Carnevale – alla liberazione dalla tirannia.

L’importanza dell’analisi visiva

Un frutto che assume, così, tutto un altro sapore e significato. Ma se volessimo indagarne le caratteristiche meno simboliche, analizziamolo a partire dalla buccia. È lì che risiede il suo segreto, la sua maturazione e dolcezza.

Questa non deve mai essere lucida bensì opaca, deve essere edibile, e tale precisazione deve essere ben in evidenza al momento d’acquisto. Oggigiorno, infatti, ne troviamo numerose, d’importazione dalla Nuova Zelanda e dall’Africa e, considerate le giuste norme europee, i trattamenti alle stesse, benché necessari, inficiano l’edibilità della buccia. La filiera, insomma, è un punto cardine per il consumo di questo frutto che per essere 100% edibile non deve aver subito alcuno trattamento dopo la raccolta.

Ci tiene a precisarlo Sergio Fessia, di Ortobra Gourmet,  che continua ad accompagnarci in questo nostro percorso all’insegna della frutta e delle verdure che campeggiano sulle nostre tavole. Quanto ai consumi, l’arancia è principalmente lavorata, la troviamo per lo più come succo o in spremuta. Siamo noi, nel Mediterraneo, a consumarla in purezza, prediligendo quelle con la polpa rossa, dove spiccano le varietà tarocco, moro e navel (ombelico, in inglese, che si riconosce proprio per un piccolo foro sul fondo), varietà che riscuote successi e ottiene consensi in modo incondizionato anche per la sua attitudine ad essere ben accolta in ogni tipologia di terreno.

Immaginiamo, ora, di essere al mercato o al supermercato, vi sveliamo un piccolo segreto per scoprire, dall’esterno, se l’arancia è matura: osservatela, guardate quanto è liscia più che ruvida. Nel primo caso, avrete un livello di maturazione migliore.

Ma la maturazione dipende anche dal luogo di origine e dal suo ciclo vegetativo: sull’Etna, le importanti escursioni termiche agevolano senza dubbio la maturazione, mentre il calore della Basilicata, della Puglia e della Calabria fan sì che questa pianta restituisca frutti di dolcezza e gradevolezze diverse. E, come accade sempre in natura, il numero di frutti sulla pianta concorrono, e non di poco, all’ottenimento di una maturazione differente: meno frutti equivale quasi sempre più ricchezza. E lo spessore della buccia? Quelle del catanese sono più fini mentre se si sale di quota lo spessore aumenta, come a determinare una sorta di protezione dalle temperature più rigide. L’arancia è dunque anche “intelligente”.

L’arancia in cucina

«Con l’arancia si possono fare cose incredibili» – dice Fessia – basti pensare alle arance candite, ottima chiusura dei pasti di questo imminente Natale. Ma non solo, nelle cucine fine dining che visitiamo inciampiamo spesso in piatti in cui questo agrume diventa una sorta di driver all’acidità del piatto, o di una sensazione più amara. 

Una ventata di freschezza a Milazzo

Da cuoco a imprenditore il passo è tanto breve quanto rischioso. Senza aggiungere i mal di pancia della pandemia e dell’impatto della stessa sul nostro imminente futuro, gestire un ristorante di qualità, oggigiorno, non è impresa ardua, ma molto di più. Se a questo piccolo dettaglio, poi, si aggiunge quale ulteriore fattore quello di un substrato gastro(eco)nomico non proprio propenso a cambiamenti epocali, ogni nuova idea, insieme all’audacia e al coraggio, può portare al successo concretizzandosi come un sogno a occhi aperti.

Milazzo è una città importante, non soltanto per la sua strategica ubicazione (i traghetti per le Eolie salpano quasi tutti da qui), ma anche per una serie di posti a una manciata di chilometri dal centro città che possono vantare uno dei mari più belli della Sicilia. La cucina gourmet, tuttavia, si è affacciata soltanto da poco tempo su queste latitudini, ottenendo un inaspettato successo.

Sapori mediterranei netti e riconoscibili che esaltano un’ottima materia prima

Tra le caparbie imprese di cervelli e muscoli delle nuove generazioni c’è il Balìce, bellissimo ristorante nato due anni fa, con una location centrale, un’ariosa sala con vista cucina e bar annesso, in cui una giovanissima brigata di cucina, guidata da Giacomo Caravello – trascorsi importanti al Signum della vicina Salina, dove il giovane cuoco si è formato – si cimenta con materie prime locali, prevalentemente ittiche, di grande varietà e qualità elaborando piatti moderni che, senza troppi fronzoli, colpiscono dritto alla pancia e al cuore dei commensali grazie a sapori mediterranei ben definiti che esaltano, in primis, l’ottimo pescato locale.

La tavola del Balìce è stata una bella sorpresa, rivelatasi al contempo piacevole e appagante con alcuni piatti che svettano per audacia e tecnica (su tutti le eccellenti sarde arrosto al salmoriglio con barbabietole e bagnacauda all’aglio nero, i “tagliolini Balìce” – una tipica preparazione messinese che si riferisce al “pesantone”, una piccola palamita, curata sotto sale – con burro affumicato e limone e la triglia con caponata e la sua lisca fritta, da applausi), e altri che racchiudono una visione delle ricette marinare più tradizionali coerentemente al passo coi tempi. Tanto gomito e padella e uso importante di brace sui carboni ma, su tutto, materia prima selezionata con rigore che privilegia il pesce azzurro esaltandone al meglio le sue qualità.

Il servizio di sala, dinamico e giovanissimo anch’esso, capitanato da Manuela Caravello, sorella di Giacomo, è in grado di non perdere colpi anche con il pienone. Cantina interessante che presenta una buona selezione di etichette dell’Isola, dal moderato ricarico e sempre in evoluzione, affiancata da una ormai immancabile selezione di cocktail.

Intelligenza, bravura e impegno, ripagati da un incoraggiante riscontro di pubblico (durante la nostra cena, in un martedì qualunque di agosto il ristorante era pieno) che ha riconosciuto in questa tavola grande qualità. E noi, amanti del buono e della qualità, non possiamo che augurare il meglio a progetti dinamici e giovani come quello di Balìce.

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La nuova frontiera della cucina vegetariana

Nella bellissima dimensione naturale e paesaggistica del Therasia Resort, una delle strutture alberghiera più belle, se non la più bella in assoluto, delle isole Eolie, va in scena la cucina, vegetariana, di Davide Guidara. Davide, alla giovane età di 21 anni, reduce da esperienze in vari ristoranti stellati della scena campana, poi passato dalle cucine di Bras e di Redzepi, era atterrato in terra siciliana per prendere le redini della cucina di una struttura alberghiera in quel di Milazzo. È poi approdato a Catania, sempre all’interno di una struttura alberghiera, aprendo SUM; il Covid ha bloccato quella esperienza e ora, da pochi mesi, è finalmente arrivato in una dimensione ricettiva che gli permette di esprimersi, con grande serenità e maturità, al meglio: I Tenerumi.

La sfida, peraltro, non era facile, dato che, per differenziarsi dall’altra formula, Il Cappero, il ristorante I Tenerumi sceglie una linea di cucina esclusivamente vegetariana, con tutte le limitazioni del caso. Davide, riconosciuto, giustamente, come uno dei giovani più talentuosi della scena italiana, da anni studia e fa ricerche approfondite in collaborazione con università, sulle tecniche di conservazione, fermentazione, macerazione, ossidazione, alla ricerca del “Sacro Graal dell’umami”. La nuova frontiera sulla quale sta continuamente lavorando prevede di andare in profondità, per estrarre l’essenza dal vegetale, rigorosamente autoctono, espandendola alla massima potenza, evidenziandone varie sfaccettature e sfumature.

Si parla tanto in questo periodo, della frollatura del pesce dopo che per anni si è parlato di quella della carne: qui, ora, si può iniziare a parlare di “frollatura vegetale”. La logica è quella di enfatizzare le diversità di sapore e di consistenze che derivano da tecniche miste di conservazione, macerazione, fermentazione e poi cottura, per la massima valorizzazione della materia prima. Di pari passo va, ovviamente, anche la logica della scarto zero, utilizzando al 100% il vegetale.

Il giardino dell’umami

Come dicevamo, da anni, lo chef coltiva il giardino della sua mente e del suo palato e, qui a I Tenerumi, non poteva trovare un giardino più bello nel quale stare e sperimentare. Il suo menù degustazione, offerto come unica formula possibile, è concepito come una vera esperienza, a partire dalla location, che non può che emozionare e, a seguire, dalla concettualità del percorso, con un pairing intrigante cibo e bevande che esclude, volutamente, la parte enologica.

Il percorso prevede dodici portate ed è integrato da una batteria interessante di amuse bouche e da una formula particolare di piccola pasticceria finale. Si ritrovano piatti già presenti nelle esperienze passate che, in una logica di perenne miglioramento, hanno raggiunto livelli davvero da fondo scala: parliamo del fagiolo cosaruciaro con uno strepitoso miso al pistacchio, così come lenticchie e alghe, con miso di lenticchie, alghe Wakame al sesamo e alga nori, per un tocco di Oriente.

Il concetto di “frollatura” lo troviamo esplicitamente dichiarato nel “radicchio 7 giorni“, cotto nel forno e poi lasciato a decantare per almeno sette giorni, accompagnato da una salsa di yogurt arrostito, così come nell’insalata di pomodoro, dove il cuore di bue viene lasciato macerare per più giorni, accompagnato da un insolito, per consistenza, datterino giallo cotto nella calce. Si tratta di un percorso dove umami e acidità si rincorrono, fornendo tanti spunti di originalità e di piacevolezza: un giardino palatale nel quale ci si addentra e si resta davvero colpiti dalla personalità, dalla eleganza e dalla bellezza delle piante che ci abitano.

Per puntare all’eccellenza ci sono, però, alcune potature e/o cambiamenti da fare: è il caso dei due primi piatti, con il raviolo ripieno di tuorlo e pepe con burro acido, buono e gustoso, ma un po’ fuori contesto, così come i noodles con brodo di cipolla e perle di tapioca allo zafferano, dove la fermentazione della cipolla, presentata in brodo, risulta essere eccessivamente acida e coprente. Un ulteriore spunto di riflessione tenderemmo a darlo anche sulla reiterazione dell’uso di salse in più piatti, che, pur essendo diverse, piacevolissime e perfettamente equilibrate verso la componente principale, rappresentano appunto un piccolo elemento di ripetitività.

Detto questo, non possiamo che caldamente consigliare di affrontare un viaggio, perché di questo si tratta, per vivere questa esperienza emozionante. Siamo in presenza, davvero, di un talento perché, considerando la sua giovanissima età e la difficoltà intrinseca di un percorso totalmente vegetariano, spiccano l’intelligenza e la volontà di migliorarsi continuamente. Per queste ragioni non possiamo che prevedere un percorso continuo di crescita: verso l’eccellenza.

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A spasso tra i mari e i monti della Sicilia

A pochi passi dalla Vucciria sembra aver trovato il suo habitat naturale Mauricio Zillo, chef dal lungo curriculum internazionale, che da quasi due anni officia al Gagini Restaurant. Dopo un iniziale periodo di naturale adattamento, ora lo chef italo-brasiliano sembra essere entrato in perfetta sintonia con Palermo e il territorio siciliano.

E difatti qui hanno ingrandito cucina e brigata per permettere a Zillo di esprimere tutto il suo talento, lui che, da sempre affascinato dalla varietà dei sapori della Penisola, li ricercava e proponeva nei piatti. Durante l’ultima visita il focus si è spostato sui prodotti e le tradizioni della Trinacria: materie prime rare, finanche quasi estinte, abbinate a carni o pesci dell’Isola in maniera singolare e con risultati a tratti eccellenti.

Accomodandosi ad uno dei tavoli del Gagini Restaurant non solo si sta bene ma si ritrovano dei sapori “primari” ormai quasi scomparsi dalle nostre tavole. Un esempio è il pollo, non quello che affolla gli scaffali dei supermarket, ma quello di campagna nel vero senso del termine, il cui petto, cotto alla perfezione, è proposto in abbinamento alle vongole, alla rapa bianca e legato con un una salsa di yogurt e manna (una preziosa e rarissima resina naturale).

Tanta tecnica al servizio di sapori dimenticati

Il percorso di degustazione è stato ben ideato e caratterizzato da una esecuzione tecnica ineccepibile, sia nella realizzazione delle salse che nelle cotture. Elegantissima la tartare di manzo con cavolo, lattume di tonno e la salsa alle amarene a bilanciare il tutto. Interamente giocato sulle note dolci il gambero rosso crudo con carota di Ispica cruda e cotta e mandorle. La pasta, patate e peperoni trova nell’ostrica cruda, alla base, la chiave del patto, solo in apparenza non adatto al clima estivo ma dal sapore e dall’acidità ben bilanciata al palato. Intenso il sapore del calamaro ripieno di erbe amare con il buonissimo prosciutto, di maiali neri che mangiano solo ghiande, e lenticchie col midollo

La complessità e la piacevolezza dei sapori caratterizzanti questa tavola si riscontrano anche nei dolci, come l’Etna, una rivisitazione del Mont Blanc realizzata con fave novelle e gelato al basilico.

Il servizio è professionale e capace di mettere tutti a proprio agio, la carta dei vini ha interessanti proposte sia italiane che estere, con attenzione alle etichette naturali. Da Gagini si siede insomma presso una delle migliori tavole del sud Italia: un posto che la costanza e la ricerca di Mauricio Zillo hanno portato a una vistosa, e repentina, evoluzione.

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