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Giodo

Dall’amore per il Sangiovese all’Etna e i suoi vitigni autoctoni

La storia di Giodo inizia con il Sangiovese, il primo grande amore di Carlo Ferrini.

Tra lecci, querce, arbusti di lentisco e ginestre, si giunge in quella Toscana, tra bosco e macchia mediterranea, dove trovano sede le più note aziende di Montalcino. Ed è tra Sant’Angelo in Colle e Sant’Antimo, sinonimo di perfetta esposizione, ideale altitudine e suoli ideali, che dal 2001 il sogno di Ferrini si avvera. Giodo, nel nome un omaggio ai genitori Giovanna e Donatello, nasce da una vita professionale votata al Chianti Classico, una passione che ha condotto l’enologo di fama internazionale e grande appassionato della più nobile Francia del vino ad acquistare un piccolo podere di circa un ettaro, che si è poi esteso in due ettari e mezzo con l’impianto di altre tre parcelle contigue, completato nel 2021 con una cantina di vinificazione e una casa colonica di recente ristrutturazione, in totali 6 ettari di vigna. Un sentimento condiviso con la figlia Bianca, trentenne, coadiuvato da Riccardo Ferrari e Giuseppe Pitzeri, tra vigna e cantina.

La perfetta esposizione sud-est, a 300 metri s.l.m, e il suolo di medio impasto ricco di scheletro sono le ottime basi per mettere a dimora i cloni che più avevano convinto l’enologo negli anni: 8 diversi, di poca resa, scarsa vigoria, con grappoli spargoli e acini di ridotte dimensioni. La pratica dell’inerbimento con leguminose e la concimazione naturale sono garante di una corretta gestione agronomica che in questi due ettari e mezzo di vigne sono dedicate al Brunello, mentre gli appezzamenti più giovani all’IGT Toscana La Quinta. Queste accortezze sono riproposte nel secondo appezzamento individuato qualche anno dopo da Ferrini, dove ad un un’altitudine maggiore, di 400 metri s.l.m., con un suolo sassoso e più profondo, trovano dimora gli stessi cloni.

Dopo il Sangiovese, Carlo Ferrini si innamora anche dell’Etna e dei suoi vitigni autoctoni: il Nerello Mascalese e il Carricante, da cui inizia la storia di Alberelli di Giodo. Queste due espressioni trovano terreno fertile in otto piccoli appezzamenti nella Sicilia di Contrade Rampante e Pietrarizzo, che, sommati, arrivano a poco più di due ettari e mezzo. In questi terreni l’altitudine, l’ideale esposizione a nord, e il terreno nero di pomice del Vulcano concedono struttura unica e una spiccata mineralità.

I quattro vini monovarietali che ne derivano sono lo specchio e l’essenza del territorio di origine da cui provengono e dell’attenta cura in vigna che tanto contraddistingue Ferrini.

La Degustazione

Questo Brunello di Montalcino si rivela di un’innata eleganza: di buona morbidezza, profondo, intrigante ed intenso si compone di uve perfette, che maturano in piccoli legni francesi che terminano l’affinamento in bottiglia, restituendo a Giodo equilibrio e spessore. Su tutte ci ha entusiasmato l’annata 2016, intrigante la 2018 e molto buona, comunque, la 2015. Ma la 2016 ci ha davvero impressionato per eleganza e finezza.

La Quinta Toscana IGT nasce dall’omonima parcella impiantata nel 2018, la quinta appunto, dedicata a uve Sangiovese. Di notevole freschezza, si dimostra di buona beva e dalla buona persistenza aromatica. Sentori di frutti rossi che si alternano a eleganti speziature di vaniglia conducono ad una bocca corposa e di tannino ben integrato. La 2018, ma in particolare la 2020, ci ha impressionato non poco. Un rosso di Montalcino, forse anche un Brunello, travestito da vino apparentemente più semplice, ma che semplice non è affatto.

Al Nerello Mescalese, Alberelli di Giodo, dalla prima annata 2016, dedica una vendemmia manuale e macerazione in vasche d’acciaio aperte a cui segue un affinamento per 12 mesi in piccole botti di legno francese.

Dall’annata 2020, ad Alberelli di Giodo si unisce il Carricante, anch’esso in purezza che, dopo 20 giorni di fermentazione in acciaio, matura per circa 6 mesi con le sue fecce sempre in acciaio e affina per 10 mesi in bottiglia.

Un vino sapido, balsamico, da vigne ad alberello di oltre 70 anni con una porzione oltre i 1.000 metri di altitudine, esprime sentori di mandorla ed eucalpito, con un finale molto lungo e persistente.

Il Sangiovese di Romagna

L’attesa per l’appuntamento settembrino con “Stella dell’Appennino” assomiglia vagamente alla paziente bramosia dello spettatore un po’ nerd per la nuova stagione della sua serie preferita. Conosce già tutti i dettagli dei personaggi, dei luoghi, delle storie, eppure ha la certezza che qualcosa di nuovo accadrà: qualche nuovo protagonista entrerà in scena, la storia si arricchirà di eventi e andrà avanti, è consapevole che il passato potrebbe ritornare e svelare dettagli rimasti sopiti che troveranno il momento buono per emergere e sparigliare di nuovo le carte.

Stella dell’Appennino” più che un evento è quello spazio narrativo che 11 produttori di vino sulle colline forlivesi di Modigliana: Casetta dei Frati, Il Pratello, Villa Papiano, Mutiliana, Castelluccio (oggi Ronchi di Castelluccio), Il Teatro, Lu.Va., Fondo San Giuseppe, Menta e Rosmarino, Torre San Martino, e da quest’anno Pian di Stantino, si sono scelti per aggiungere ogni anno qualcosa alla conoscenza del Sangiovese di Romagna. Il loro Sangiovese, ma non solo quello, in questa edizione più che mai. Sono partiti sei anni fa dettagliando le caratteristiche del proprio territorio, fatto di vigne strappate ai boschi e alle pendenze appenniniche, elevate su quelle che oggi sono rocce ma che un tempo erano sabbia e conchiglie di un mare antichissimo. A Modigliana sono stati i primi a proporre il racconto di una delle sottozone del Romagna Sangiovese (11 anni fa ne nascevano 12 e da quest’anno sono diventate 16) puntando tutto sulla qualità e su una comunicazione che si smarcava dal resto della Romagna e da una lettura per marchi, legandosi indissolubilmente al terroir, con sincerità, non contemplando affatto l’artefatto,  l’inutile già detto e già visto mille volte specie da certe parti.

Perciò per far capire i vini di Modigliana, chi li fa continua a chiamare a casa propria chi li vuole conoscere. A toccare con mano la diversità dei suoli di antiche sabbie divenute marne e arenarie, a  respirare il profumo dei boschi, ad ascoltare il rumore dei torrenti che d’inverno si fa ancora vorticoso, a respirare l’aria di un panorama vinicolo che parte dai 400 metri sul livello del mare, e sale.

Nel 2021 il racconto si occupò dello spazio, l’obiettivo era decodificare ancora meglio il territorio per rafforzare l’identità attraverso il dettaglio. Venne perciò presentata la mappa del vigneto nelle tre valli solcate dai torrenti Ibola, Tramazzo e Acerreta che disegnano la sottozona di Modigliana. Tutte e tre si caratterizzano per la presenza di rocce sedimentarie, marne e arenarie, poi però le diverse conformazioni del territorio e dei microclimi sfaccettano i Sangiovesi che vi nascono e maturano.

Il nuovo capitolo di questa stagione del racconto, introduce invece l’elemento tempo, quello degli uomini oltre al meteo. E così dopo la “mappa” è arrivata la “carta”, quella delle ultime 30 annate. Ma gli undici alfieri di Modigliana non hanno parlato solo di sé, hanno allargato il campo e hanno saputo inanellare con generosità e rispetto il racconto di gran parte della Romagna enologica, dal 1990 ad oggi. Il tutto senza voler stilare una banale classifica, ma appunto intonando questa sorta di canone inverso  che mette insieme territorio, sapori, lavoro dell’uomo e della natura sovrapponendo armonicamente tante, coerenti, voci. A condurre questo ulteriore viaggio calici alla mano, oltre un centinaio i partecipanti, è stato il critico Walter Speller, portato ancora una volta a Modigliana da Giorgio Melandri, che evidentemente ama la Romagna e la incita ad essere più sicura di sé e delle proprie qualità.

1992-2004 L’epoca dei visionari e dei sognatori

C’è sempre qualcuno che parte per primo. Non si poteva che iniziare, quindi, con un’etichetta simbolo di Castelluccio, cantina fondata dal regista e produttore e Gian Vittorio Baldi che negli anni Settanta deicise di far nascere Romagna il nuovo grande vino italiano. Un’operazione intellettuale ancor prima che contadina, un’attitudine che su ronchi e dintorni non hanno evidentemente perso. Ed ecco che dal Ronco dei ciliegi (1992) emergono sottobosco autunnale e foglie di tabacco, cuore di ciliegia, ferro e freschezza che sostengono una maturità innegabile ma priva di qualsiasi stanchezza. Il decano dei modiglianesi Emilio Placci firmò nel 2001 il Badia Raustignolo che stappato oggi rapisce per eleganza e una trama finissima di tannini, una nuova immersione nel bosco, funghi e spezie. Ancora di più affascina il Mantignano 2004 sempre del Pratello: frutto, animalità, spezie e balsami, eleganza da sorseggiare a occhi chiusi, magari ripensando che quelle uve, come ricorda lo stesso Placci, furono vendemmiate a novembre, in un’altra era climatica. Fuori da Modigliana altri due vini bandiera di questo primo capitolo: Pietramora 2001 di Fattoria Zerbina (sottozona Marzeno) che dopo 21 anni mostra ancora i muscoli di un tannino grintoso ben sposato al frutto tipico di questa zona maturato su vigne ad alberello, fra le prime piantate in Romagna da Cristina Gemignani. Il Michelangiolo 2001 di Calloonga (sottozona Oriolo, sempre terre faentine) seduce con note di tabacco e ciliegia, un classicone con ancora un po’ di strada davanti.

2008-2013 La conquista dell’identità

Questo quinquennio ha offerto una carrellata di vini che nascevano evidentemente con il piede giusto e nel tempo sono diventati portabandiera delle rispettive cantine e sottozone.  Framonte 2008 di Casetta dei Frati (Modigliana) non ha mai visto il legno eppure i suoi tannini agili grattano piacevolmente il palato mentre frutto e china riempiono il sorso di sapore. Ha vita ancora abbastanza lunga, ma le bottiglie sono appena 500. Salto nel sottostante Faentino con l’Assiolo 2008 di Costa Archi (sottozona Serra), prugne ed erbe una vita ancora davanti. Limbecca 2010 di Paolo Francesconi (che finora non ha mai rivendicato la sottozona Marzeno, ma lascia la degustazione dicendosi convinto a farlo d’ora in poi), concentra frutto e sentori di liquirizia con una punta di dolcezza che ammorbidisce i vini di quelle terre rosse. L’annata 2013 di neve e piogge, con “belle potenzialità aromatiche, mineralità, acidità” come scrive Giorgio Melandri nel “libretto di sala”, schiera iI Probi di Villa Papiano (Modigliana) selvatico e agrumato, al fianco di un Vigna del Generate di Fattoria Nicolucci (Predappio) testimonial di quella vecchia scuola che alle mode non ha mai guardato puntando a diventare direttamente un classico.

2015-2017 La lettura territoriale

Rappresenta il biennio in cui Modigliana è partita alla conquista completa della propria libertà espressiva, unendo la compagine di produttori senza eliminare personalità e differenze avviando quel racconto che ora prosegue. L’Acereta 2015 di Mutiliana si “sfogli” aggiungendo un sentore a ogni sorso: ciliegie e lamponi, ma anche verde del bosco e tabacco. Nel 2016, il Violano de Il Teatro è polpa e autunno ma con lo scatto di agrume che appaga la voglia di freschezza e bevibilità; il Tramazo di Mutiliana è pietra bagnata e spezia, frutto e tannino che giocano senza sovrapporsi mai. I Probi di Villa Paiano confermano la loro identità selvatica e scura, affascinante. Carbonaro 2017 de Lu.Va. scalpita e non trattiene una maggiore potenza anche di tannino, che però non morde a sproposito.

2019-2021 Artigianalità futura

La strada è tracciata: questa Romagna del vino rivendica l’artigianalità come propria dimensione ideale, la trasparenza e la leggibilità dei propri vini come un valore. E i vini crescono di pari passo con le storie di chi li fa, come quella di Pian di Stantino ha a che fare con il riportare alla vita piccole vigne lasciate indietro, abbandonate dagli uomini, ma ancora capaci di fruttificare per volontà della natura. Il Pian 2019 arriva dall’ultima vigna che da oltre vent’anni vive sul confine fra Tredozio e Modigliana, fermenta spontaneamente, macera a lungo per ben tre mesi, profuma di frutti rossi e pepe nero. Il Corallo Nero 2019 dei fratelli Gallegati (Brisighella) amalgama frutto, sapidità, mineralità. Vere e proprie anteprime, ma da vigne di 50 anni recuperate anch’esse, sono i freschi AreaS 2020 di Menta e Rosmarino e Acerreta 2021 di Fondo San Giuseppe, il polposo e piacevole Ronco della Simia 2020 di Castelluccio, che torna dopo 25 anni sul mercato, rinato.

Walter Speller ha definito questi vini romagnoli “post moderni”. Se ha inteso dire che nell’arco del tempo considerato hanno rappresentato una sorta di offensiva all’interpretazione enologica dominante in Romagna, è condivisibile. Le storie personali di questi produttori, come di questi loro vini, testimoniano senza dubbio la volontà di raccontare una Romagna diversa già 30 anni fa senza farsi dettare regole. Il che significa una cosa: che vini eccellenti la Romagna li sta facendo almeno da trent’anni, e che questi tre decenni in sordina sono comunque valsi a cementare un’identità. Significa anche che questa Romagna enologica artigiana è forse già oltre il postmodernismo, perché del moderno non ha più alcuna nostalgia da tempo e ha superato anche le incertezze del post. Può uscire alla luce a testa alta e guardare alla prossima era.  

di Laura Giorgi

Poliziano e Montepulciano

Il territorio di Montepulciano è, in Toscana, fra i più vocati alla produzione enologica di qualità. La sua fama risale già a secoli addietro quando il Nobile – così si chiama, e non a caso, il vino qui prodotto – già era noto e molto apprezzato. A base sangiovese (clone Prugnolo Gentile, impiegato per almeno un 70%) coltivato entro i confini comunali, il Nobile è un vino che si distingue per caratteristiche ben specifiche, legate alla variegata espressività del territorio poliziano. Ciò significa che se alcuni tratti, come la struttura complessa e l’armonica eleganza, si dovrebbero sempre ritrovare di bottiglia in bottiglia, altri tratti variano a seconda del microclima (e proprio dall’assunzione di questa consapevolezza si sta modificando il disciplinare che, dal 2024, introdurrà in etichetta la dizione “Pieve” seguita dal nome di dodici località ben identificate, secondo rigidi principi di zonazione) e dello stile aziendale.

Fra la manciata di aziende di punta – Avignonesi, Boscarelli, Dei… – che tengono alto il vessillo della denominazione spicca, per la sua storia pluridecennale, la cantina Poliziano, proprietà della famiglia Carletti. Nata nel 1961, quando Dino Carletti, acquistò il primo nucleo di ventidue ettari di terra e un antico casale (tutt’ora affascinante “perno centrale” delle nuove strutture che si sono aggiunte nel corso del tempo), è stato poi grazie alla lungimiranza di suo figlio Federico – ancora oggi al timone dell’azienda, insieme alla moglie e ai due figli, giovani ma già assai preparati, Maria Stella e Francesco – che la Poliziano ha raggiunto la fama e le dimensioni (attualmente sono poco più di centocinquanta gli ettari coltivati a vigna) che la caratterizzano.

Alla fine degli anni Settanta, terminati gli studi in agraria, Federico comprese che era giunto il momento di imboccare la strada di un “rinascimento” del Nobile. La prima scelta fu di lavorare solo uve di proprietà, coltivate, curate e vendemmiate secondo rigidi criteri improntati alla selezione della migliore materia prima. La seconda fu quella di prendere a immaginare un Nobile che potesse incontrare “gusti internazionali”: tanto (ed era la missione più semplice) da parte di coloro che, da ogni luogo dell’Europa Occidentale, venivano in visita in Toscana, quanto (assai più difficile) di coloro che – pur non conoscendo de visu il territorio poliziano – avrebbero potuto apprezzare il Nobile sulle loro tavole. Nacque così il primo “stile Poliziano”, teso a sottolineare lo spessore, la struttura e il lungo affinamento del vino. Nel corso del tempo, ovviamente, la prospettiva è mutata, secondo gusti tesi all’esaltazione dei terroir, all’espressività specifica del vitigno autoctono e a maturazioni in legno più modulate.

Questo percorso («perché la cantina Poliziano, durante la sua storia, ha effettuato e tutt’ora sta effettuando un percorso», ricorda saggiamente il giovane Francesco Carletti) ha quindi portato alla individuazione e alla nascita dei cru Asinone (prima annata 1983; ora prodotto in 25.000 bottiglie circa) e Le Caggiole (prima annata 1988; ora prodotto in 6.000 bottiglie circa), oltre che alla continua modernizzazione della cantina, col fine di rendere sempre migliori i processi di vinificazione e affinamento, e al costante miglioramento delle pratiche agronomiche, col fine di perseguire un approccio sempre più rispettoso del terreno e della vite.

La degustazione

Nel corso di una recente visita in cantina e di una degustazione, condotta da Francesco, si è potuto assaggiare l’intera gamma dei Nobili insieme all’annata attualmente in commercio, la 2018, de Le Stanze, il taglio bordolese dell’azienda.

Prima di inoltrarsi nel racconto delle singole etichette va sottolineato un aspetto, non scontato: i cinque vini degustati hanno presentato fra loro una coerenza di “costruzione” (se si vuole di “filosofia”) invidiabile. Il tratto stilistico dei vini della cantina Poliziano è – infatti – ben riconoscibile e va ricercato nella articolata espressività delle durezze: nella mineralità, che ben “racconta” il terreno, e nel tannino, che invece “narra” l’uva. Beninteso, non sono vini squilibrati, che peccano di eccessi o difetti. Tutt’altro: ed è anzi il loro equilibrio interno, la loro coerenza, a permettergli di attraversare con nonchalance i dieci anni di invecchiamento e giungere senza problema anche ai venti. Sono però vini che, con una eleganza tutta loro, pongono in risalto, per chiara scelta, il loro nerbo, gli snodi essenziali (quasi “esistenziali”) della loro struttura. Vini imponenti, quindi, a volte quasi muscolari.

Questa impostazione appare già delineata nel Rosso di Montepulciano (80% sangiovese, 20% merlot, e solo quest’ultimo passa in legno di varie capacità; annata 2020) che, a differenza di quanto di solito avviene, la cantina Poliziano non produce declassando uve da Nobile ma da vigne individuate come le migliori per ottenere questa tipologia. Il vino, di un rosso rubino ancora carico di qualche sfumatura porpora, presenta un fine bouquet ove le note floreali tipiche del sangiovese (viola mammola) incontrano un fruttato maturo, note vegetali e una bella verticalità. In bocca il vino è agile: abbastanza morbido, abbastanza caldo, minerale e con un tannino di cui si percepisce la gioventù. Di corpo medio, si distende con equilibrio, con intensità e con una buona lunghezza che termina, di nuovo, su richiami minerali. 88/100

Il fratello maggiore del precedente, il Vino Nobile (95% sangiovese, 5% diviso fra colorino, canaiolo e merlot; annata 2019), è invece molto più strutturato e quasi dà un’impressione di palatina austerità. Qui il rubino diventa più scuro e la materia rotea nel bicchiere con maggiore densità. Il naso, ampio e fine, richiama da un lato, e più in profondità, le nuance descritte per il Rosso (notevole è la frutta a polpa, prugne e pesche, come anche una certa balsamicità), dall’altro aggiunge un ventaglio di aromi legati al passaggio in legno (barriques e tonneaux francesi). È al sorso, però, che il cambio di passo diventa più evidente: la mineralità (che si muove fra il carbone, la pietra e l’argilla) è imponente, il tannino fitto, la freschezza notevole. Sul palato, muovendo la lingua, se ne avverte poi la morbidezza, l’intensità e il corpo. La persistenza è notevole, con continui e sempre differenti ritorni minerali. 90/100

Il cru Asinone (l’etichetta che, forse più delle altre, ha reso celebre la cantina Poliziano) proviene dall’omonima vigna, con esposizione a Sud, dalla forma “a schiena d’asino” ed è 100% sangiovese (solo in alcune annate viene aggiunto un 10% diviso fra colorino e canaiolo). La particolarità di questo cru è il terreno argilloso che presenta un’alta concentrazione di magnesio e potassio. Ne nasce un vino pieno, muscolare e dal forte impatto minerale. Un vino “maschile”, quindi, le cui caratteristiche paiono più sottolineate che addomesticate dal lungo affinamento (diciotto mesi) in tonneaux francesi. L’annata 2019 si propone con un rubino impenetrabile, e quasi misterioso. I molti richiami olfattivi si scoprono poco alla volta con la nota verticale che spicca sul resto. Attorno ruotano il mondo dei fiori, della frutta rossa (ancora la prugna, accompagnata da piccole bacche) su sfondi balsamici e di sottobosco. La spezia si avverte fine e discreta, con un filo di chiodo di garofano e un nonnulla di tabacco. In bocca Asinone mostra tutti i suoi muscoli: l’alcol e i polialcoli (la morbidezza è tanta, come testimonia la doppia caduta degli ‘archetti’) si accompagnano a una mineralità spiazzante e a un tannino fittissimo e intrigante. Equilibrato, molto intenso, fine e persistente, Asinone è una etichetta che, per il suo spessore, chiama la tavola, in particolar modo le ricette e gli intingoli più celebri della cucina toscana. 91/100

Diverso è invece l’altro cru, Le Caggiole (100% sangiovese; annata 2018), etichetta che “gioca” sulle suadenze e sulle differenze. Qui il terreno è sabbioso, quasi un unicum a Montepulciano, e la vigna (esposta a Est) ha un’età media di circa quarant’anni. Il vino che se ne produce, di un bellissimo rubino scarico, si presenta con degli aromi assai complessi e molto fini: la viola si accompagna alla rosa, la prugna e la susina ai frutti di bosco (netta la mora di rovo), il fieno alla macchia mediterranea, la grafite allo scoglio, mentre le note terziarie (l’affinamento è di diciotto mesi in tonneaux francesi) sembrano ancora al di là da venire. Al sorso appare subito di enorme equilibrio: le morbidezze ben sposano la mineralità salina e il tannino perfettamente integrato. La prima piacevolezza, data da finezza ed equilibrio, e che invoglia al sorso successivo, trova conferma in fondo di bocca: la persistenza è lunga e articolata, e improntata a una sensazione di morbidezza complessiva. 92/100

La degustazione si è chiusa con un assaggio di Le Stanze (90% cabernet sauvignon, 10% merlot; annata 2018), uno fra i più noti tagli bordolesi toscani. Nato nel 1987 Le Stanze è un vino che racconta il territorio di Montepulciano “attraverso un paio d’occhiali francesi“, tenendo conto, quindi, di gusti internazionali, ma senza perdere la propria anima poliziana. Di un bel rubino carico, Le Stanze ha un prospetto olfattivo di tutto rispetto: intenso, complesso e fine si muove da sensazioni floreali (viola e rosa) e fruttate (ciliegia e mora), a tocchi erbacei (macchia) e minerali (grafite), passando per una bellissima speziatura che spazia dai chiodi di garofano al pepe nero (vinificazione e affinamento avvengono in barriques nuove francesi). Morbido e caldo, Le Stanze ha un tannino perfettamente integrato e una mineralità improntata a finezza ed eleganza. Di notevole intensità e persistenza gusto-olfattiva, il vino termina con suadenza, fra molteplici affascinanti avvolgenze. 92/100

Il Camartina veg di Sebastiano Cossia Castiglioni

Inizia nel 1974 con un solo ettaro di vigneto sui rilievi di Greve in Chianti, l’avventura dell’imprenditore Giuseppe Castiglioni. Poi nel 1988 grazie alla visione del figlio Sebastiano Cossia Castiglioni, avviene la conversione in biologico che ne fa una delle prime aziende italiane a intraprendere questo percorso. Mentre crescono gli ettari, cresce la sensibilità per l’ambiente e per i diritti degli animali, connotando un profondo e autentico approccio ecosostenibile, fatto di radicali scelte biologiche, biodinamiche e 100% vegan.

Una filosofia che si riverbera in tutte le attività di Sebastiano Cossia Castiglioni che è vegano e attivista per i diritti degli animali, oltre che occuparsi di alimentazione, finanza, vino, tecnologia, arte e scienze della vita, ed essere investitore e consulente di imprese e governi di tutto il mondo, dividendosi tra Asia, Europa e Stati Uniti. La sua impresa vitivinicola si caratterizza per una produzione virtuosa che bandisce nei propri vigneti e in cantina l’uso di prodotti animali e rincorre con successo l’armonia fra l’uomo e la natura ponendosi l’obiettivo di realizzare vini longevi di alto profilo. Quattro cantine e oltre 100 ettari di vigneti, di cui 74 di Chianti Classico, tra Greve, Radda e Gaiole e 32 in Maremma, su fertili terreni biodinamici, lambiti da boschi di querce, uliveti, colline, dove prospera una straordinaria biodiversità e le tecniche di vinificazione si ispirano decisamente alla Borgogna.

Una realtà produttiva che ha collezionato podi in tutti i contesti internazionali più prestigiosi e rappresenta la più grande estensione di vigneti vegani (biologici certificati) in Italia, una filosofia che vuole osteggiare la crudeltà e l’ingiustizia dell’agricoltura animale impegnandosi a proteggere il pianeta dai catastrofici effetti ambientali ponendo al primo posto l’equilibrio tra uomo e natura. “La comprensione del vigneto come ecosistema dipendente da una complessa rete di diversità biologica è per noi il fondamento della vinificazione. Crediamo che i vini caratteristici del terroir possano svilupparsi solo quando le radici della vite sono in grado di sostenere la loro interazione simbiotica con l’ambiente naturale circostante”.

Querciabella, Toscana IGT Camartina 2018

Uno storico Super Tuscan che si produce dal 1981 solo nelle migliori annate e ha dato il suo contributo all’affermazione del vino italiano nel mondo. Vino di punta della tenuta è un mix soave di Sangiovese, Cabernet Sauvignon (e inizialmente Merlot), con percentuali che si sono via via modificate nel corso della sua storia, convincendo, grazie alla sua capacità di evolversi nel tempo, i più autorevoli critici internazionali. 18 mesi in botti di rovere francese, portano alla selezione dei lotti migliori per l’uvaggio finale, senza che nei processi produttivi venga mai meno la filosofia vegana sposata da Sebastiano Cossia Castiglioni, che vieta l’impiego di prodotti e sottoprodotti animali. Trascorreranno almeno 30 mesi dalla vendemmia prima che il vino venga posto in vendita, ma l’essenza del Camartina si rivela dopo 6-7 anni dalla raccolta delle uve, per evolvere una volta messo in bottiglia ancora due decenni e dare il meglio di sé. Un’armonia rara di potenza ed eleganza per un vino storico e identitario toscano, dove la parte del frutto non sovrasta mai la parte speziata del vino. Al naso note fini di erbe officinali, macchia mediterranea, fiori, sottobosco e agrumi, al palato complesso, sontuoso, succoso, vibrante, con una brillante acidità e tannini importanti, insieme a note di amarene, prugne, more, sentori di pepe nero e rose appassite.

Vitigni: Cabernet Sauvignon 70% e Sangiovese 30%

Suoli: terreni ricchi di galestro e argilla

Allevamento: Guyot

Zona: Ruffoli, Greve in Chianti. Casaocci Sud per il Cabernet Sauvignon; Montoro, Solatio e Tinamicaio per il Sangiovese.

Prezzo: 99€

Troverete interessanti anche i tre vini che seguono, che ho scelto apposta perché hanno delle inaspettate e intriganti affinità con il Camartina, non sono naturalmente uguali ma di stilistica simile:

Freinfeld 2018, Cantina Kurtatsch

Palestina 2018, Tenuta H. Lentsch

Piastraia 2017, Michele Satta

In equilibrio tra tecniche antiche e progresso, con dedizione certosina

Dell’azienda agricola Podere Forte abbiamo già detto e scritto svariate volte. Tuttavia, ogni volta che si presenta l’occasione per approfondirne la conoscenza, emergono dettagli che ci sorprendono e ce ne fanno innamorare un po’ di più. È ciò che è successo lo scorso mese, in occasione di una degustazione dei prodotti di Podere Forte ospitata in un tempio dell’enogastronomia lombarda, l’enoteca “da 8tto” a Senago.

Cercherò di non ripetere quanto già stato detto dai miei illustri predecessori, Alberto Cauzzi, qui, e Orazio Vagnozzi, qui e qui. Basti sapere che l’azienda agricola in questione, situata in quell’idilliaco scenario che è la Val d’Orcia, si configura come un’antica cortes romana: 500 ettari di terreno incontaminato, asservito alla produzione di vino, olio, cereali e allo scorrazzamento dei capi di Cinta Senese, che qui razzolano felicemente prima di essere affinati da quel mago del salume che è Massimo Spigaroli. Il tutto condotto all’insegna della naturalità e della tecnologia. Come ama dire il patron, Pasquale Forte: “lavoriamo i campi come duemila anni fa e in cantina siamo duecento anni avanti”. Ed è proprio questa massima che oggi andrò ad analizzare, perché quello che a una distratta lettura può sembrare un claim commerciale, nasconde in realtà l’universo che rende INCREDIBILE questa azienda.

Lavoriamo i campi come duemila anni fa

Fin qui tutto chiaro. Come si diceva Podere Forte è una fattoria polivalente, “dove uomo, piante e animali contribuiscono a realizzare un macrocosmo integrato, autosufficiente e sostenibile.
Un esempio concreto è dato dalla presenza di venti splendide vacche di razza chianina. Vacche da latte? Ovviamente no, ma nemmeno da carne. Si potrebbero definire “vacche da letame” dal momento che sono allevate su questo suolo incontaminato, e nutrite con i suoi meravigliosi prodotti, al solo fine di ottenere “ottimo compost”.

La biodinamica è la tecnica agricola privilegiata, dunque i prodotti di sintesi chimica sono banditi, si fa uso di corno letame e calendari lunari, ma, soprattutto, si sta in campo. Ad esempio per curare le barbatelle, che una volta impiantate sono innaffiate con un imbuto di rame una ad una, con un dispendio in termini di tempo davvero imponente.  Questo è il senso più intimo della biodinamica: il tempo speso a contatto con la terra per poter reagire prontamente a qualunque problematica insorga. L’idea è che l’energia vitale che in questo modo scaturisce da vitati, oliveti, boschi e allevamenti, si traduca nel sapore autentico dei prodotti, dando vita a prodotti genuini e vini in grado di esprimere compiutamente il terroir.

In cantina siamo duecento anni avanti

Un approccio saldamente ancorato alla naturalezza che, tuttavia, viene portato avanti con metodo scientifico certosino, attingendo a piene mani dal progresso. I terreni che compongono i 24 ettari vitati, ad esempio, sono stati studiati e “zonizzati” da Lidia e Claude Bourguignon, due ingegneri del suolo assoldati da produttori del calibro del Domaine de la Romanée-Conti e Château d’Yquem. I “Gran Cru” dell’azienda sono delineati da quei terreni dove il calco-scisto affiora già a 30 cm di profondità e lavorati soltanto attraverso l’uso di cavalli e trattori in alluminio e fibra di carbonio appositamente creati, che esercitano sul terreno una pressione inferiore a quella di un piede. Ma è in cantina, cuore dell’azienda Podere Forte, che regna la tecnologia più avanzata.

Ogni filare viene sottoposto ad almeno due vendemmie, tre nel caso dei Cru, per arrivare in cantina in un perfetto stato di maturazione e procedere a vinificazioni separate lungo l’intero processo. Qui i grappoli vengono sottoposti a vinificazione dopo essere passati sui tavoli di selezione e attraverso una diraspatrice alla quale giungono in atmosfera inerte. Il selettore ottico scarta gli acini che nutriranno le Cinte Senesi, quindi si prosegue per caduta fino ai tini troncoconici nei quali avviene una pre-fermentazione a freddo. Ogni processo della cantina, in effetti, avviene per caduta. Il passaggio successivo è la pressatura podolica, che evita una rottura eccessiva degli acini, limitando così l’estrazione dura. Quindi la fermentazione, l’uso sapiente di botte grande e barrique di Taransaud, congegnate appositamente per l’azienda, affinamenti che vanno dai 12 ai 24 mesi e l’assemblaggio dei numerosi vini base secondo la sensibilità del cantiniere.

I vini

Il risultato sono vini che sorprendono per pulizia ed eleganza, di una piacevolezza rara. Discorso che vale per tutti, ma che tocca vertici inesplorati nel caso dei due vitigni principi dell’azienda: il Sangiovese e il Cabernet Franc.

Il Sangiovese

Espresso in purezza nel Petruccino, nel Petrucci Anfiteatro e nel Petrucci Melo, il vitigno si presenta in una veste inedita, estremamente fine e beverina. Nessun eccesso selvatico al quale questa bacca spesso soggiace, mentre tutte le sue virtù sono esaltate al meglio. Grande struttura, un’acidità rinfrescante e mai astringente, tannini ben presenti ma di seta, una splendida rotondità data dal legno perfettamente integrato.

L’Anfiteatro 2016 si potrebbe dire più immediato, con sentori di amarena, scorza d’arancia rossa, pepe nero, erbe balsamiche e lievi note carnacee assolutamente gradevoli. Equilibrato, intenso, ampio: un vino che invoglia, più e più volte, all’assaggio.

Il Melo 2016 presenta note più scure, di more e mirtilli, una mineralità più accentuata tradotta nella pietra focaia e in generale un naso più sottile e austero. Il tutto si ritrova fedelmente al palato, che rivela un vino da scoprire lentamente, dalla incredibile capacità di invecchiamento.

Il Cabernet Franc

Colta l’incredibile attitudine di Vigna Orniello, che dava risultati eccezionali, dal 2016 si è deciso di abbandonare il blend di Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, per produrre il primo Cabernet in purezza. Un lavoro difficile, perché con questo vitigno pare di essere sempre sul filo del rasoio: se è verde è destinato a restare tale per poi tendere alla grassezza, ma se è portato a giusta maturazione può dare risultati incredibili.

Nasce così il Guardiavigna 2016, un vino profondo e complesso, di grandissima piacevolezza. Il naso unisce la rosa rossa al peperone crusco, il pepe bianco e le noci al cacao amaro. Al palato è gradevolmente salino, avvolgente, di grande eleganza. Uno dei più alti esempi di Cabernet Franc in purezza.