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Arzak

L’alta cucina spagnola ha in questo locale, da decenni, un cardine fondamentale. Situato nella zona periferica di San Sebastian, Arzak, prima in Spagna e, poi, via via in Europa è stato giustamente considerato un punto di riferimento e un sinonimo di grande ristorazione.
Da quando Juan Mari, sul finire degli anni sessanta ha preso in mano le redini del ristorante gestito prima dal nonno e poi dalla madre, si è infatti adoperato incessantemente per consolidare ed esaltare la cucina tradizionale basca, sensibile anche ai nuovi orientamenti che andavano affermandosi in Europa, Francia in primis.
Questo lavoro a cavallo fra diverse tendenze in tempi in cui mediaticamente l’alta cucina non era certamente come ora al centro dell’attenzione, è stato assolutamente pioneristico.
I principi della nouvelle cuisine, fonte d’ispirazione e punto di partenza per la nuova cucina basca, non erano infatti esattamente di dominio pubblico.
La stagionalità, le cotture, una maggiore leggerezza e, ancora di più, la volontà di uscire dal seminato con ricette nuove ma saldamente ancorate a ingredienti locali, furono i capisaldi di tale movimento sanciti in una memorabile e storica riunione del dicembre 1976 in cui intervenne anche Paul Bocuse.
Diversi dei sodali della prima ora come Pedro Subijana svolgono tutt’ora un ruolo importante nella moderna cucina basca, alcuni altri sono stati sommersi dall’oblio. Altri ancora,  come un certo Ferran Adrià, hanno sviluppato strade diverse con derive ancora più sperimentali.
Alla base, comunque, il comune intento di partire da tradizione e territorio non come sterile leitmotiv ma come solido punto di partenza per una proposta innovativa e veramente moderna.
Si potrebbe ipotizzare che il gran numero di anni trascorsi abbiano affievolito questa fortissima aspirazione a una costante evoluzione ma non potrebbe esserci supposizione più errata.
Ora come ora il ristorante secolare della famiglia Arzak è assolutamente una delle cucine più interessanti e vive che sia possibile provare in Europa.
Il passaggio di consegne tra Juan Mari e la figlia Elena è stato un elemento non secondario in questo successo, anche perché la sinergia padre-figlia ne è diventata linfa vitale ed elemento chiave. Passaggio non senza difficoltà e tempi altalenanti, ma che oggi sembra aver raggiunto un senso compiuto e un risultato davvero ottimale.
Il carattere schivo e riservato di Elena Arzak, temprata da esperienze in ristoranti come Troisgros, Gagnaire, il nostro Santin o El Bulli, fa infatti da pendant perfetto con la dinamica vitalità del padre.
Altro ingrediente che caratterizza il fermento del ristorante è il laboratorio annesso alla cucina in cui la continua sperimentazione è il mantra che anima il locale e i menù che esso propone.
In questo opificio gastronomico non hanno diritto di cittadinanza idee astruse ed esperimenti cervellotici fini a se stessi, ma solo buon senso e passione che, poggiandosi sulle solide basi della cucina basca, ne ampliano lo spessore utilizzando inventiva, tecniche all’avanguardia e millanta ingredienti provenienti da ogni latitudine e longitudine.
Il risultato è una cucina ricca di stimoli pur rimanendo saldamente caratterizzata da una comprensibilità pressoché totale.
Non a caso il ristorante, pieno all’inverosimile, non risente minimamente dell’effetto riserva indiana ma è stipato (e, forse, anche costipato visti gli esigui spazi a disposizione) di stranieri e famiglie spagnole come solo in grandi tavole francesi è capitato di vedere.
Come detto le suggestioni sono davvero tante e in taluni casi si viene (piacevolmente) sopraffatti da esse, ma il divertimento è assicurato.
Sintomatico, ad esempio, l’inizio del menù degustazione che nasce da un piccolo “bombardamento” di tapas, compendio di sapori e ricette che hanno contraddistinto nel corso degli anni il locale.
Una presentazione degna di questo nome. E dell’uso interessante di elementi vegetali a rifinire, completare, cesellare questo o quel piatto, delle cotture, degli accostamenti se ne può soltanto sottolineare l’accuratezza e la misura oltre che l’innegabile rilievo stilistico: ecco una tavola che un amante della bontà tout court non dovrebbe perdere.

Interni
interni, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian
Mousse di scorfano in pasta kataifi
mousse, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian
Amargo de frambuesa: gazpacho al lampone con “tappo” di prosciutto e melone. Uno degli aperitivi più sensati mai assaggiati.
gazpacho, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian
Carota con acciughe e ssamjang (sorta di blend di peperoncini orientali).
carote con acciughe, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Raviolo di mango con crema di chorizo e acqua tonica su coerente lattina di Schweppes.
raviolo di mango, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Croccante di sardina con peperoncino
Croccante di sardina con peperoncino,k Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Soufflè fritto (fantasiosamente definito cromlech) di manioca con huitlacoche (un fungo del mais) con ripieno di cipolla caramellata, foie e tè verde. Molto goloso e da mangiare, un po’ laboriosamente, con le mani
soufflè fritto, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Manzana sanguina de remolacha: mela e barbabietola con xixa (funghi locali), crema di foie e patata.
mela, barbabietola e foie gras, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Granseola in croccante al sesamo nero
granseola, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Astice alla brace, croccante di curcuma e spinaci, acqua di pomodoro, piccola vinaigrette, foglie di jampet (simili allo spinacio) e semi di sesamo. Un astice dalla cottura semplicemente emozionante.
astice, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Zucchine alla brace con paprika in accompagnamento
zucchine, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Ovolacteo light: uovo cotto a bassa temperatura con funghi, wafer di latte e origano, mousse di gorgonzola, formaggio Idiazabal bagnato nel Porto e foglia “lattea”, polvere di baobab. Un piatto apparentemente grasso che trova significative gimkane negli elementi che di volta in volta si accostano all’ingrediente principale
uovo cotto a bassa temperatura, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Rana pescatrice con olivello spinoso, caviale di astice fritto, foglie di Grenotti (sapore che ricorda vagamente la nocciola). Un nuovo significato all’abbinamento pesce-elemento acido. Elegante in modo considerevole.
rana pescatrice, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Branzino marinato nel gin e patate macerate in cavolo rosso, peperoncino, sesamo nero e huitlacoche.
branzino marinato, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Agnello con topinambur, longan (frutto simile al litchi), manioca, castagne
agnello con topinanbur, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Petto di piccione, semi di girasole e zucca, riduzione di uva.
petto di piccione e semi di girasole, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Coscia con mandorle e olive.
cosce con mandorle, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Manzo alla brace, cristalli caramellati di peperone, curcuma, pomodoro, riso soffiato, couscous e germogli. Piatto di matrice orientaleggiante che trae profondo interesse dall’accoppiata con il sentore affumicato dello yogurt
manzo alla brace, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Yogurt affumicato con piccola insalata.
yogurt, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Le rimarchevoli dimensioni di un involucro di zucchero a velo spolverato di cacao vengono ridimensionate dall’aggiunta di uno sciroppo caldo di cioccolato, arancia e ribes che rivela un interno di mousse di cioccolato e carrube.
velo di zucchero, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Limon negro: ricostruzione del frutto iraniano fatto da un involucro di cacao con cremoso al limone di inarrivabile bontà. Da bis
ricostruzione limon negro, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Torta di formaggio decostruita: crema, aronia (simile alla mora ma più acida), pera macerata nella lavanda, sfera di cioccolato ripieno di frutto della passione
torta di formaggio decostruita, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Per finire ecco la “ferramenta” Arzak: crema di fagioli bianchi con cioccolato bianco e cristalli di te rosso, fior d’anice e cioccolato, gelatina di coca cola, dadi di cioccolato bianco e melanzana, bullone di cioccolato fondente, chiavi di cioccolato bianco e fondente.
piccola  pasticceria, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Un grandissimo accompagnamento.
vino, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Particolare dell’interno
interno, Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna
Baia di San Sebastian…..
baia , Arzak, Chef Juan Mari e Elena Arzak, San Sebastian, Spagna

I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.

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Recensione ristorante.

No, Victor Arguinzoniz non usa pentole classiche e fornelli.
Sì, Victor Arguinzoniz è un Asador, un Grigliatore.
Forse, Victor Arguinzoniz è un cuoco.
Per molti non è così, e la cosa mi lascia francamente basito.
Perché non dovrebbe esserlo? La tecnica di cottura più antica al mondo: il fuoco, la griglia, il cibo. Non è cucina questa?
Troppo semplicistico dire che Victor usa solo questa unica tecnica: di unico c’è solo il fuoco e il calore.
Poi vengono gli studi sul diverso legno da usare a seconda di cosa si mette sopra la griglia, vengono le invenzioni degne del miglior Leonardo applicato alla cucina: le griglie basculanti per regolare la distanza/temperatura, o i forni per la brace, padelle con griglie stile colino, padelle forate millimetricamente con laser, una pentola con una cavità al centro, manco fosse l’Etna, per cuocere al vapore della legna alcuni frutti di mare, come i mitili. Chi più ne ha più ne metta. Quercia per il pesce e vite per la carne, a volte olivo, altre sarmento, il ramo lungo e sottile della vite. Legno di melo per il caviale. E per il gelato? Si lascia il latte a ridurre sulla stufa. Mc Gyver ci fa una pippa.

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Recensione ristorante.

Prenderò in prestito una riflessione di un amico di grande cultura, pensiero che sposo e condivido al 100%:
“Trovo perfettamente naturale il pensiero che, come il portato di un’opera d’arte visiva non si dirige, se non in transito, alla corteccia cerebrale visiva, così anche quello della cucina di qualità non si rivolge, se non in transito, alla corteccia cerebrale olfattivo – gustativa.
In entrambi i casi (sommariamente ‘visivo’ e ‘gustativo’), a partire dalla rapida percezione, lettura e appropriazione del senso in sé, è ormai persino scientificamente provato (ce ne fosse mai stato bisogno), si passa poi a coinvolgere, con varietà di tempi e modi, soggettivi ed oggettivi, altri e più estesi territori della mente. Territori culturalmente decisivi per dare un ‘gusto’ ricco alle cose, tra ‘mente’, ‘cuore’ e ‘pancia’.”
Cibo, cultura, arte, artigianato, tradizione, modernismo. Tante volte abbiamo affrontato discussioni su questi temi, litigando amichevolmente sulle appartenenze a questo o quel settore.
Beh, tradizione e innovazione, artigianato e arte, a questa tavola si siedono una vicina all’altra.

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Recensione ristorante.

François Simon ne parla come di un esempio della nuova hotellerie, e allora, visto il sito e le belle foto, in un passaggio nei Paesi Baschi ho deciso di fare qui il campo base per le scorribande oltre frontiera. In più, fissando un paio di cene in albergo per conoscere la cucina di Cédric Béchade, giovane e prestante ex secondo di Piège con precedenti esperienze bocusiane.

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