Passione Gourmet piemonte Archivi - Pagina 3 di 10 - Passione Gourmet

All’Enoteca

L’enoteca del Roero

Si respira un’atmosfera di solide certezze salendo lo scalone che porta al primo piano dell’edificio (un tempo asilo) che ospita l’Enoteca regionale del Roero, nel pieno centro di Canale (Cn). Ma che ospita anche il localeAll’Enoteca – di colui che è stato capace, con coraggio, lungimiranza e un pizzico di giovanile avventatezza, di “sollevare il velo” e “accendere i riflettori” sulla cucina e sui vini di questa terra, a lungo e a torto considerata la sorella “sfortunata” delle Langhe.

Stiamo scrivendo – chiaramente – di Davide Palluda (classe 1971), un cuoco che, per la sua lunga storia e i tanti traguardi raggiunti, non ha bisogno di presentazioni. Gli appassionati di alta cucina lo conoscono da anni. Coloro che amano i grandi vini pure. Così come anche quelli che si recano in Piemonte per godere della bellezza dell’albese e dei suoi prodotti straordinari. Tutti, insomma, in questi ventisette anni (All’Enoteca ha aperto i battenti nel 1995) si sono seduti almeno una volta ai tavoli di questo ristorante, elegante senza essere affettato, fine senza essere pretenzioso, affascinante senza essere lezioso.

Una solida certezza, quindi, come appunto si scriveva all’inizio. E con ciò, dopo aver brevemente raccontato i piatti e affibbiato un voto numerico, si potrebbe chiudere la scheda e passare ad altro. Ma ci attenteremo invece a proporre qualche riflessione ulteriore, speriamo utile a tratteggiare un profilo più complesso del cuoco e della sua cucina. La prima riflessione riguarda il percorso intrapreso. Palluda e All’Enoteca sono stati i precursori di un modo “altro” e “alto” di interpretare e raccontare il Roero: i locali nati in seguito, così come le cantine e i produttori agricoli, dovrebbero riconoscergli una benemerenza per il lavoro, tanto nel tracciare un percorso di sviluppo quanto di promozione di un territorio, che ha svolto, e che tuttora svolge. Lavoro del quale, a ricaduta, in tanti, e in tanti settori, hanno tratto benefici. La seconda riguarda più propriamente la cucina di Palluda che è stata capace di evolvere negli anni, con costanza: ovvero senza stasi e pure senza strappi. Chi, per sua sventura, mancasse da tempo dai tavoli di All’Enoteca non faticherebbe a ritrovare uno “stile Palluda” nell’attuale proposta, uno stile che, non “passatista”, si esprime attraverso piatti al passo coi tempi. La terza riguarda più strettamente quello che abbiamo chiamato “stile Palluda”.

Davide non è un avanguardista funambolico. Il suo stile, di formazione classica (lo si può evincere, per esempio, dai Gamberi viola avec suace béarnaise), si esprime, quasi femminilmente, attraverso piatti seducenti e romantici che, nati da un’idea o da una suggestione (suscitate da un prodotto, da una ricetta di tradizione, da un abbinamento consolidato), prendono poi forma nell’incontro degli elementi. Gli esempi potrebbero sprecarsi, e qui ne facciamo giusto un paio. Un’idea, suscitata dalla materia prima, è appunto quella di assaggiare il Fassone Piemontese «dalla testa ai piedi». Una suggestione foresta quella di accompagnare l’agnello alla brace alla mediterraneità della foglia di cappero e di una salsa, di origine marocchina, a base di limoni salati e fermentati. La quarta considerazione riguarda la capacità che Palluda ha dimostrato nel saper industriare il proprio lavoro. Nel 2006 – infatti – insieme alla moglie Annalisa, ha aperto un suo laboratorio (cosa normale per i cuochi di oggi, ma non così scontata quindici anni fa) ove «mettere in barattolo quei sapori che andava studiando e proponendo al ristorante», secondo materia prima, tecnologia e ricerca. Una quinta riflessione riguarda la capacità di Palluda di essere ‘maestro’. Tanti sono i giovani che sono maturati nelle cucine di All’Enoteca: Enrico Marmo, Stefano Paganini, Andrea Bertini… (à propos, segnatevi questo nome!), solo per citarne alcuni fra mille. E tutti concordano nel riconoscere allo Chef grandi doti didattiche e umane.

Il piatto e il gusto

La carta di All’Enoteca non è vastissima, e propone anche un percorso di degustazione di otto portate (a un prezzo più che onesto: 110 euro) e, in stagione, una selezione di piatti di tradizione (cocotte di uovo e fonduta, tajarin…)che «abbracciano perfettamente il tartufo bianco». Sia che si scelga à la carte sia che si proceda col menù si andrà comunque incontro a piatti eleganti, ben pensati, preparati con materie prime di qualità, ben realizzati (uno degli atout di Palluda sono le cotture millimetriche) e dai gusti netti. Profumi e sapori di Roero, Langa e Liguria sono i protagonisti ma altri attori che giungono da più lontano, come per esempio nel caso del già citato agnello, fanno degna comparsa, variando con intelligenza su una partitura consolidata da metodo, tecnica e professionalità. Così se la Finanziera è una delle più buone che si possa mangiare – riconoscendo solo a quella «di Renzo» dell’Antica Corona Reale, a Cervere (Cn), il primato assoluto – i Ravioli di animella (aiutati anche dal tartufo nero) e i Ravioli di fagiano si dimostrano un concentrato di gusto. Di bella costruzione, nel susseguirsi in bocca delle diverse consistenze e dei diversi profili aromatici tendenti a un amaro clorofillico, è l’Insalata di lumache con prezzemolo, levistico e mela verde, addolcita dalle coscette di rana fritte in accompagnamento. Un tecnicismo più scoperto si avverte nella parte finale del pasto: dolci e piccola pasticceria, da sempre uno dei cavalli di battaglia di Palluda. La Crema affiorata, nel suo abbinamento a una estrazione di foglie di fico, richiama da un lato il profumo delle robiole affinate nelle lobate foglie del Ficus carica, dall’altro pare riprendere e approfondire uno spunto uliassiano (l’ormai nota «pasta alla Hilde»). Mentre il giocoso carrello della Petite pâtisserie, nella sua lunga teoria di pastine, cannoncini, dolcini, dolcetti, cioccolatini, frutta sotto spirito e chi più ne ha più ne metta (insomma, una goduria per i golosi più impenitenti!) mostra, con giusto orgoglio, le indubbie capacità pasticciere della cucina.

A contorno di tutto ciò c’è poi un buon servizio, giovane e volonteroso, che ruota più che bene sotto lo sguardo di Ivana Palluda, sorella di Davide. E una carta dei vini che, seppur non immensa per ciò che è al di fuori del Piemonte, lo è invece per la regione sabauda. Sicché fra Baroli, Barbareschi e Roeri (come, per esempio, una eccelsa Riserva Trinità, annata 2009, di Malvirà, consigliata con competenza da Davide, e che difatti nulla ha da invidiare alle etichette dell’altra sponda del Tanaro) non si faticherà a trovare una degna bottiglia per accompagnare sì tanta cucina!

La Galleria Fotografica:

Il gioco di cantina

L’avevamo conosciuto nella nostra ultima visita, quello di Cantine Morbelli come autentico avamposto avvezzo anche a virtuosismi tecnici francofoni. Se royale, pithivier e beurre blanc avevano destato magistralmente il nostro interesse, ci siamo ritrovati nella nostra nuova visita a vivere un nuovo cursus in questo ristorante della distinta Ivrea. Sia ben chiaro, il padrone di casa è sempre lo stesso Roberto Bordone. Grazie al suo servizio di sala di affabile calore, l’ospite trova il tempo per rilassarsi e al contempo lasciarsi condurre alla scoperta di tante etichette proposte frutto di ricerca e amore per il vino. Ciò che troviamo di nuovo è il vertice della brigata di cucina con Dennis Iaccarini che vanta all’attivo esperienze internazionali dove brilla quella con Heston Blumenthal al Fat Duck.

La virtuosità di Iaccarini, passa per una solida tecnica applicata a quanto di meglio ha da offrire una regione opulentemente goduriosa come il Piemonte. Un percorso dove poter prendere il singolo piatto oppure farlo proprio a mo’ di tapas, cedendo voluttuosamente nella quasi completa sequenza di ciò che Cantine Morbelli propone. Gli elementi locali vengono preconizzati di piatto in piatto. Ad aprire le danze ci pensano le bombette di Vitello tonnato, dove la salsa si schiude al singolo boccone. Il Tonno di coniglio accompagnato dalla pungenza della senape, trova il vigore dell’arrostitura grazie alla Tuille di pelle di pollo che racchiude i morbidi filetti. Le Acciughe invece sono unite all’amaricante spinta della cicoria saltata, al locale Seirass e inaspettatamente, alla liquirizia. Ambizioso tentativo, in una verticale aromatica in cui il Seirass fa da anello di congiunzione a tutte le componenti.

La sequenza incalza, e lo si capisce subito che Cantine Morbelli è un luogo dove la dimensione ludica si intreccia in quella gastronomica, rivelando la capacità trasversale di questo locale di allinearsi perfettamente con i desiderata di ciascun cliente. Il Canevese e le vicine montagne valdostane, d’altro canto fanno la loro parte sul vino e tra un calice di Carema ed Erbaluce, segue il Bao con battuta di Fassona, bagna cauda e cavolo marinato oppure il Tajarin, dalla grande mantecatura, con mandorle fermentate, olio al pompelmo e caviale di coregone. Capitolo dessert in linea per creatività e forbita esecuzione.

La Galleria Fotografica:

La passione della famiglia Vaira in orizzontale

L’annata 2018, a Barolo, è stata definita da molti «di stampo tradizionale»: l’andamento climatico – con frequenti precipitazioni sino a fine maggio, e temperature più fresche rispetto al 2017 – ha permesso lo sviluppo e la maturazione omogenea di bei grappoli, con buone gradazioni zuccherine e ottimi livelli di acidità. Chi ha ben vinificato, interpretando l’annata in chiave elegante più che muscolare, non ha fatto fatica a ottenere vini marcati da bellissimi spettri aromatici, da giusta freschezza, da tannini vellutati e già integrati, e da sinuosa morbidezza. Vini – quindi – “pronti”, capaci di esprimersi già nella loro giovinezza con una completezza e complessità soddisfacente.

L’ennesima conferma in tal senso è arrivata nel corso di una degustazione della batteria dei Barolo 2018 della cantina G.D. Vajra, una delle realtà più solide della denominazione. Guidata da Aldo e Milena Vaira, ora affiancati dai figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, quest’azienda continua a rimanere un esempio di come l’accoppiata “tradizione-innovazione” possa essere declinata al di fuori di schemi precostituiti, di gesti predeterminati, di usi prestabiliti. Al contrario, per i Vaira, l’intuizione sfuma nell’azzardo. E l’acume nella scommessa.

Qui è sempre stato così: sin da quando, appena rientrato dagli studi a Torino, il giovanissimo Aldo compie la sua prima scelta ‘controcorrente’: riprendere in mano il vigneto di famiglia, le cui uve sino ad allora venivano vendute ad altri, e vinificare in proprio. Una scelta dalla quale subito ne scaturiscono altre: con incredibile lungimiranza, nel 1971, Aldo aderisce al movimento Suolo e Salute, diventando uno dei pionieri dell’agricoltura biologica in Piemonte. Seguono poi – solo per dirne alcune – la selezione massale per il Dolcetto Coste&Fossati (1979), la Freisa coltivata nel celeberrimo Bricco delle Viole (1980), il primo impianto di Riesling renano in Langa (1985).

Scelte che, come ama ricordare Milena Vaira, trovano un proprio fine e un proprio significato nel trinomio «territorio, annata, persona», ovvero i tre “attori” protagonisti che “costruiscono” il vino, plasmandolo intimamente, in una sorta di comunione espressiva.

Ecco, proprio l’espressività è uno dei cardini della “filosofia Vajra”: non ci sono infingimenti in bottiglia, ma solo (“solo” che è da intendersi in senso diametralmente opposto a quello di diminutio) il vino per ciò che è il suo terroir, per ciò che il tempo meteorologico gli ha concesso, per ciò che gli individui gli hanno donato. Gioia e dolore, felicità e scoramento, passione e tormento: perché il vino è un affare “umano, troppo umano” – per dirla con Nietzsche – e proprio per questo continua ad avere quella profonda aurea di fascino e di mistero che lo avvicina terribilmente alla sfera divina. Un caleidoscopio di colori cangianti, di espressioni complesse, di sentimenti avviluppati: insomma, «il dolce soffrire che fa muovere il mondo» (Olindo Guerrini), ecco cosa si cela dietro quel tappo di sughero! Ed è ancora Milena che, mostrando le istoriate vetrate che illuminano la cantina, opera di padre Costantino Ruggeri (sì, proprio lui, il grande innovatore dell’arte e dell’architettura religiosa del Novecento), confida come quei rembrandtiani squarci di luce policroma siano «vita» e «grazia». E rappresentino plasticamente il rapporto simbiotico che lega, con «scienza e coscienza», l’uomo e la natura.

I Baroli 2018

La degustazione, dopo un assaggio dell’epitomatico Langhe Nebbiolo (bottiglia segnata da una fresca croccantezza di frutto e fiore e da un sorso coinvolgente ed elegante), si è aperta con il Barolo Albe, etichetta nata dall’assemblaggio delle uve di tre vigneti diversi (Coste di Vergne, Fossati, La Volta, tutti nel comune di Barolo) per altitudine ed esposizione. Di un brillante colore rubino tendente al granato, Albe si svela, tanto al naso quanto in bocca, un Barolo d’impostazione classica: piccoli frutti rossi, fiori, lievi toni balsamici aprono a una verticalità improntata a note di terra e di sottobosco. Il palato rimane conquistato più dalle durezze che dalle morbidezze: il tannino appare integrato, la mineralità cesellata con attenzione, l’acidità ben salvaguardata. Una buona persistenza e un’ottima armonia completano il quadro, all’insegna di una eleganza improntata a freschezza e godibilità. (90/100)

Assai differente, invece, il cru Ravera (vigna posta nel comune di Novello, a oltre 300 metri d’altezza) che propone una espressività assai diretta, spiazzante, e quasi selvaggia. Il colore – un rubino più concentrato al centro del bicchiere, e un’unghia assai più scarica – è preludio a un prospetto olfattivo di bella ampiezza ove trovano spazio, oltre agli immancabili frutti rossi (evidente il lampone) e a note floreali, un variegato mondo di espressioni balsamiche e minerali che spaziano dalle erbe aromatiche (timo limone su tutte) a sensazione di terra rossa. Anche al sorso il Ravera mostra il suo carattere ancora “selvaggio” (che, è lecito supporre, col tempo sarà ricondotto a una dimensione di armonia complessiva). La nerboruta mineralità, dal tratto sin ferroso, dialoga serratamente con la morbidezza di alcoli e polialcoli, mentre il tannino, seppur finissimo, appare a tratti ancora in fase di levigazione. La persistenza è lunga, l’armonia già buona, ma certo migliorerà ulteriormente negli anni a venire. Un vino che – secondo chi scrive – ha tutte le carte per attraversare il tempo e regalare future emozioni. (88/100)

Sofisticato, femminile, suadente è invece il Costa di Rose (vigneto posto a Barolo, al confine con Monforte). La vigna, piantata su un suolo dominato da arenaria bianca originatasi nel tortoniano (fra i sette e gli undici milioni di anni fa), dona un vino di un’eleganza estrema. Al naso colpiscono subito sia i chiari aromi floreali (fra cui i petali di rosa) sia quelli fruttati (più ciliegia che frutti di bosco) che si distendono su un sottile sostrato erbaceo e balsamico e su una magnifica mineralità di polvere di pietra marina. Tutte queste percezioni si ritrovano in bocca, con estrema coerenza, pulizia e ordine. Le morbidezze (ben modulate e bilanciate dall’acidità) dialogano ampiamente con tannini quanto mai vellutati e con un minerale quasi salato. Il vino appare di corpo assai elegante, di grande armonia, di ottima persistenza e intensità. (92/100)

Vessillo della produzione Vajra continua a essere il Bricco delle Viole, etichetta proveniente dall’omonimo cru, sito a Barolo. La vigna – la più alta del comune (400-480 metri) e la più vicina alle Alpi – gode di una condizione microclimatica eccezionale: l’esposizione Sud (che permette un perfetto irraggiamento lungo tutta la giornata), l’escursione termica, l’età media delle viti (fra i sessanta e i settanta anni) e il terreno ove predominano arenaria e ciottoli donano un vino di profonda espressività, di fine eleganza e di notevole complessità. Si rimane subito ammaliati dal colore – un bellissimo granato – dall’ampio e fragrante ventaglio olfattivo, predominato da fiori (viola e rosa), da piccoli frutti e bacche (di bosco e d’albero), da toni balsamici e da una fresca verticalità che rimanda alla grafite e alla pietra. Al sorso, davvero voluttuoso, il Bricco delle Viole dipana con sontuosità la sua freschezza e la sua mineralità, accompagnate da adeguate sensazioni caloriche. La struttura è importante, ma non pesante: il tannino appare finissimo, e l’architettura polialcolica pare essere un arazzo che lega fra loro i molteplici elementi del vino, accompagnando e sostenendo il fine sorso con lunghezza, precisione, armonia e intensità. (92/100)

In coda si è lasciato l’assaggio del Barolo Baudana (siamo a Serralunga), prodotto dalla omonima cantina, acquisita dalla famiglia Vajra nel 2009, quando i precedenti proprietari – Luigi e Fiorina Baudana – hanno individuato in Aldo e Milena coloro che con amore e rispetto avrebbero potuto continuare a coltivare quei 2,6 ettari da sempre proprietà dei Baudana. L’impronta del vino è assai differente: qui infatti predomina il più antico elveziano, con strati di marne e calcare alternati ad argilla. La potenza delle percezioni trova comunque espressione in un’eleganza dal tratto raffinato, e sin quasi rarefatto: al naso, per esempio, la piccola frutta rossa e nera cede il passo alla prugna, alla marasca e al nobile Durone di Vignola. I toni erbacei virano sull’eucalipto. Mentre la mineralità si esprime in una grafite carboncino. In bocca si avverte tutta l’imponenza della struttura e l’importanza dei tannini: la freschezza della gioventù è già comunque ben bilanciata dall’estratto e dai polialcoli. Facendolo roteare in bocca il vino si apre, concedendo uno spiraglio d’abisso: se ne intravede quello che potrà essere lo sviluppo. Ecco allora che, al posto dell’austerità iniziale, appaiono volute d’eleganza, la forza assume tratti femminili, e l’intensità si accompagna all’eccellenza. Per una bottiglia grande ora. E che certo molto di più lo sarà in avvenire. (91/100)

Il Centro della cucina piemontese

Raccontare di uno dei propri “luoghi del cuore” è arduo. Il rischio di cadere nella banalità dell’iperbole, nello sdilinquimento del sentimentale o nella svenevolezza del lirico è sempre in agguato. Per ovviare a questi rischi c’è solo una strada che si può imboccare: quella della oggettività. E allora, oggettivi per oggettivi, si parta da un basico elenco: giusto gli elementi essenziali, tralasciando gli arzigogoli. Cosa si chiede a un ristorante? Che proponga ottimo cibo. Che siano improntati a cordialità e accoglienza atmosfera e locale. Che sia giustamente assortita la cantina. Che altro potrebbe desiderare in più l’avveduto avventore?

Ebbene, tutte queste condizioni (basiche ma tutt’altro che scontate) non solo vengono soddisfatte, ma ampiamente appagate all’ennesima potenza da Il Centro (Priocca d’Alba), l’elegante insegna della famiglia CorderoOmen nomen si potrebbe dire, perché davvero Il Centro è il centro – di gravità permanente… – della gloriosa cucina piemontese, con il suo misto di piatti aristocratici e di povere pietanze di campagna. È davvero il punto di convergenza, il luogo dei molteplici precipitati, ove si sublima una tradizione complessa e stratigrafica come poche. Ove le ricette del passato incontrano i modi del presente, trasformandosi in futuro. Ove i prodotti regionali diventano vessilli di gusto, innalzati controvento all’omologazione e all’ignoranza.

La gialla casa che ospita il ristorante, sulla strada principale (e unica) che porta alla chiesa neogotica che troneggia in cima al paese, ha i muri spessi. Come sono larghe le spalle di chi vi lavora. Come è grande il cuore di chi vi abita. È lì da tempo immemore, ma i suoi battenti si aprono alla famiglia Cordero nel 1956. Tutto inizia in una tiepida notte di giugno: Pierin Cordero sente bussare all’uscio.

Apre con un po’ di titubanza e si trova di fronte due personaggi noti che, senza troppi indugi, lo invitano a comprare Il Centro. I due uomini – due mediatori – lo avevano individuato come il più idoneo a dare continuità a una insegna che da oltre cento anni proponeva, fra Cuneo e Asti, una delle migliori cucine del territorio. Erano certi che Pierin sapeva il fatto suo ai fornelli perché aveva una lunga esperienza maturata come aiuto cuoco di un ristorante ai tempi molto in voga ad Alassio. Non che il prezzo fosse del tutto abbordabile – due milioni di lire nel ’56 erano soldi – ma di buon mattino l’affare è fatto. Pierin, con la moglie Rita, si rimbocca subito le maniche per cominciare a delineare quella che sarebbe stata un’epopea che continua ancora ai nostri giorni.

«Ricordo – dice il figlio di Pierin, Enrico, che ora gestisce Il Centro assieme a sua moglie Elide e a suo figlio Giampieroche in cucina fu nonna Lidia ad aiutare i miei genitori. Allora avevo quattro anni: nonna Lidia portò conoscenza ed esperienza, maturate attingendo allo straordinario compendio di quella cultura gastronomica popolare in grado di trasformare una risorsa povera in piatti di eccellenza. Fu grazie a lei che la fama del Centro crebbe rapidamente, consentendo ai miei genitori di acquistare anche i muri dell’immobile».

Al fianco di Lidia, anche Rita porta il suo contributo, imparando velocemente a gestire la cucina, tenendo ben salda la rotta quando, nel 1970, Pierin viene a mancare. Enrico, appena maggiorenne, interrompe gli studi per aiutare la madre e prendere in mano la gestione del Centro: «All’inizio non fu facile, abbiamo avuto difficoltà e fatto sacrifici, ma grazie al sostegno dei tanti che avevano iniziato a frequentare il Centro con assiduità siamo riusciti ad andare avanti. Mia madre rimase fedele alla cucina che le aveva insegnato mia nonna: una cucina territoriale e genuina. Autentica nel vero senso della parola. Le persone arrivavano anche da molto lontano per i suoi tajarin, la sua finanziera, il suo fritto misto».

Nel 1983, quasi per caso, la moglie di Enrico, Elide (che lavorava in una nota azienda di abbigliamento della zona), entra nella cucina de Il Centro. La suocera, intuendone capacità e passione, come già era accaduto a lei con Lidia, le lascia sempre maggior spazio, trasmettendole le proprie conoscenze. Elide, abbandonato l’impiego, inizia, da autodidatta, ad affiancare Rita ai fornelli: «Io sono cresciuta con i profumi e sapori di una cucina di casa. E all’inizio per me sono stati fondamentali gli insegnamenti di mia suocera e di mia mamma Francesca».

Piano piano, Elide, spinta dal desiderio di perfezionare ulteriormente le proposte, inizia a imprimere ai piatti una sua impronta personale, pur nel rispetto della tradizione. La cucina evolve in grazia e con enorme senso della misura: i profumi e i sapori diventano ancora più netti e puliti, e le ricette sono ulteriormente alleggerite, sempre tenendosi al passo del gusto contemporaneo e senza mai tradire la memoria, il territorio, i suoi straordinari prodotti. Dal 2016 Elide è affiancata da Joan Marc Espadas, giovane cuoco spagnolo con grandi esperienze internazionali e una vibrante passione per la cucina piemontese. Affascinato dall’atmosfera che si respira a Il Centro ne ha sposato l’idea guida: recuperare le antiche ricette della tradizione, reinterpretandole nella tecnica.

Gusto e tradizione. E grandissimi vini in cantina

L’ospite che prende in mano per la prima volta la carta de Il Centro in genere rimane sorpreso tanto sono invitanti e golosi i piatti proposti (che mutano di stagione in stagione): cosa scegliere quando si vorrebbe provare tutto? Prosciutto (in realtà culatello) in gelatina o trota in carpione? Attraenti pure le animelle con funghi e rucola… ma come rinunciare a un assaggio di Carne cruda battuta al coltello, di Vitello tonnato o di Insalata russa? E i primi? Altro dilemma… Tajarin o Agnolotti? Risotto con le rane o gnocchi coi porcini? Per non dire dei secondi piatti… il tenerissimo Codone di Vicciola (razza Piemontese allevata a nocciole) o le Lumache al verde? La Lingua in salsa giardino o il Piedino di maiale ripieno di funghi e agrumi?

Piatti che sono, invariabilmente, un trionfo di gusto, un tripudio di aromi e sapori. Ma la mano in cucina è salda, e sfugge le facili sottolineature. Rimanendo leggera, femminilmente eterea, si muove nella sicurezza della conoscenza tanto delle materie prime quanto della tecnica. Così, un esempio su tutti, l’Anguilla (spellata solo per metà) è vivacizzata da melograno e cipolle, ed è accompagnata da una geniale riduzione di anguilla e aceto, colata al tavolo direttamente sul trancio. Lo spunto acetico che penetra nelle carni crea una sorta di cassa armonica di risonanza, stemperando la grassezza, bilanciando la tendenza dolce e avviluppando il palato in molteplici sensazioni vellutate. 

La passione per la ricerca e la tensione alla perfezione è tratto che accomuna Elide a Enrico e ai loro figli Valentina (che lavora negli Stati Uniti) e Giampiero. In questo senso Il Centro è un progetto in costante evoluzione: lo è sempre stato, sin dai tempi di Pierin. Enrico, per esempio, ha costruito negli anni solidi rapporti con agricoltori, allevatori, casari e fornitori, così da potersi garantire ingredienti di nicchia di altissimo livello. Ugualmente, anche per le sue doti di grande umanità, ha creato solide amicizie con tutti i più noti produttori di vino del Piemonte, riuscendo quindi a organizzare una cantina fornita come poche.

Su questa strada lo ha seguito e quindi affiancato il figlio Giampiero che, dopo essersi diplomato in Enologia ad Alba, ha maturato diverse esperienze nel settore del vino e della ristorazione. Ora è Giampiero a curare una carta dei vini assai ricca, che spazia dalle grandi etichette langarole e roerine al resto d’Italia, e poi alla Francia e alle più note zone vitivinicole del mondo. Però, Piemonte a parte, è la Borgogna la grande passione di Giampiero. Una passione coltivata negli anni e alimentata da innumerevoli viaggi fra Beaune e Digione che lo hanno portato a conoscere personalmente tutti i più blasonati (e irraggiungibili) produttori di quella straordinaria regione.

Ma – si diceva – la passione spinge continuamente la famiglia Cordero verso nuove sfide. Da alcuni anni Elide ha impiantato, poco lontano dal locale, un orto: l’appezzamento di circa 100 mq rifornisce il ristorante di verdura, fiori ed erbe fresche, coltivati in maniera naturale, senza l’utilizzo di pesticidi e trattamenti chimici, per esaltare al massimo le caratteristiche organolettiche di ogni prodotto.

Altro importante progetto è infine quello di Dimora Cordero, un affascinante relais di charme in una antica casa, aperto nel 2019. Posto ad appena venti metri dal ristorante, conta sei meravigliose camere, affacciate sulle colline del Roero, con giardino, zona benessere e piscina. Un luogo che, per la raffinata eleganza dei dettagli, è la naturale prosecuzione del ristorante. E dove è obbligatorio fermarsi a dormire per vivere appieno un’esperienza al ‘centro’ della grande cucina piemontese.

La Galleria Fotografica:

La storia del Piemonte

È difficile non entusiasmarsi ripercorrendo la vicenda imprenditoriale di questo storico brand, un viaggio nella storia del Piemonte e dell’Italia del vino attraverso quasi un secolo e mezzo di vita. Era il 1878 quando a soli 23 anni Enrico Serafino si stabiliva da Romano Canavese a Canale e da perfetto neofita iniziava a produrre Barolo, Barbaresco e Metodo Classico.

L’azienda cresce e si afferma e i suoi vini raggiungono grazie alla vicina ferrovia e all’apertura del tunnel del Gottardo l’Italia, ma anche l’Europa e le Americhe, il desiderio di competere porta l’azienda piemontese a brillare nella prima Esposizione Universale di Parigi del 1900, conquistando quattro medaglie, con il Barolo 1897, il Nebbiolo Secco 1898, il Barbera Secco e il Vermouth Rosso. Nel 1918 dopo aver raccolto successi di ogni tipo, i solenni apprezzamenti di Casa Savoia e il Cavalierato, il patriarca Enrico Serafino viene a mancare. Saranno i figli a continuare nel segno tracciato dal fondatore dimostrando piglio imprenditoriale e visione, tanto che è il Grignolino della Enrico Serafino ad essere servito in una cena di gala al Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson in viaggio in Europa al termine della Prima Guerra Mondiale.

Le solide radici di un’azienda tra le più antiche e riconosciute del Piemonte vitivinicolo sapranno confermarsi anche in seguito, dedicando risorse ed energie al Metodo Classico piemontese quando era solo un’idea. Nel 1994 l’ingresso nel “Consorzio dello Spumante Metodo Classico – Progetto Alta Langa”, poi le sperimentazioni con i primi 20 ettari di vigneto e la prima vendemmia nella storia della Denominazione.

Tra le date focali, il 1997 quando nasce la prima bottiglia di Alta Langa Docg; il 2004 quando viene commercializzato lo ZERO Alta Langa Docg, primo Pas Dosé nella storia della Denominazione; il 2018 che con lo Zero Alta Langa 140 mesi DOC 2005 si conferma il metodo classico italiano con il più lungo affinamento sui lieviti; il 2014 dove sempre l’Alta Langa Zero, conquista il podio di Miglior Vino Spumante Italiano secondo la Guida Vini del Gambero Rosso. Un percorso luminoso quello della Enrico Serafino, che dal 2015 prosegue grazie alla famiglia Krause Gentile e continua a produrre piccoli capolavori per la gioia degli appassionati.

La degustazione

Enrico Serafino Zero 140 – Alta Langa Docg Pas Dosé 2009

Un Pas dosé che non teme l’invecchiamento anche fino a quindici anni, particolarmente coinvolgente, frutto della competenza e dell’estro dell’enologo Paolo Giacosa, che mi ha colpito per eleganza, freschezza e intensità. Vigneti tra i 25 e i 28 anni che si originano su rilievi tra i 450 e i 550 m s.l.m. improntati a una viticoltura sostenibile, che prevede raccolte manuali, una permanenza di 140 mesi sulle fecce con sboccatura tardiva e assenza di liqueur d’expédition. Sentori di noci pekan, arancia, bergamotto candito, vaniglia, miele di corbezzolo. Al palato cremoso, corposo, suadente, con finale lungo e persistente.

Vitigni: 85% Pinot Nero – 15% Chardonnay

Suoli: calcareo, argilloso

Allevamento: Guyot

Zona: Alta Langa (vigneti Mango, Loazzolo, Bubbio)

Prezzo: 125€

Altrettanto godibili e coinvolgenti i tre vini che vi consiglio di seguito, che hanno caratteristiche per certi versi molto simili e ho trovato stimolanti e di grande piacevolezza:

Cabochon Monterossa 2014

Methius – Dorigati Trento DOC

Marcalberto – Marcalberto Alta Langa