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Erba Brusca

Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano

Ha aperto da poco più di due anni, il “ristorante con orto” voluto da Alice Delcourt e dal gruppo di ristoratori già artefice delle fortune del Ratanà e si è già conquistato un posto d’onore sulla piazza milanese. Grande visibilità mediatica, buoni riconoscimenti sulle guide e larga eco tra il popolo dei gourmet. Insomma, un successo.
E la cosa non stupisce più di tanto dal momento che questo piccolo locale sul Naviglio Pavese ha con grande intelligenza fatto propri alcuni temi vincenti nel mondo della gastronomia dei nostri giorni.
A partire dal famoso chilometro zero. Che qui è declinato all’ennesima potenza dal momento che alle spalle del ristorante c’è l’orto. Dove Alice Delcourt, sulla scia di Michelle Obama, coltiva molte delle erbe aromatiche e degli ortaggi utilizzati in cucina. Scelta intelligente, biologica, che indubbiamente piace e riscuote consensi.
Ma Erba Brusca si distingue anche per una certa essenzialità, una attitudine spartana che, si sa, in tempi di crisi non fa mai male. Il locale non è bellissimo (soprattutto durante la stagione invernale in cui non si può godere del dehors che dà sull’orto), le tovagliette sono di carta, qualche tavolo è davvero sacrificato, in bagno non abbiamo trovato l’asciugamani e in sala si marcia ma non si dispensano grandi sorrisi.
Insomma, qui si viene essenzialmente per godere della cucina della Delcourt e per spendere il giusto. Ed è inutile sottolineare come a Milano offrire buona cucina a prezzi umani sia una mossa vincente.
E la cucina della Delcourt è buona anche se non ci sembra dare pieno spazio alla concentrazione dei sapori.
Territorialmente non incardinata in binari ben definiti – d’altra parte la chef è francese, di madre inglese e con un vissuto a stelle e strisce – la cucina di Erba Brusca è cucina globale. Accanto ai buoni prodotti dell’orto, infatti, la chef propone con successo preparazioni e ingredienti non proprio a chilometro zero come il buon tonno Bonito che abbiamo gustato in una riuscita versione Tataki.
In linea generale si fa apprezzare la grande attenzione alla stagionalità dei prodotti, e una bella leggerezza di fondo anche quando si affrontano piatti ricchi come il Risotto crema di rucola e lardo. Tecnicamente la cuoca c’è, niente da dire e la cena risulta assolutamente gradevole. Nessun piatto (fatta eccezione per il pre-dessert) denota errori di esecuzione o concezione.
Forse quello che manca è il piatto del KO, quello che non dimentichi, quello che fa la differenza. Ma in fondo poco importa.
Insomma, siamo di fronte ad un ristorante che mantiene quello che promette: una cucina buona e leggera, tecnicamente valida, in un ambiente easy e con un conto umano. A Milano.
Un posto in cui si ritorna.
Ad Majora

Tataki di Bonito con capperi, pompelmo e panna acida all’erba cipollina.
tataki, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Molto buona l’Insalata di puntarelle alla romana con uovo poché.
insalata di puntarelle, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Vellutata di cavolfiore con saba ed erba brusca.
vellutata di cavolfiore, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Risotto con pesto di rucola e lardo.
risotto con pesto di rucola e lardo, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Piccione al forno con purea di sedano rapa e mele. Il piatto migliore.
piccione al forno, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Crema di crescenza con fichi
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Tarte tatin di mele con panna acida.
tarte tatin di mele con panna acida, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano
Parfait al cioccolato con olio d’oliva e fleur de sel.
parfait al cioccolato, Erba Brusca, Chef Alice Delcourt, Milano

In maniera molto semplificata possiamo suddividere gli chef in due macrocategorie. Ci sono gli chef istintivi, i veri e propri talenti puri, che lavorano con brigate ridotte all’osso, impegnati in prima persona in cucina e che hanno generalmente pochi coperti di autonomia e una linea di cucina spesso estrema e minimale. All’opposto ecco invece coloro che sono veri e propri chef-imprenditori, spesso titolari del ristorante ma non solo, coinvolti in più attività come ulteriori tavole, bistrot, collaborazioni, televisione e pubblicazioni, che coordinano e organizzano chilometriche brigate e, in qualità di Executive, difficilmente tornano a mettere “attivamente” le mani nei piatti.
Di questa seconda grande categoria Claudio Sadler è uno degli esempi più illustri: è uno dei tre bistellati meneghini; ha il Bistrot Chic’n’Quick, agile macinacoperti ma di solida e comprovata qualità; collabora e firma il menù del Nobile Bistrò in Corso Venezia e ultimo, ma per nulla marginale, ecco il Sadler Catering, vera e propria macchina da guerra nel settore eventi/matrimoni. Tralasciamo volutamente gli svariati libri e le comparsate televisive.

Focalizzando il discordo sul ristorante cardine, Sadler, è risaputo che sia uno tra i principali e più importanti ristoranti della città, ben frequentato dalla facoltosa e fidelizzata clientela milanese. Altrettanto noto è il fatto che lo stesso indirizzo sia tra i meno gettonati dal tam tam gourmet, poco considerato quando l’appassionato di alta cucina decide di mettere sul piatto determinati budget, che generalmente lo portano a frequentare altre mete, ritenute più attrattive, del panorama meneghino.
La causa di ciò non può risiedere certamente nell’ambiente, di alto livello, elegante e riservato, così come il servizio, solerte e discreto.
Probabilmente uno dei motivi risiede proprio nella cucina: nonostante sia anch’essa di indubbio livello, tecnicamente inappuntabile e con qualche piatto in grado di giocare in un campionato d’eccellenza, non guarda, o quantomeno non primariamente, a stupire il palato. Mira altresì a colpire attraverso l’aspetto estetico, l’opulenza e l’utilizzo di materie ricche ed esotiche, in maniera spesso eccessiva e pletorica. E’ questa la caratteristica principe della linea di cucina sadleriana, che comunque dimostra una sua personalità: fastosa e golosa in primis e, nonostante non la si possa definire greve, dai chiari tratti morbidi e accondiscendenti, con la tecnica a compensare la carenza di contrasti o di stimoli che la portino più in là del “molto buono”.
Un esempio su tutti il dessert: ananas, cocco, biscotto, gelato al cioccolato, menta. Assolutamente dolce, perfino saturo di ingredienti, non scorretto, piacevole ma straordinariamente gravido di eccessi.

Ulteriore piccola pecca, molto diffusa soprattutto quando si incontrano le parole “stellato” e “milanese”, è la carta dei vini: pur variegata e ricca, è soprattutto piena di proposte classiche e più debole sulle proposte più stimolanti per gli appassionati più curiosi. Ricarichi in linea con le due stelle.

L’elegante e distinta tavola
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Il benvenuto.
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I pani, in ottima varietà e in media tutti molto buoni.
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La prima portata del menù del Mercato: Insalata di gamberi rossi e scampetti con frutta compressa al profumo di lavanda e riso selvaggio soffiato.
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Bigoli di pasta fresca saltati in padella con funghi porcini e spezzatino d’astice alle erbe. Il piatto della serata, una “mari e monti” gourmet bilanciatissimo, con la spinta violenta del katsuobushi sia sotto l’aspetto dell’umami, che dell’apporto della nota affumicata. Notevole.
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Tonno alla plancia con croccante di carbone vegetale, fichi caramellati all’aceto balsamico e profumo di passion fruit. Come per il dessert, ottima materia ma risultato dolce, quasi stucchevole, senz’altro eccessivo.
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Il vino che ci ha accompagnato durante la cena: Cheval des Andes 2007, frutto di un blend ottenuto anche da vigne di Cheval Blanc piantate a Mendoza, dalla stessa proprietà di Cheval Blanc appunto. Buon taglio bordolese d’oltreoceano, forse un tantino troppo strutturato e “spallato”, ma sicuramente piacevole e ben fatto.
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Il dessert. Dolce Tropicale: ananas e cocco con biscotto e gelato al cioccolato.
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La “piccola” pasticceria con il caffé.
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“Siamo favorevoli allo spionaggio gastronomico”. Questa è la prima frase, stampata a caratteri cubitali, che ci si ritrova sul lungo menu (non solo nella dimensione del foglio) del Pont De Ferr. Una frase schietta e diretta che aiuta a comprendere la filosofia di cucina di un giovane e simpatico cuoco uruguagio che, trapiantato sul Naviglio Grande da qualche anno, utilizzando tecniche e idee prese qua e la spaccandosi la schiena nelle cucine di mezzo mondo, soddisfa il palato (e lo stomaco) del popolo della notte meneghina.

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Recensione ristorante.

Ecco l’aggiornamento di Fabrizio Nobili della recensione del passato autunno che fu curata da Orson e che come consuetudine troverete dopo questa.
Il Presidente.

Nicola Cavallaro ci mette nome e cognome, ci mette la faccia, ma non solo: Nicola Cavallaro mantiene le promesse.
Recensire un amico che conosci da oltre 6 anni e che hai seguito in tutto il suo percorso lavorativo prima ancora dell’apertura del ristorante che porta il suo nome senza essere eccessivamente benevolo o eccessivamente critico è per me estremamente difficile. Chi non vorrebbe sempre il massimo dell’impegno e dei risultati come una qualsiasi maestra educatrice teutonica con i propri alunni pur di non avere addossate responsabilità in caso di scarso rendimento?
Ciò non toglie che la valutazione precedentemente assegnata ora cominci a stargli strettina.

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Recensione ristorante.

Alle volte si pensa che “ la prima impressione è quella che conta”.
Altre, si viene sorpresi dalle persone, o dai ristoranti e ci si pente di aver dato giudizi affrettati fidandosi dei modi di dire.
Alla seconda visita da Nicola Cavallaro, in una serata di rara umidità che rende questo scorcio di Milano particolarmente affascinante e, a suo modo, bello, ero molto curioso di vedere in quale dei due casi saremmo rientrati, visto che nell’unica cena fatta da queste parti avevo registrato una sensibile differenza tra piatti d’assemblaggio e piatti cucinati, a netto vantaggio dei primi.

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