Passione Gourmet Langhe Archivi - Pagina 2 di 6 - Passione Gourmet

Marcalberto

Bollicine di Langa

Grazie all’invidiabile affidabilità qualitativa guadagnata nel tempo e attraverso una virtuosa quanto coraggiosa politica di acquisizioni (determinante la pressa “Marmonnier” Coquard per la spremitura delle uve, unica in Italia), la Marcalberto è diventata, in quasi trent’anni, una delle cantine di riferimento per il metodo classico italiano di qualità e, probabilmente, la bollicina piemontese più apprezzata tra gli appassionati italiani.

Il merito del suo successo lo si deve in primis a Piero Cane, affermato enologo della Langa astigiana, ma anche ai figli Marco e Alberto, a cui è dedicato il nome dell’azienda e che oggi gestiscono attivamente e scrupolosamente tutte le fasi del processo produttivo. I due fratelli hanno sicuramente ereditato dal padre la passione per la viticoltura e la vinificazione ma va anche evidenziato come, sempre più spesso, in questi giovani vignerons italiani si trovino analogie con quella che oggi in Champagne è definita la nouvelle vague: talento, entusiasmo, visione e preparazione, doti che, unite alla consapevolezza di essere i fortunati eredi di un piccolo patrimonio viti-vinicolo, ci consegnano cuvée di stimolante naturalezza e inestimabile valore, attraverso un savoir faire capace di esaltare la naturale attitudine dei propri luoghi di appartenenza verso la bollicina d’autore.

La Maison

L’azienda agricola Marcalberto nasce sul finire del secolo scorso, nel 1993, per la precisione, per opera di Piero Cane, ma è nel 1996 che risale l’imbottigliamento dei primi spumanti. Ciò nonostante, è solo con l’arrivo di Marco e Alberto, appunto, che la produzione aumenta e la maison prende vita attraverso una intransigente ricerca della trasparenza aromatica del frutto e una meticolosa attenzione in fase di estrazione. L’acquisto della “MarmonnierCoquard, la pressa tradizionale champenoise, è stato determinante in questo senso e permette una migliore delicatezza durante la fase di spremitura al fine di dare origine a mosti più puri, eleganti, espressivi, di grande calibro. Lo abbiamo già detto ma ci sembra il caso di ribadirlo: al momento è il primo e unico esemplare in Italia.

Marcalberto possiede 9 ettari vitati di proprietà situati nei comuni di Calosso, Cossano Belbo e Santo Stefano Belbo, con vigneti dalle altitudini che variano dai 250 ai 620 s.l.m. ed esposizioni differenti, così da poter avere una grande variabilità dei vini base; inoltre, le viti si trovano nel raggio massimo di 10 km dal centro di pressatura aziendale: altro aspetto fondamentale per preservare la qualità delle uve raccolte. Si coltiva principalmente Pinot Nero (circa il 65%), per il restante Chardonnay e, in vigna, ogni scelta agronomica è oculata e razionale, nel massimo rispetto della natura, dell’ambiente e della biodiversità.

I suoli, qui chiamati “terre bianche”, sono caratterizzati da calcare (che agisce da riserva idrica essendo in grado di assorbire acqua e restituirla alla vite durante i periodi di siccità) limo, tufo e sabbie; tutto questo conferisce ai vini verticalità ed eleganza, ma anche chiaroscuri, profondità e affascinanti note minerali.

Le cantine di Marcalberto, in cui avviene sia la vinificazione che l’affinamento, sono state ricavate in un’abitazione storica risalente al tardo ‘800 e l’approccio durante i processi di vinificazione è il più artigianale e meno interventista possibile. Senza mai perdere di vista quel legame saldo e imprescindibile tra purezza d’espressione, materia e precisione esecutiva, l’utilizzo del legno di varie dimensioni, dalla barrique alla botte grande, per la prima fermentazione e il successivo affinamento di entrambi i vitigni, accompagna l’orientamento enologico e stilistico fin dalle primissime vinificazioni. Non vengono apportate chiarifiche o filtrazioni, il tirage è tardivo, i dosaggi quasi assenti e bassissima è la solforosa aggiunta. Non a caso si chiama “Nature“, ovvero privo di solfiti aggiunti, il punto di arrivo di un processo che ha portato Marcalberto in questi anni a ridurre sempre di più l’uso della solforosa nei loro vini. Il lungo affinamento sur lies avviene, infine, nelle storiche cantine scavate nel tufo, dove la variazione di temperatura si compie in modo lento e graduale secondo l’andamento naturale delle stagioni.

In tempi recenti i locali di vinificazione sono stati trasferiti in una antica cascina a pochi passi dalla sede aziendale, altra piccola enclave nel centro storico del paese di Santo Stefano Belbo. Nella prestigiosa regione vinicola italiana da sempre identificata per i grandi vini rossi, la Marcalberto è riuscita a coniugare nelle sue cuvée immediatezza, delicatezza e profondità in misura sorprendente. A conferma che anche le bollicine di pregio sono nelle corde di questo territorio.

La Degustazione

Sansannée

60% Pinot Nero 40% Chardonnay

Annata base + 10% VdR da réserve perpétuelle

24 mesi sui lieviti

Dos. 5,5 g/l

Una personalità gratificante, un naso sottile e sfumato che si apre su lievi note fumé a dare spazio a timidi profumi – che si fanno più ampi a contatto con l’aria – di agrumi gialli, frutta bianca ancora croccante, roccia spaccata, resine. Una carbonica raffinata, infine, accompagna uno sviluppo gustativo affusolato e ampio, gustoso, fresco e dalla smagliante purezza sapida. Chiude con un respiro lungo in cui ritornano le suggestioni di roccia e agrumi.

Rosé

80% Pinot Nero (10% in rosso), 20% Chardonnay 

Annata base + 10% VdR da réserve perpétuelle

24 mesi sui lieviti

Dos. 6,5 g/l

I profumi, nitidi e ben definiti, miscelano il cassis alla grafite, le bacche di ginepro al ribes rosso, l’arancia rossa al lampone, la violetta al tabacco. La bocca, di materia cremosa e succosa di agrume, mantiene una bella tensione sapida con un’acidità che dona allungo e spessore. Di estrema piacevolezza, migliora a contatto con l’ossigeno.

Millesimo2mila18

70% Pinot Nero, 30% Chardonnay 10%

36 mesi sui lieviti

Dos. 3,5 gr – Sb. inizio 2022

Profilo elegante dove i profumi, all’inizio quasi balsamici, si arricchiscono via via di sottili note floreali, rosa rossa, lavanda, per poi sfumare sulle note nocciola, sottobosco, pietra spaccata, cenere di camino. Bella la modulazione del frutto, al palato, che si impreziosisce di note di burro, frutta secca, a rendere il sorso quasi felpato e che trova articolazione in una trama acido-salina a donare nerbo e ritmo. In persistenza, infine, sfuma su vibranti sensazioni di the verde, balsami e roccia. Ha fascino da vendere.

Millesimo2mila16

70% Pinot Nero 30% Chardonnay 10%

36 mesi

Dos. 3,5 gr  – Sb. Giugno 2020

Profumi intensi e complessi di nocciola, burro, lavanda, felce e liquirizia si posano su un palato ben registrato, ampio, teso, succoso di agrume, definito nella trama sapido-minerale e con una modulazione della carbonica davvero magistrale. Puro ed espressivo anche in persistenza, mai in debito di sapore, è per palati che amano le vibrazioni.

BlancdeBlancs

100% Chardonnay

36 mesi sui lieviti 

Pas dosé 

Registro aromatico trasparente e incisivo a fare da cornice a una mineralità che emerge senza esitazioni: note di pietra focaia, roccia, grafite, donano incisività a quelle più suadenti di nocciola, fiori, crema al limone, caffè. Eseguita in modo inappuntabile anche la bocca, intensa, ampia e minerale alla quale si aggiunge il pregio della tensione. Dal finale risoluto e minerale, è freschissimo e di grande personalità.

Nature

100% Pinot Nero

Senza solforosa 

2,8 g/l

Delicato e ben articolato nei suoi profumi di mandorla verde, burro, agrumi, fiori bianchi, possiede una bocca avvolgente ma tonica, dalla sapidità agile sfumata, con una carbonica ben modulata e finissima, e un affondo agrumato privo di flessioni. Possiede, infine, una persistenza di estrema trasparenza, capace di chiudere succosa e piena di rimandi. Puro e raffinato.

2012 S.R.Dégorgement 2021

MAGNUM

60% Pinot Nero 40% Chardonnay

8 anni sui lieviti

Sb. Fine estate 2021

Dos. 3,5 g/l

Tiratura limitatissima per questa cuvée frutto di una prova straordinaria che mette in evidenza il potenziale evolutivo degli spumanti Marcalberto. È esplosivo, luminoso, ampio e tenace, dai netti profumi idrocarburici – pietra focaia, cenere di camino – miscelati a quelli più fruttati di ribes bianco, ananas, a ricordarti certi riesling della Mosella. Ti tiene incollato al calice per solarità e dinamismo mentre il caldo ne alimenta le sfumature, che virano presto su note di torrefazione, povere di caffè, resine. Di una precisione stilistica da appalusi anche la bocca, ampia, scalpitante, succosa, ancora, di ananas, che sfuma su un’albicocca fresca. Estremamente salina la trama, fine e puntiforme la carbonica, per un finale lunghissimo che sfuma su vibranti sensazioni di agrumi e caffè. Capolavoro a tavola e ovunque.

L’enoteca del Roero

Si respira un’atmosfera di solide certezze salendo lo scalone che porta al primo piano dell’edificio (un tempo asilo) che ospita l’Enoteca regionale del Roero, nel pieno centro di Canale (Cn). Ma che ospita anche il localeAll’Enoteca – di colui che è stato capace, con coraggio, lungimiranza e un pizzico di giovanile avventatezza, di “sollevare il velo” e “accendere i riflettori” sulla cucina e sui vini di questa terra, a lungo e a torto considerata la sorella “sfortunata” delle Langhe.

Stiamo scrivendo – chiaramente – di Davide Palluda (classe 1971), un cuoco che, per la sua lunga storia e i tanti traguardi raggiunti, non ha bisogno di presentazioni. Gli appassionati di alta cucina lo conoscono da anni. Coloro che amano i grandi vini pure. Così come anche quelli che si recano in Piemonte per godere della bellezza dell’albese e dei suoi prodotti straordinari. Tutti, insomma, in questi ventisette anni (All’Enoteca ha aperto i battenti nel 1995) si sono seduti almeno una volta ai tavoli di questo ristorante, elegante senza essere affettato, fine senza essere pretenzioso, affascinante senza essere lezioso.

Una solida certezza, quindi, come appunto si scriveva all’inizio. E con ciò, dopo aver brevemente raccontato i piatti e affibbiato un voto numerico, si potrebbe chiudere la scheda e passare ad altro. Ma ci attenteremo invece a proporre qualche riflessione ulteriore, speriamo utile a tratteggiare un profilo più complesso del cuoco e della sua cucina. La prima riflessione riguarda il percorso intrapreso. Palluda e All’Enoteca sono stati i precursori di un modo “altro” e “alto” di interpretare e raccontare il Roero: i locali nati in seguito, così come le cantine e i produttori agricoli, dovrebbero riconoscergli una benemerenza per il lavoro, tanto nel tracciare un percorso di sviluppo quanto di promozione di un territorio, che ha svolto, e che tuttora svolge. Lavoro del quale, a ricaduta, in tanti, e in tanti settori, hanno tratto benefici. La seconda riguarda più propriamente la cucina di Palluda che è stata capace di evolvere negli anni, con costanza: ovvero senza stasi e pure senza strappi. Chi, per sua sventura, mancasse da tempo dai tavoli di All’Enoteca non faticherebbe a ritrovare uno “stile Palluda” nell’attuale proposta, uno stile che, non “passatista”, si esprime attraverso piatti al passo coi tempi. La terza riguarda più strettamente quello che abbiamo chiamato “stile Palluda”.

Davide non è un avanguardista funambolico. Il suo stile, di formazione classica (lo si può evincere, per esempio, dai Gamberi viola avec suace béarnaise), si esprime, quasi femminilmente, attraverso piatti seducenti e romantici che, nati da un’idea o da una suggestione (suscitate da un prodotto, da una ricetta di tradizione, da un abbinamento consolidato), prendono poi forma nell’incontro degli elementi. Gli esempi potrebbero sprecarsi, e qui ne facciamo giusto un paio. Un’idea, suscitata dalla materia prima, è appunto quella di assaggiare il Fassone Piemontese «dalla testa ai piedi». Una suggestione foresta quella di accompagnare l’agnello alla brace alla mediterraneità della foglia di cappero e di una salsa, di origine marocchina, a base di limoni salati e fermentati. La quarta considerazione riguarda la capacità che Palluda ha dimostrato nel saper industriare il proprio lavoro. Nel 2006 – infatti – insieme alla moglie Annalisa, ha aperto un suo laboratorio (cosa normale per i cuochi di oggi, ma non così scontata quindici anni fa) ove «mettere in barattolo quei sapori che andava studiando e proponendo al ristorante», secondo materia prima, tecnologia e ricerca. Una quinta riflessione riguarda la capacità di Palluda di essere ‘maestro’. Tanti sono i giovani che sono maturati nelle cucine di All’Enoteca: Enrico Marmo, Stefano Paganini, Andrea Bertini… (à propos, segnatevi questo nome!), solo per citarne alcuni fra mille. E tutti concordano nel riconoscere allo Chef grandi doti didattiche e umane.

Il piatto e il gusto

La carta di All’Enoteca non è vastissima, e propone anche un percorso di degustazione di otto portate (a un prezzo più che onesto: 110 euro) e, in stagione, una selezione di piatti di tradizione (cocotte di uovo e fonduta, tajarin…)che «abbracciano perfettamente il tartufo bianco». Sia che si scelga à la carte sia che si proceda col menù si andrà comunque incontro a piatti eleganti, ben pensati, preparati con materie prime di qualità, ben realizzati (uno degli atout di Palluda sono le cotture millimetriche) e dai gusti netti. Profumi e sapori di Roero, Langa e Liguria sono i protagonisti ma altri attori che giungono da più lontano, come per esempio nel caso del già citato agnello, fanno degna comparsa, variando con intelligenza su una partitura consolidata da metodo, tecnica e professionalità. Così se la Finanziera è una delle più buone che si possa mangiare – riconoscendo solo a quella «di Renzo» dell’Antica Corona Reale, a Cervere (Cn), il primato assoluto – i Ravioli di animella (aiutati anche dal tartufo nero) e i Ravioli di fagiano si dimostrano un concentrato di gusto. Di bella costruzione, nel susseguirsi in bocca delle diverse consistenze e dei diversi profili aromatici tendenti a un amaro clorofillico, è l’Insalata di lumache con prezzemolo, levistico e mela verde, addolcita dalle coscette di rana fritte in accompagnamento. Un tecnicismo più scoperto si avverte nella parte finale del pasto: dolci e piccola pasticceria, da sempre uno dei cavalli di battaglia di Palluda. La Crema affiorata, nel suo abbinamento a una estrazione di foglie di fico, richiama da un lato il profumo delle robiole affinate nelle lobate foglie del Ficus carica, dall’altro pare riprendere e approfondire uno spunto uliassiano (l’ormai nota «pasta alla Hilde»). Mentre il giocoso carrello della Petite pâtisserie, nella sua lunga teoria di pastine, cannoncini, dolcini, dolcetti, cioccolatini, frutta sotto spirito e chi più ne ha più ne metta (insomma, una goduria per i golosi più impenitenti!) mostra, con giusto orgoglio, le indubbie capacità pasticciere della cucina.

A contorno di tutto ciò c’è poi un buon servizio, giovane e volonteroso, che ruota più che bene sotto lo sguardo di Ivana Palluda, sorella di Davide. E una carta dei vini che, seppur non immensa per ciò che è al di fuori del Piemonte, lo è invece per la regione sabauda. Sicché fra Baroli, Barbareschi e Roeri (come, per esempio, una eccelsa Riserva Trinità, annata 2009, di Malvirà, consigliata con competenza da Davide, e che difatti nulla ha da invidiare alle etichette dell’altra sponda del Tanaro) non si faticherà a trovare una degna bottiglia per accompagnare sì tanta cucina!

La Galleria Fotografica:

La storia

Il percorso del Castello di Neive è punteggiato di piccole, grandi innovazioni, migliorie e finezze continue che l’hanno portato all’apice qualitativo che conosciamo oggi. La struttura, al centro del borgo del paese, vanta una storia centenaria, ripercorribile osservando gli stemmi di nobili famiglie che lo hanno abitato, dai Cissone ai Bongiovanni di Castelborgo, dai Candiani ai Riccardi-Candiani. Un castello fiabesco, che si pensa sia stato ultimato a metà del 1700. E con l’acquisizione da parte di Italo Stupino, nel 1963, la dimora è tornata alle sue antiche e primordiali origini, dopo importanti ristrutturazioni e una rinnovata volontà di produrre vino.

Un vino, quello di Neive, già noto ai tempi dell’enologo francese Louis Oudart che, originario della Champagne, si trasferì a Genova insieme al cugino Jacques Philippe Bruché, per fondare la propria Maison dedicata alla vinificazione delle uve piemontesi. Un’attività di négoce lungimirante, la sua, che si sviluppa con successo anche dopo l’incontro con Camillo Conte Benso di Cavour da cui sfocerà il primo nebbiolo secco realizzato proprio presso le cantine del Castello di Neive. E se a metà Ottocento le corrispondenze tra Italia e Francia erano all’ordine del giorno – quando si trattava di viticoltura, tra produzioni esistenti e studi delle varietà piantate nelle diverse regioni viticole – ecco spiegato il desiderio di piantare, a Neive e non solo, la bacca rossa più famosa d’Oltralpe, il Pinot Nero.

Intorno al castello, nei due ettari di vigneto “i Cortini“ – nome che sembrerebbe derivare dal diminutivo di Corti – oggi si producono vini a base Pinot Nero, uno spumante millesimato e una versione ferma, che negli ultimi anni ha subito non poche variazioni dal punto di vista produttivo e dunque stilistico. Le piante, originare della Borgogna, dagli anni Novanta hanno iniziato a condividere il proprio spazio con altri cloni, e la recente scelta di impiegare vecchie e giovani viti assieme, di vinificare col grappolo intero e di svolgere un affinamento in legno di secondo passaggio, hanno permesso al Castello di Neive di presentare un nuovo volto di questo vino: simbolo di eleganza e persistenza, finezza e bevibilità.

Il Langhe Pinot Nero

Brillante al colore, il Langhe Pinot Nero è un eloquio del suolo in cui nasce, appartenente alle Formazioni di Lequio, caratterizzate da strati di marne compatte grigie alternate a sabbia. Ma questo è solo uno dei migliori esempi dell’evoluzione costante di questo piccolo gioiello di Neive, distribuito in Italia dalla 2016 dalla famiglia Sagna di Revigliasco. Una sinergia prestigiosa, festeggiata con parte della rete vendita dell’omonima società di distribuzione lo scorso lunedì, per omaggiare la collaborazione e un percorso di crescita avvenuti negli anni al Castello di Neive, dalla storica consulenza degli enologi Vincenzo Gerbi e Gianfranco Cordero, all’acquisizione di un nuovo stabilimento produttivo, subito arricchito di tecnologie all’avanguardia per i processi di vinificazione e imbottigliamento. Cambiamenti ben percepiti dal mercato, per un meritato successo nello stesso che non è tardato ad arrivare; apprezzate sia la sensibilità dell’azienda nei confronti dei vigneti che la lettura e interpretazione delle annate, rilevate nel tempo sempre più compite e vincenti, in etichette di grande personalità.

Il Barbaresco Santo Stefano Riserva e il Barbaresco Gallina

Il parco vitato dell’azienda consta di 27 ettari, di cui 7 all’interno della MeGa Albesani dove si trova il vigneto Santo Stefano – gestito in monopole dall’azienda – dal quale nasce l’omonimo vino di punta, il Barbaresco Santo Stefano Riserva. Prodotto solo nelle migliori annate, la matrice tannica finissima, e più pungente nei primi anni di bottiglia, contribuisce ad ispessire un sorso che si distingue nella categoria per ampiezza ed eleganza. Un Barbaresco Santo Stefano elistico, affiancato da una versione d’annata, dal Barbaresco Gallina, dai tannini più ampi e un sorso decisamente più versatile – soprattuto negli abbinamenti a tavola – e da una versione di Barbaresco invece più classica e fine, che racchiude uve provenienti da diversi appezzamenti di proprietà.

L’Arneis Montebertotto e il Barbera

Castello di Neive è anche attenzione alle varietà tipiche del Piemonte, che si evince osservando il catalogo dei vini realizzati, in cui non mancano diverse tipologie di Barbera e Dolcetto, e un bianco dall’ottimo potenziale di invecchiamento: l’Arneis Montebertotto, prodotto a partire da tre diverse vendemmie per esprimere al gusto l’anima sfaccettata del vitigno. Un vino nato negli anni ottanta grazie alla preziosa collaborazione con l’Università di Torino – che ancora oggi continua – e che proprio nel vigneto sperimentale Montebertotto, nel 1982 ha svolto la selezione clonale dell’Arneis dalla quale si selezionarono quei cloni oggi ammessi nel disciplinare di produzione della Regione Piemonte (il CN15, il CN19 e il CN32). Recentemente è stata presentata anche una versione di Barbera senza solfiti aggiunti, che mostra la parte più croccante e verace dell’uva, un vino contraddistinto da una una grande succosità e acidità.

Dalla finanza alle Langhe

Per fare il vino, e farlo bene, ci vuole passione.
Quest’antica arte, al limite della sacralità, richiede investimenti ingenti sotto ogni punto di vista. Affinché un vigneto entri in produzione, ad esempio, ci vogliono anni e prima di allora bisogna identificare e acquistare il terreno ideale, quindi curare l’impianto e la crescita delle barbatelle senza che da questa attività si abbia un ritorno economico. Dopodiché bisogna stare in vigna ogni giorno, fisicamente, curare le viti, anticipare gli eventi atmosferici e tutto quello sterminato elenco di problematiche che possono insorgere nel tempo. Il tempo, proprio questo è ciò che in primo luogo esige la coltivazione della vite. Tempo e, ovviamente, denaro. Se non si è motivati dalla passione, difficilmente si deciderà di investire le proprie risorse in un’attività tanto faticosa e dispendiosa.

Ritorno alle radici

Eppure in tanti scelgono ancora oggi di crederci, di tornare alla terra per soddisfare quel richiamo ancestrale insito nel profondo. È il caso di Davide Fregonese, strappato al mondo della finanza senza alcun tipo di esperienza pregressa nel mondo del vino, senza apparente motivo. Se non, come si diceva, per quei felici ricordi d’infanzia che lo vedevano trascorrere le estati in Puglia, nella tenuta di famiglia, dove un po’ di vino si produceva per il consumo personale.

Trascorsi diversi anni e stappate numerose bottiglie, a dimostrazione di una passione mai del tutto sopita, nel cuore delle Langhe nasce l’azienda agricola Bugia Nen. Occorrono più di dieci anni perché Davide Fregonese riesca ad accaparrarsi un fazzoletto di terra in quella zona tanto ambita della denominazione che è Serralunga d’Alba. Ma volere è potere e, alla fine, l’occasione arriva e si traduce nell’acquisto di 0,75 ettari di Cerretta e, sei mesi più tardi, con l’acquisizione di un altro mezzo ettaro a Prapò.

Fare il vino è cosa seria, dunque le pratiche agronomiche ed enologiche sono affidate a qualcuno che lo fa per mestiere e sa farlo bene per davvero: Davide Rosso, dell’azienda Giovanni Rosso. Sono così gettate le basi per quella piccola produzione di Barolo che vede la luce nel 2014, con appena 4000 bottiglie suddivise tra i due vigneti. Oggi le bottiglie prodotte sono 7000, alle quali si aggiungono circa altre 1000 bottiglie di Langhe Nebbiolo Doc. Allo storico avamposto piemontese si è aggiunto un altro progetto, quello di fare “barolismo” sull’Etna. Proprio quest’anno, in contrada Montedolce, a Solicchiata, verrà inaugurata la cantina di proprietà, a coronamento del sogno trinacrio che fino ad ora ha visto la produzione di sole due annate di Etna Rosso Doc Riserva, la 2016 e la 2017.

La Degustazione

Barolo DOCG Cerretta 2017

Un terreno di appena 0,75 ettari quello sul quale si produce questo Barolo, esposto a Sud-Ovest ad un’altitudine compresa tra 250 e 350 m. Le viti impiantate tra il 1984 e il 2000 affondano le proprie radici in un suolo dominato dalla componente calcareo-argillosa, facendo così di finezza ed eleganza il timbro di riconoscimento del vino ivi prodotto. L’uva è vendemmiata a metà ottobre, quindi il mosto fermenta per 25 giorni in vasche di cemento, venendo sottoposto a rimontaggi quotidiani e délestage a metà periodo. L’affinamento si svolge in botti di rovere francese da 15 ettolitri, per un periodo che va dai 18 ai 30 mesi in funzione dell’annata.

Il risultato è un Barolo sottile, dotato di grande grazia e immediata comprensibilità. Al naso spicca la componente floreale, con la violetta in bella mostra. Segue una ciliegia ancora croccante e succosa, che sul finale lascia presagire sentori più complessi, di sottobosco e liquirizia leggermente accennata. Un vino che si distende sul palato con fare suadente, con tannini mai invadenti che cedono il passo a una freschezza piacevolmente dissetante. Il sorso invita a riportare il calice alle labbra più e più volte, mai del tutto sazie di questo nettare dal fascino spiccato. 92/100.

Barolo DOCG Prapò 2017

Il Barolo Prapò nasce da un vigneto impiantato nel 2000 su mezzo ettaro di terreno, prevalentemente calcareo, con una bella esposizione a Sud-Est e un’altitudine compresa tra i 270 e i 380 m. Sebbene il processo di vinificazione ricalchi quello utilizzato per il Ceretta, con giusto qualche giorno di fermentazione in più, il vino prodotto è significativamente diverso.

Si tratta di uno di quei Baroli austeri, di grande potenza, complessità e incredibile lunghezza che, tuttavia, hanno bisogno di tempo per aprirsi e mostrare tutto il loro potenziale. Praticamente un bambino il 2017, anche se il suo assaggio lascia presagire un futuro radioso. Una volta dischiusosi nel calice a prevalere è la componente fruttata, con piccoli frutti neri, come more e mirtilli. Seguono sensazioni speziate di chiodi di garofano e incenso e un lontano rimando di violetta. Al palato emerge una bella sapidità, accompagnata da una tannicità ben presente ma tutto sommato gentile. Buona freschezza, grande persistenza. 90/100.

* I vini di Davide Fregonese sono distribuiti da Partesa.

BaroloBarbaresco tra i più conosciuti al mondo

Identitaria, mitica, l’Etichetta Rossa. Ecco perché non è la prima volta – e non sarà l’ultima – che Passione Gourmet parla, ancora, di uno dei più grandi interpreti dei vini delle Langhe. 

Il successo di Bruno Giacosa nasce negli anni ’60, grazie a un immenso talento nel selezionare le uve giuste, acquistandole da altri proprietari, e trasformarle in eccezionali Barolo e Barbaresco. È il 1982 quando acquista il vigneto “Falletto“, a Serralunga d’Alba. A questo seguono altri acquisti come i vigneti di Barbaresco “Asili” e “Rabajà“, del 1996. Oggi gli ettari di proprietà sono venti, divisi tra i comuni di Serralunga d’Alba, La Morra e Barbaresco.

In lui c’è la capacità di capire l’uva e di interpretare le tecniche di vinificazione rimanendo fedele alla tradizione, ma con la forza di saper fare cambiamenti se ritenuto necessario (si pensi alla transizione dai tini di cemento alle vasche d’acciaio avvenuta qualche anno fa, per ricercare la massima pulizia nel vino, o la scelta di utilizzare grandi botti provenienti dalla Francia per un periodo non eccedente i dieci anni comparata con pratiche del passato che prevedevano un utilizzo delle botti grandi per molto più tempo), rese bassissime, macerazioni lunghe (anche se ridotte a un massimo di tre settimane rispetto ai due mesi di una volta), maturazioni in grandi botti di rovere francese per periodi che superano in alcuni casi i trenta mesi: questa la chiave di lettura di uno stile produttivo ormai consolidato, che ci regala bottiglie immense, che hanno fatto letteralmente la storia.

Etichetta rossa

I vini dell’Azienda Agricola Falletto derivano tutti da vigneti di proprietà e sono vinificati nelle proprie cantine di Neive. I vini con l’etichetta Casa Vinicola Bruno Giacosa, invece, derivano da uve acquistate da conferitori storici di fiducia, e vinificati nelle cantine di proprietà. La famosa e rinomata Etichetta Rossa di Barolo Le Rocche del Falletto è prodotta da uve Nebbiolo, coltivate nel rinomato cru di Serralunga d’Alba e affinato in botti grandi di rovere per 36 mesi.

Barolo Riserva Le Rocche del Falletto Magnum Bruno Giacosa 2004

È un assaggio fortunato ed eccelso, quello di una magnum del 2004 di questa mitica etichetta. Che si presenta di un colore rosso rubino profondo, con leggeri riflessi granati. Al naso, che continua a evolvere nel bicchiere, si alternano note di lampone e petali di rosa, e poi menta e note agrumate, di arancia sanguinella, su uno sfondo di tartufo nero, carne affumicata e goudron. In bocca l’attacco è dolce e morbido per un sorso perfettamente equilibrato in cui acidità succosa, tannino setoso e sapidità minerale cullano un frutto etereo donando al palato un gusto intenso. Il piacere è prolungato da un finale di grande persistenza aromatica e un retrogusto di caramella al lampone e spezie dolci, difficile da dimenticare.  La bocca corre rapidamente al sorso successivo, conscia che la bottiglia, pardon la magnum, è stata notata da tutti e sta per finire. Un vino stratificato, in cui armonia e piacevolezza rendono sensuale e semplice un vino di complessità e intensità uniche.