Uno dei più grandi interpreti delle Langhe
Quando assaggi un vino di Bruno Giacosa tutto quello che credi di sapere delle Langhe viene azzerato. Un uomo schivo che ha sempre mantenuto intatta la sua filosofia produttiva, da sempre noto per la sua inarrivabile capacità d’interpretare i vigneti e le uve che selezionava. Un’arte, la sua, che ha sempre avuto pochi eguali nella zona dell’albese e che sul finire degli anni Cinquanta, e sopratutto nella decade successiva, lo ha visto diventare un’icona, un punto di riferimento del Barolo e Barbaresco, un protagonista, tra gli attori delle due super denominazioni delle Langhe, ma soprattutto all’estero. Ripudiava la botte piccola, così come l’idea di impiantare cultivar francesi; ma ciò non ha mai fermato la sua curiosità. Ben noto infatti, oltre i rossi, il suo – perché si fregia del suo nome – metodo classico prodotto con uve dell’Oltrepo Pavese. Ma non è questo il punto. Con Giacosa, e con la sua magica etichetta rossa, ad esempio, o le bianche, è sempre un ritorno alle origini o, forse, un viaggio in un mondo parallelo per entrare nel “Matrix delle Langhe”, nella gola del nebbiolo.
Lo stile “giacosiano”
Il solo uso delle botti grandi realizzate da querce francesi, e la fortuna di riuscire a riempirle, lo hanno reso identificabile e decifrabile sin dagli esordi. Tant’è che oggi si parla di “stile giacosiano” o di “giacosiano” quando incontriamo vecchie bottiglie o quei giovani enologi che hanno passato qualche primavera nelle cantine assieme a Bruno e a un altro sommo talento della cantina, Dante Scaglione: enologo che, tutt’oggi, accompagna questi vini nella loro definizione, pulizia e che, con un tocco di austerità, li rende eternali. Giacosa, mancato all’età di 88 anni, ha lasciato in suo ricordo una Langa difensiva e combattiva, valori che portano ancora avanti il pensiero storico e tutelano le denominazioni.
Come detto, grazie alla sua capacità di selezionare, è stato tra i primi ad aprire la strada ad imbottigliamenti più specifici, quelli dei singoli cru, come si faceva in Borgogna, insomma. Ma oltre alle prime vinificazioni – la prima è del 1967 – ci sono stati gli acquisti di Asili e Rabajá nel 1966 e più tardi del vigneto Falletto, a Serralunga d’Alba (1982). Una mente geniale che, in quel di Neive, consigliava i colleghi su dove e come piantare Dolcetto – da lui sempre portato in tavola a pranzo – e Nebbiolo. La sua eredità è anche in questi pensieri, ricordati dai produttori albesi e, beninteso, nelle bottiglie che i collezionisti conservano con dedizione, siano essi semplici appassionati o professionisti della ristorazione, sebbene il suo volto non sia mai stato molto familiare al settore dell’Ho.Re.Ca.
Vini che rappresentano un sentimento che riporta alla scuola, agli insegnamenti, e a un passato che ti inseguirà sempre, e che chiunque nelle Langhe, per sempre, ricercherà, immobile nelle proprie certezze ma punteggiato di etichette che ancora riescono a stupire, forti di quanto accaduto negli anni ’60 quando i Barolo e i Barbaresco di Giacosa riuscirono ad imporsi nel mercato europeo e statunitense e a fare di lui un uomo che, ancora oggi, continua ad essere un grande Ambassador del vino italiano.
Bruno Giacosa: la produzione
Oggi gli ettari vitati di proprietà ammontano a una ventina, spalmati tra i comuni di Serralunga, La Morra e Barbaresco riconoscibili in etichetta per la dicitura “Azienda Agricola Falletto” ma anche da altre zone e quelle uve dei conferitoti storici, e nel Roero, dove si produce un soffice e godurioso Nebbiolo d’Alba in quello che viene considerato come il grand cru del Roero, la vigna Valmaggiore. Il protocollo di vinificazione prevede per tutti i vini, basse rese, macerazioni di almeno tre settimane e affinamenti in legni esausti e grandi di rovere francese. Ogni annata, a seconda dell’andamento climatico e della espressività dei diversi vigneti, vedrà vinificazioni e un’uscita nel mercato diverse per frazionare la produzione catalogandola con etichette bianche o rosse, queste ultime destinate solo alle Riserva.
Barbaresco Docg Asili 2015
Un sensazionale tannino, fitto e puntellato, totalmente avviluppato da un abbraccio di frutti blu; postica la verticalità del sorso, che resta salace benché modulata dalla sua stessa stilistica, riconoscibile per la sua accurata eleganza.
Barbaresco Docg Rabaja’ 2014
Tra linguaggio e disegno, un vino che esalta le differenze, rispetto agli altri Rabaja’ che troviamo in Langa, e la certezza di una precisa fattezza oggi già aperta e isolata in un gusto doppiamente saporito. Una polpa carnosa, tra aromi dolci e speziati, si amplia continuamente.
Barolo Docg Falletto Vigna Le Rocche 2012
Una potenza e una struttura intellegibili, è magnetico in una percezione spaziotemporale lunghissima, prolungata ancora da uno stratto più boschivo e umido. Agisce direttamente sulla mente, tra un richiamo boisé e di bacche blu, e si proietta tridimensionalmente al palato senza dimenticare la sua firma: il controllo assoluto e l’integrazione.
Barolo Docg Falletto 1997
Dal naso al palato, questa dolcezza fragrante è costruita in una sequenziale e uniforme successione di frutti e spezie: amarena, mirtillo e cumino, tutti spalmati con petali di rose. Sorso morbido, ravvivato da tannini gessosi e finissimi, intimi con un corpo che diventa più cupo e terroso. Arriva il momento di cogliere il gusto dell’evoluzione, forse un po’ accentuata ma governata ancora da una buona acidità. Il sorso restituisce complessità e raffinatezza con il frutto ancora in primo piano e tannini larghi che si fanno strada tra erbe aromatiche e note ematiche.