Krug vintage 2003
Una storia sibillina
Cominciamo con un antefatto: ovvero che questa bottiglia vide la luce, commercialmente parlando, all’inizio del 2014, ovvero prima della 2002 uscita, invece, nel 2016. Chi frequenta il mondo del vino e, in particolare, dello Champagne, è del resto più o meno avvezzo a questo tipo di salti avanti e indietro nel tempo. Sono le Maison a scegliere quale millesimo è pronto per debuttare, in barba alla successione, lineare, del tempo negli annali.
Ed è precisamente lo Chef de Cave – all’epoca dei fatti il timone tecnico della Maison di Reims era in mano a Henri Krug – a decidere, e lo fa sulla base di precisi parametri organolettici che, nel caso specifico della 2003, a distanza di 17 anni dalla vendemmia e di quasi 7 anni dal debutto sul mercato, restarono all’epoca, e invero ancora oggi, piuttosto interlocutori. Di certo, va pur detto che siamo al cospetto di un vino metamorfico e dinamico, un vino che manifesta una vivacità ineffabile – in barba a una delle annate più afose e siccitose della storia contemporanea – che, di certo, poco o nulla ha, oggi, a che vedere col concetto di maturità.
Ma chi conosce la Maison sa anche come questa abbia, soprattutto nei primi anni 2000, abdicato a quello stile – squisitamente ossidativo – che negli anni ’70, ’80 e ’90 ha prodotto miracoli di grandezza assoluta – come la splendida 1995, a nostro avviso migliore della 1996, ma siamo consci di dire qualcosa di impopolare – una grandeur data appunto da uno stile che, invece, a poco a poco ha sposato un approccio più riduttivo virando verso espressioni più contenute e più compassate le quali, per un certo periodo, hanno determinato il disorientamento dell’appassionato che, invece, proprio quella grandeur riconosceva come specie specifica di Krug e che solo in tempi recenti è stata parzialmente ritrovata con la 168ème edizione della Grande Cuvée.
La degustazione, oggi
Vediamo dunque che il millesimo 2003, vuoi per l’annata complicatissima – due gelate primaverili e caldo torrido in estate che hanno generato la vendemmia più lunga della storia della Maison: da agosto a ottobre – vuoi per essersi trovato nel bel mezzo di un passaggio di testimone tra stili che, ancora, non sembra dirsi compiuto, serba invero qualcosa di miracoloso.
Non ci sono note calde, anzi, ancora oggi, nell’A.D. 2020, il primo calice mostra una nota riduttiva assai evidente al naso e, al palato, un corpo consistente, sostenuto da una elegante acidità. La sensazione citrica non è affatto presente, forse non lo è stata mai, piuttosto il legno appare ancora tanto, molto in evidenza, come faticasse a trovare una sua transustanziazione nel vino.
Si tratta di un legno dolce e importante, che svela a poco a poco note di fiori bianchi appena appassiti, un agrume maturo, note tropicali leggermente verdi, di mango e di platano. Assai persistente la mandorla, che è una mandorla particolare, che ricorda la pizzuta d’Avola. In bocca vanta la rotondità pingue delle figure di Botero, ma mosse e anzi slanciate da un finale acido e un nerbo minerale tanto inaspettato quanto, seppur lieve, assai presente.