Il territorio e la sua storia
Era il 629 d.C. quando i primi monaci dell’Abbaye de Bèze misero a dimora i primi vigneti. Lo fecero dapprima nell’omonimo Clos de Bèze, poi in tutta la zona di Gevrey Chambertin, dando vita a un’apellazione tra le più straordinariamente variegate della contemporaneità, e non solo in riferimento alla Borgogna.
Qui, dopo Gevrey Chambertin, Chambertin e il già citato Chambertin Clos de Beze, in ordine di importanza arrivano due Premier Cru, Clos Saint Jacques e Lavaux Saint Jacques (anche detto Lavaut Saint Jacques), un climat di 9.53 ettari con un mesoclima freddo che la prossimità con la combe Lavaux enfatizza non poco, tanto che quelli di Lavaux sono sempre gli ultimi filari a essere vendemmiati. Condizioni peculiari, queste, che portano il carattere dell’annata a combinarsi con quelle del suolo e dei vari stili aziendali, in una maniera molto caratteristica ancorché contro-intuitiva: perché se è noto che il clima rigido restituisce vini dall’ossatura tendenzialmente fine, è altrettanto vero che, per qualche misteriosa ragione, Lavaux Saint Jacques è quasi sempre associata a vini di grande generosità fruttata e un’espressività quasi gioiosa, assai lontana dalla dark side proverbialmente associata al Pinot noir.
Il domaine e il suo goût Maison
A queste premesse, che sono per loro natura oggettive e ambientali, si deve poi aggiungere la variabile della storia e dello stile personale di Dugat-Py. Il domaine, così come lo conosciamo oggi, è l’esito di una presa di posizione sul mondo e, in particolare, sul conservatorismo di un territorio dove il rispetto per la gerarchia imperversa sin da quel lontano 629 d.C. In particolare, ci riferiamo alla scelta di Bernard Dugat che, dopo anni di conferimento delle uve ai migliori négociantdella zona, decide, nel 1989, di produrre il proprio vino ed etichettarlo autonomamente.
Una presa di coscienza non da poco se consideriamo che i Dugat erano arrivati in Borgogna nei primi anni del XIX secolo per costruire le chiuse del Canal de Bourgogne e, una volta stabilitisi a Gevrey-Chambertin, decisero di dedicarsi alla viticoltura con tale profitto che tra i loro clienti più affezionati nel secondo dopoguerra spiccava una certa Leroy S.a.
Merito, allora, del padre di Bernard, Pierre Dugat, che allevava le sue vigne come le rose del giardino e, grazie alle bassissime rese, lambendo risultati da sempre considerati impressionati per struttura, colore, intensità e tessitura. Per questo, quando l’intraprendente Bernard decise di affrancarsi dalla vendita e di produrre in proprio – col nome di battesimo attuale, creato nel 1994 da Bernard che decide di aggiungere il nome da nubile di sua moglie, Jocelyne Py – l’affermazione fu unanime e immediata e lo stile, perpetuato sino a oggi, immediatamente definito, riconoscibile grazie a un tocco artigianale caratterizzato da estrazioni importanti che la conversione al biologico, coronata nel 2004, ha enfatizzato.
Il vino e l’annata
Assaggiamo dunque il 1er Cru Lavaux St. Jacques 2005 tenendo bene a mente che siamo al cospetto di un’annata controversa: dapprima considerata grande e, poi, ridimensionata, in questo preciso caso associata allo stile modernista di Bernard Dugat, ne sortisce un vino dall’identità peculiare esortata da un’incredibile lunghezza. Chi lo conosce, ben sa che, del resto, siamo agli antipodi rispetto allo stile di Rousseau, ma senza la pesantezza dei vecchi Mortet.
E benché una delle sue caratteristiche sia l’immediata riconoscibilità dei suoi accenti, iperfruttati, Dugat-Py riesce a non essere mai caricaturale. Anzi, combinandosi qui col carattere territoriale di Lavaux St. Jacques che, per molti, è un Grand Cru travestito da Premier Cru paragonabile forse solo a Cros Parantoux, il risultato è quello di un vino eccezionale nel suo genere e prodotto, non a caso, in appena 700 bottiglie.
L’olfatto floreale, molto caratteristico, mostra note di maturità e di morbidezza nonostante i tannini siano poi assai evidenti al palato, calcato da una buona acidità e, soprattutto, da un’importante struttura che parla, in nuce, di un vino che continuerà a invecchiare meravigliosamente nel tempo. Molto eloquente il retrolfatto, abitato da sentori netti di grafite, anice stellato e la percezione verde, altrettanto netta, della non diraspatura. A poco a poco, una cornucopia di frutti rossi e neri si materializzano in una cornice di sottobosco, terra bagnata, humus e tartufo nero. Al secondo sorso il tannino appare già più gentile, per farsi fine e setoso, complesso ed espansivo come un grande Bordeaux, con riferimento a Margaux o Palmer. Nel complesso, una chiave stilistica sicuramente moderna ma non per questo di facile lettura.